Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

La quarantena non è incostituzionale

Corte Costituzionale n. 127 6 aprile – depositata il 26 maggio26 maggio 2022

LA MASSIMA

I «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose». Si è, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

Questa è l’opinione della Corte Costituzionale espressa nella sentenza n. 127 emessa il 6 aprile e depositata il 26 maggio scorso.

La rimessione prese spunto da una causa penale. incardinata presso il Tribunale di Reggio Calabria. dove all’imputato fu contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

LE NORME CENSURATE

La sentenza ha respinto le questioni di incostituzionalità degli artt.  2. 1, comma 6° e 2, comma 3° del decreto-legge 16/05/2020, n. 33, convertito, con modificazioni, nella legge 14/07/2020, n. 74.  (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19).

L’art. 1, comma 6, stabilisce che «è fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, aggiunge che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

SENTENZA N. 127 ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, promosso dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, nel procedimento penale a carico di M. A., con ordinanza del 15 aprile 2021, iscritta al n. 141 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2022 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021), il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

L’art. 1, comma 6, censurato stabilisce che «[è] fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, censurato aggiunge che «[s]alvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

Il giudice rimettente riferisce di dover giudicare un imputato tratto a giudizio direttissimo, tra l’altro, in relazione alla contravvenzione così punita, perché tale persona «non avrebbe osservato un ordine legalmente dato per impedire la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo».

Sarebbe perciò palese la rilevanza della questione, che investe la legittimità costituzionale della norma incriminatrice.

In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che il divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora avrebbe un contenuto «assolutamente identico» alla restrizione imposta mediante gli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 del codice di procedura penale, ovvero mediante la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Gli istituti di diritto penale appena citati inciderebbero senza dubbio sulla libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost.

Il rimettente ne deduce che analoga conclusione debba essere formulata quanto al divieto di mobilità oggetto di causa.

Infatti, la quarantena obbligatoria implicherebbe una limitazione positiva legata alla persona, anziché negativa in relazione ai luoghi: ovvero, essa «non impone un divieto di recarsi in determinati luoghi», ma «un divieto di muoversi a determinati soggetti».

Il giudice a quo ne conclude che il provvedimento di adozione del divieto comporti una restrizione della libertà personale, anziché della libertà di circolazione tutelata dall’art. 16 Cost., e che quindi esso debba essere adottato dall’autorità giudiziaria, o soggetto a convalida di quest’ultima.

Il giudice a quo, escluso che la lettera delle disposizioni impugnate permetta in via interpretativa di ritenere che il provvedimento sia soggetto a convalida dell’autorità giudiziaria, dubita perciò della legittimità costituzionale del divieto di mobilità e del regime penale che ne accompagna la violazione, per lesione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

L’Avvocatura ritiene che la misura alla quale è sottoposto chi si ammala vada ricondotta alla sfera della libertà di circolazione, anziché all’art. 13 Cost., deducendone l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

Ciò sulla base, sia del criterio cosiddetto quantitativo, sia del criterio cosiddetto qualitativo, che sarebbero stati elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte e che determinerebbero, altresì, la non fondatezza della questione.

Infatti, secondo la difesa statale, la restrizione, nel caso di specie, avrebbe carattere lieve e non comprometterebbe la dignità della persona, sottoponendola ad un trattamento degradante.

Tali considerazioni, che sottraggono al campo proprio dell’art. 13 Cost. i trattamenti sanitari obbligatori, varrebbero anche per i «cordoni sanitari» istituiti per contenere il contagio, anche se con provvedimenti diretti nei confronti di singoli individui.

Il divieto di mobilità per cui è causa sarebbe perciò una misura limitativa della libertà di circolazione, di natura provvisoria, e subordinata al «mero accertamento della positività al virus Covid-19».

L’assenza di ogni carattere coercitivo renderebbe, inoltre, improprio il riferimento operato dal giudice rimettente agli istituti degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare, che invece comportano «forme di coazione fisica», quale l’applicazione del regime carcerario, in caso di inosservanza delle misure.

3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, limitandosi a reiterare gli argomenti già svolti in sede di intervento.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021) il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

Il rimettente giudica un imputato al quale è contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

Il giudice a quo reputa il combinato disposto delle norme censurate difforme dall’art. 13 Cost., perché esse non prevedono che il provvedimento dell’autorità sanitaria, con il quale il malato è sottoposto alla cosiddetta quarantena obbligatoria, sia convalidato entro 48 ore dall’autorità giudiziaria.

2.– Nella fase iniziale della pandemia il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, aveva approntato una risposta penale per ogni violazione delle «misure di contenimento» attuate, sulla base di tale fonte primaria, a mezzo di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Tuttavia, fin dall’entrata in vigore del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35, il legislatore ha preferito riservare la sanzione penale alla trasgressione ritenuta più grave, nell’ottica del contenimento del contagio, ovvero alla violazione del «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, purché risultate positive al virus», a condizione che tale misura fosse stata attivata con gli strumenti di cui all’art. 2 di tale testo normativo, ovvero d.P.C.m. o ordinanze del Ministro della salute (art. 1, comma 2, lettera e, del d.l. n. 19 del 2020).

Con le disposizioni oggi censurate è direttamente la legge, senza la successiva intermediazione di un d.P.C.m., a porre il «divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’ autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata» (art. 1, comma 6, del d.l. n. 33 del 2020, come convertito), nonché a stabilire che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265» (art. 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020).

Tale figura contravvenzionale di reato mantiene analoga forma, quanto agli elementi costitutivi della fattispecie e alla pena comminata, con il sopravvenuto art. 4, comma 1, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza), che «a decorrere dal 1° aprile 2022» introduce l’art. 10-ter nel testo del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52 (Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 giugno 2021, n. 87.

Quest’ultima disposizione, saldandosi all’art. 13, comma 2-bis, del d.l. n. 52 del 2021, come introdotto a propria volta dall’art. 11, comma 1, lettera b), del d.l. n. 24 del 2022, continua a comportare che sia incriminato, con la medesima pena, il fatto descritto dalle disposizioni del d.l. n. 33 del 2020, in forza delle quali l’imputato viene giudicato nel processo principale.

Pertanto, è palese che lo ius superveniens non interferisce con l’attuale questione di legittimità costituzionale.

2.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità della questione, perché il rimettente avrebbe errato nel ricondurre la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria allo statuto giuridico della libertà personale (art. 13 Cost.), anziché a quello della libertà di circolazione (art. 16 Cost.), che non contiene in sé, diversamente dal primo, la riserva di giurisdizione.

L’eccezione non è fondata, posto che essa attiene con ogni evidenza al merito della questione, e non già ai suoi profili preliminari.

3.– Nel merito, la questione non è fondata.

3.1.– Il dubbio del rimettente nasce dalla convinzione che una misura così limitativa della facoltà di libera locomozione, da impedire l’uscita dalla propria abitazione durante la malattia, non possa che ricadere nella sfera giuridica della libertà personale, al pari di misure che il giudice a quo reputa del tutto affini quanto al grado di afflittività, ovvero gli arresti domiciliari, che sono una misura cautelare (art. 284 del codice di procedura penale), e la detenzione domiciliare, ovvero una misura alternativa alla detenzione (art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»).

È evidente che la facoltà di autodeterminarsi quanto alla mobilità della propria persona nello spazio, in linea di principio, costituisce una componente essenziale sia della libertà personale, sia della libertà di circolazione.

Tuttavia, i criteri che il rimettente suggerisce per qualificare la fattispecie ai sensi dell’art. 13 Cost., anziché in base all’art. 16 Cost., non hanno mai trovato corrispondenza nella ormai pluridecennale giurisprudenza maturata da questa Corte sul punto controverso.

Questa Corte, con la sentenza n. 68 del 1964, ha già rilevato che i «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose».

Perciò, in linea di principio, e impregiudicato ogni ulteriore profilo concernente la legittimità costituzionale di tali misure, non si può negare che un cordone sanitario volto a proteggere la salute nell’interesse della collettività (art. 32 Cost) possa stringersi di quanto è necessario, secondo un criterio di proporzionalità e di adeguatezza rispetto alle circostanze del caso concreto, per prevenire la diffusione di malattie contagiose di elevata gravità.

A seconda dei casi, in particolare, e sempre alla luce della evoluzione della pandemia, il legislatore potrà orientarsi, sia nel senso di prescrivere un divieto generalizzato a recarsi in determinati luoghi, per esempio quando il fattore di contagio alberghi solo in questi ultimi (ciò che il rimettente definisce «limitazioni negative» legate al luogo, attribuendole all’art. 16 Cost.), sia nel senso di imporre un divieto di spostarsi a determinate persone, specie quando queste ultime, in ragione della libertà di circolare, siano, a causa della contagiosità, un pericoloso vettore della malattia (ciò che il giudice a quo sostiene erroneamente comportare una «limitazione positiva» prescritta all’individuo, come tale in ogni caso presidiata dall’art. 13 Cost.).

3.2.– Si tratta di stabilire, anzitutto, se le modalità con le quali una simile, gravosa misura siano state adottate non trasmodino, in concreto, in restrizione della libertà personale.

3.3.– Inoltre, una volta che si sia giunti alla conclusione che la limitazione introdotta dal legislatore appartenga, a buon titolo, al campo governato dall’art. 16 Cost., e si sia quindi potuto escludere ogni rilievo all’art. 13 Cost., ugualmente occorrerebbe valutare la conformità della misura adottata ai limiti costituzionali che il legislatore incontra in tema di compressione della libertà di circolazione.

Quest’ultima, pur priva della riserva di giurisdizione, resta assistita da garanzie consone al fondamentale rilievo costituzionale che connota la facoltà di locomozione, anche quale base fattuale per l’esercizio di numerosi altri diritti di primaria importanza.

Tuttavia, tale secondo aspetto del problema non è stato sottoposto all’attenzione di questa Corte dal giudice rimettente, che ha invece circoscritto il dubbio di costituzionalità alla violazione dell’art. 13 Cost., sicché è solo a quest’ultima che deve riservarsi ora l’attenzione, restando invece impregiudicato ogni profilo afferente all’osservanza dell’art. 16 Cost.

4.– Nella giurisprudenza costituzionale, il nucleo irriducibile dell’habeas corpus, tutelato dall’art. 13 Cost. e ricavabile per induzione dal novero di atti espressamente menzionati dallo stesso articolo (detenzione, ispezione, perquisizione personale), comporta che il legislatore non possa assoggettare a coercizione fisica una persona, se non in forza di atto motivato dell’autorità giudiziaria, o convalidato da quest’ultima entro quarantotto ore, qualora alla coercizione abbia invece provveduto l’autorità di pubblica sicurezza.

L’impiego della forza per restringere la capacità di disporre del proprio corpo, purché ciò avvenga in misura non del tutto trascurabile e momentanea (sentenze n. 30 del 1962 e n. 13 del 1972), è quindi precluso alla legge dalla lettera stessa dell’art. 13 Cost., se non interviene il giudice, la cui posizione di indipendenza e imparzialità assicura che non siano commessi arbitri in danno delle persone.

Qualora, pertanto, il legislatore intervenga sulla libertà di locomozione, indice certo per assegnare tale misura all’ambito applicativo dell’art. 13 Cost. (e non dell’art. 16 Cost.) è che essa sia non soltanto obbligatoria (tale, vale a dire, da comportare una sanzione per chi vi si sottragga), ma anche tale da richiedere una coercizione fisica.

Per detta ragione, questa Corte ha ritenuto che un mero ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, la cui esecuzione sia affidata alla collaborazione spontanea di chi lo riceve, afferisca alla libertà di circolazione, ma che, diversamente, ove l’ordine comporti la traduzione fisica della persona, esso debba essere assistito dalle garanzie di cui all’art. 13 Cost. (sentenze n. 2 del 1956 e n. 45 del 1960). Parimenti, il respingimento dello straniero con accompagnamento coattivo alla frontiera, a differenza dell’ordine di espulsione, restringe la libertà personale in ragione di tale «modalità esecutiva» (sentenza n. 275 del 2017; in precedenza, sentenza n. 222 del 2004).

L’«assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale» contraddistingue anche il trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza, in quanto l’autorità competente, «avvalendosi della forza pubblica» adotta misure che impediscono di abbandonare il luogo (sentenze n. 105 del 2001; si veda, inoltre, la sentenza n. 23 del 1975).

Sempre in osservanza del fondamentale criterio che attiene alla coercizione fisica, questa Corte ha ricondotto all’art. 13 Cost. l’esecuzione di un prelievo ematico nel corso di un procedimento penale «quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva» (sentenza n. 238 del 1996), ma ha invece escluso l’applicabilità di tale disposizione costituzionale al test alcolemico, ove proposto a chi sia sospettato di aver guidato in stato di ebbrezza, considerato che la persona, pur commettendo reato in caso di rifiuto ingiustificato, «non subisce coartazione alcuna, potendosi rifiutare in caso di ritenuto abuso di potere da parte dell’agente» di pubblica sicurezza (sentenza n. 194 del 1996).

Ed è bene precisare che qualora sia previsto il ricorso alla forza fisica al fine di instaurare o mantenere in essere, con apprezzabile durata, una misura restrittiva della facoltà di libera locomozione, allora la circostanza che la legge abbia introdotto tale misura in via generale per motivi di sanità non comporta che essa vada assegnata alla garanzia costituzionale offerta dall’art. 16 Cost., e sfugga così alla riserva di giurisdizione, posto che detto elemento coercitivo implica necessariamente che sia l’autorità giudiziaria ad applicare la restrizione, o a convalidarne l’esecuzione provvisoria.

Così, in particolare, la garanzia di cui all’art. 13 Cost. raggiunge certamente misure disposte o protratte coattivamente, anche se sorrette da finalità di cura, perché «quanto meno allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come “obbligatorio” – con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso, ma anche come “coattivo” – potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana – le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona» (sentenza n. 22 del 2022).

4.1.– Ciò premesso, l’obbligo, per chi è sottoposto a quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria, in quanto risultato positivo al virus COVID-19, di non uscire dalla propria abitazione o dimora, non restringe la libertà personale, anzitutto perché esso non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia.

Il destinatario del provvedimento è infatti senza dubbio obbligato ad osservare l’isolamento, a pena di incorrere nella sanzione penale, ma non vi è costretto ricorrendo ad una coercizione fisica, al punto che la normativa non prevede neppure alcuna forma di sorveglianza in grado di prevenire la violazione. In definitiva, chiunque sia sottoposto alla “quarantena” e si allontani dalla propria dimora incorrerà nella sanzione prevista dalla disposizione censurata, ma non gli si potrà impedire fisicamente di lasciare la dimora stessa, né potrà essere arrestato in conseguenza di tale violazione.

Non può a tale proposito sfuggire la marcata differenza che separa tale fattispecie dalle ipotesi normative evocate dal rimettente per giustificare l’applicazione dell’art. 13 Cost.

Sia la misura cautelare degli arresti domiciliari (art. 284 cod. proc. pen.), sia la misura alternativa alla detenzione costituita dalla detenzione domiciliare (art. 47-ter della legge n. 354 del 1975) sono, infatti, coattivamente imposte e mantenute in vigore, al punto che l’art. 3 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e di buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, consente l’arresto di chi sia evaso anche al di fuori dei casi di flagranza.

Non vi è quindi, su questo piano, alcun paragone possibile tra l’introduzione, da parte delle norme censurate e a pena di commettere una contravvenzione, del solo obbligo di non uscire di casa se malati, al fine di scongiurare ulteriori contagi, e l’esecuzione di provvedimenti tipici del diritto penale, ai quali è connaturata la coercibilità, perlomeno per i casi di inosservanza.

5.– Fin dagli esordi della sua giurisprudenza, questa Corte ha riconosciuto che l’art. 13 Cost. deve trovare spazio non soltanto a fronte di restrizioni mediate dall’impiego della forza fisica, ma anche a quelle che comportino l’«assoggettamento totale della persona all’altrui potere», con le quali, vale a dire, viene compromessa la «libertà morale» degli individui (sentenza n. 30 del 1962), imponendo loro «una sorta di degradazione giuridica» (sentenza n. 11 del 1956).

Tale criterio di lettura ha trovato ripetutamente applicazione, ove si è trattato di qualificare sul piano costituzionale i limiti imposti alla facoltà di libera locomozione, che non fossero accompagnati da forme di coercizione (sentenze n. 144 del 1997; n. 193 e n. 143 del 1996; n. 210 del 1995; n. 419 del 1994; n. 68 del 1964; n. 45 del 1960), e che, di conseguenza, si prestavano, in linea astratta, a convergere verso il campo di applicazione dell’art. 16 Cost.

Questa Corte ha tenuto ferma, al contrario, la necessità che simili restrizioni, ove implicanti «degradazione giuridica», fossero assistite dalle piene garanzie dell’habeas corpus offerte dallo statuto della libertà personale.

Specie a fronte di un vasto apparato di misure di prevenzione, che la legislazione dei tempi affidava alla gestione della sola autorità di pubblica sicurezza, si è infatti ritenuto che la medesima esigenza costituzionale di preservare la libertà dell’individuo, comprimibile solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge, dovesse essere avvertita non soltanto innanzi allo spiegamento di forme coercitive (il cui esercizio segna la più icastica manifestazione del monopolio statale della forza), ma anche per quei casi nei quali la legge assoggetta l’individuo a specifiche prescrizioni che si riflettono sulla facoltà di disporre di sé e del proprio corpo, compresa quella di locomozione, recando al contempo «una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona» (sentenze n. 419 del 1994 e n. 68 del 1964).

Si tratta, è appena il caso di precisarlo, di un criterio che è stato utilizzato nella giurisprudenza di questa Corte solo per allargare lo scudo protettivo dell’art. 13 Cost., e in nessun caso per ridimensionarlo: in altri termini, ove la restrizione sia ottenuta mediante coercizione fisica, essa continua ad afferire alla libertà personale, quand’anche non rechi degradazione giuridica.

Nel caso opposto, prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l’individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità.

5.1.– Naturalmente, può essere complicato, talvolta, distinguere, tra le incisioni della facoltà di locomozione, quelle che convergono, in quanto degradanti, verso la libertà personale, e quindi di competenza dell’autorità giudiziaria, e quelle che, invece, afferiscono alla libertà di circolazione.

Basti pensare, a tale proposito, che questa Corte ha ravvisato la pertinenza dell’art. 13 Cost. a fronte dell’obbligo, non coercibile, di comparire presso un ufficio di polizia durante lo svolgimento di manifestazioni sportive (sentenze n. 193 e n. 143 del 1996), ma la ha invece esclusa con riguardo al divieto di accedere agli stadi, perché l’assenza di un contatto con la pubblica autorità, in tal caso, determina una «minore incidenza sulla sfera della libertà del soggetto», ovvero non ne comporta una degradazione giuridica afferente alla dignità della persona (sentenza n. 193 del 1996).

Non vi è in questi casi, e salvo eccezioni, quel sottostante giudizio sulla personalità morale del singolo, e la incidenza sulla pari dignità sociale dello stesso, che reclamano, ove posti a base di una misura restrittiva pur non coercitiva, l’apparato di garanzie predisposto a tutela della libertà personale. Tuttavia, non è detto che questo sia sufficiente sul piano costituzionale, e che non debbano invece aggiungersi a ciò, in casi del tutto particolari, le garanzie offerte dall’art. 13 Cost., alla luce delle peculiarità con cui si è eventualmente manifestato l’intervento legislativo.

6.– Sulla base di questi principi deve ritenersi che, nel caso di specie, è palese che la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria recata dall’art. 1, comma 6, censurato non determina alcuna degradazione giuridica di chi vi sia soggetto e quindi non incide sulla libertà personale.

Si è qui, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

6.1.– Va infine ribadito che il paragone che il giudice rimettente instaura con le misure degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare è insostenibile.

In tali casi si è infatti in presenza di misure proprie del diritto penale, la cui applicazione è inscindibilmente connessa ad una valutazione individuale della condotta e della personalità dell’agente, da parte dell’autorità giudiziaria a ciò costituzionalmente competente.

Sono, questi, elementi che danno pienamente conto delle ragioni per le quali non è dubitabile che simili misure siano soggette alla riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost., ma che, al contempo, servono a chiarire perché non lo debba invece essere la cosiddetta quarantena obbligatoria, che non fa seguito ad alcun tratto di illiceità, anche solo supposta, nella condotta della persona, ma alla sola circostanza, del tutto neutra sul piano della personalità morale e della pari dignità sociale, di essersi ammalata a causa di un agente patogeno diffuso nell’ambiente.

Per tale ragione, sebbene il legislatore abbia costruito la figura di reato sull’inosservanza del provvedimento che sottopone la singola persona alla quarantena a seguito di positività al test del virus Covid-19, non solo non vi è alcun obbligo ai sensi dell’art. 13 Cost. che tale provvedimento sia convalidato dall’autorità giudiziaria, ma di quest’ultimo provvedimento amministrativo non vi sarebbe neppure stata la necessità costituzionale.

Il legislatore ben potrebbe, infatti, configurare come reato la condotta di chi, sapendosi malato, lasci la propria abitazione o dimora, esponendo gli altri al rischio del contagio, senza la necessità della sopravvenienza di un provvedimento dell’autorità sanitaria. Ciò infatti è accaduto durante la vigenza del d.l. n. 19 del 2020, il cui art. 4, comma 6, aveva provveduto proprio in tal senso.

Del resto, la natura del virus, la larghissima diffusione di esso, l’affidabilità degli esami diagnostici per rilevarne la presenza, sulla base di test scientifici obiettivi, fugano ogni pericolo di «arbitrarietà e di ingiusta discriminazione» (sentenza n. 68 del 1964), tale da chiamare in causa il giudice, affinché la misura dell’isolamento sia disposta, o convalidata tempestivamente; fermo restando che il malato non solo, come si è visto, può sottrarsi alla misura obbligatoria, ma non coercitiva (pur sostenendone le conseguenze penali), ma può altresì far valere le proprie ragioni, in via di urgenza, innanzi al giudice comune, perché ne sia accertato il diritto di circolare, qualora difettino i presupposti per l’isolamento.

7.– In definitiva, la questione di legittimità degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020 non è fondata, in riferimento all’art. 13 Cost., perché la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione, anziché restringere la libertà personale.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, sollevata, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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Vigile attesa significa controllo non abbandono

CONSIGLIO DI STATO – sezione terza – 09/02/2022 n. 946

Emerge con tutta evidenza come la circolare impugnata non violi in alcun modo il principio di precauzione, ma anzi ne costituisca applicazione, fondandosi sulla valutazione in sede istruttoria di tutti i dati scientifici disponibili, mentre gli odierni appellati non sono riusciti a dimostrare, sulla base di evidenze scientifiche attendibili e, dunque, di studi clinici randomizzati e controllati, che la circolare raccomandi trattamenti terapeutici inutili o dannosi o, al contrario, sconsigli farmaci appropriati per la cura domiciliare della malattia in contrasto con dette evidenze.

SENTENZA

ai sensi degli artt. 38 e 60 c.p.a. sul ricorso numero di registro generale 411 del 2022, proposto dal Ministero della Salute, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

Omissis , rappresentati e difesi dall’Avvocato Erich Grimaldi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Valentina Piraino in Roma, via Rodolfo Lanciani, n. 69;

per la riforma

della sentenza n. 419 del 15 gennaio 2022 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. III, resa tra le parti, che ha annullato le linee guida per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2 (Covid-19).

visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio degli appellati, ricorrenti in prime cure, Fabrizio Salvucci, di Riccardo Szumski e di Luca Poretti;

visti tutti gli atti della causa;

uditi i difensori e viste le conclusioni delle parti come da verbale;

relatore nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2022 il Consigliere Massimiliano Noccelli;

sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;

1. Il 30 novembre 2020 il Ministero della Salute (di qui in avanti, per brevità, il Ministero), odierno appellante, ha adottato una circolare intitolata “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2”, 2 al fine di fornire indicazioni operative, tenuto conto dell’attuale evoluzione della situazione epidemiologica sul territorio nazionale.

1.1. Tale circolare conteneva un espresso rinvio alla nota dell’Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA (di qui in avanti, per brevità, l’AIFA), recante “Principi di gestione dei casi covid 19 nel setting domiciliare” e comprendente «raccomandazioni sul trattamento farmacologico domiciliare dei casi lievi e una panoramica generale delle linee di indirizzo AIFA sulle principali categorie di farmaci utilizzabili in questo setting».

1.2. Avverso questa circolare nonché avverso la nota dell’AIFA in essa recepita, gli stessi odierni appellati hanno proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (di qui in avanti, per brevità, solo il Tribunale), iscritto al R.G. n. 1557/2020.

1.3. Questo giudizio è stato definito dalla sentenza n. 8995 del 2021 del medesimo Tribunale, che ne ha statuito l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, motivata dalla sopravvenienza della successiva circolare del 26 Aprile 2021.

1.4. Con la circolare del 26 Aprile 2021, infatti, il Ministero ha provveduto all’aggiornamento della circolare del 30 novembre 2020, «tenuto conto dell’evoluzione della situazione epidemiologica sul territorio nazionale e delle emergenti conoscenze scientifiche».

1.5. Tale aggiornamento è stato curato da un Gruppo di Lavoro (tra i cui componenti figurano rappresentanti istituzionali, professionali e del mondo scientifico e, in particolare, anche un rappresentante dei Medici di Medicina generale – MMG), appositamente costituito dalla Direzione Generale della Programmazione Sanitaria e dalla Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria del Ministero.

1.6. Su tale aggiornamento ha espresso peraltro parere favorevole il Consiglio superiore di sanità.

1.7. La circolare fornisce una panoramica generale delle linee di indirizzo dell’AIFA sulle principali categorie di farmaci, precisando che le raccomandazioni fornite sui farmaci per la gestione domiciliare di COVID-19 riflettono la letteratura e le indicazioni esistenti e si basano anche sulle Schede Informative AIFA, aggiornate in relazione alla rapida evoluzione delle evidenze scientifiche (https://www.aifa.gov.it/aggiornamento-sui-farmaciutilizzabili-per-il-trattamento-della-malattia-covid19 ).

1.8. Dopo aver dato indicazioni in merito all’avvio del paziente alla terapia con anticorpi monoclonali, alle indicazioni relative alla gestione domiciliare del COVID-19 in età pediatrica ed evolutiva, ed alle prestazioni in telemedicina, la suddetta circolare riporta espressamente le aggiornate raccomandazioni dell’AIFA sui farmaci per la gestione domiciliare di COVID-19.

2. Per l’annullamento della suddetta circolare del 26 aprile 2021, unitamente ad ogni altro atto connesso, presupposto ovvero consequenziale, hanno proposto ricorso al Tribunale i dottori Fabrizio Salvucci, Riccardo Szumski e Luca Poretti, odierni appellati, censurandola nella parte in cui «nei primi giorni di malattia da Sars-Cov-2, prevede unicamente una “vigilante attesa” e la somministrazione di fans e paracetamolo, nonché nella parte in cui pone indicazioni di non utilizzo di tutti i farmaci generalmente utilizzati dai medici di medicina generale per i pazienti affetti da covid».

2.1. A sostegno delle proprie tesi gli appellati hanno esposto di essere medici di medicina generale e specialisti che, durante la pandemia da COVID-19, si sono occupati dei pazienti, affetti da tale patologia, esercitando la loro attività sull’intero territorio nazionale e di essere, pertanto, destinatari della nota, oggetto di impugnazione, che stabilisce i criteri di trattamento dei pazienti affetti da COVID-19 in ambito domiciliare.

2.2. I ricorrenti in prime cure, odierni appellati, hanno contestato le Linee guida da AIFA e recepite dal Ministero, sulla gestione domiciliare del paziente, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, fanno un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti stessi.

2.3. La comunicazione oggetto di impugnativa, infatti, disporrebbe quali unici criteri confermati e definiti per il trattamento dei pazienti affetti da Sars-CoV-2 una vigilante attesa e la somministrazione successiva di FANS e paracetamolo.

2.4. Il provvedimento impugnato porrebbe invero alle pp. 11 e 12, in particolare, importanti limitazioni all’utilizzo degli altri farmaci generalmente utilizzati dai territori con la conseguenza che rende inutile e dagli esiti nefasti la gestione del paziente a domicilio. 2.5. Nella terapia del COVID-19, hanno sostenuto in sintesi i ricorrenti in prime cure allegando anche documentazione scientifica, evidenze cliniche riscontrate in molti Paesi, non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti dal Prof. H. Risch di Yale University o dal Prof. P. McCullough di Texas University, come da molte pubblicazioni scientifiche, dimostrano come sia palmare che, per trattare efficacemente il paziente affetto da Sars-CoV-2, il timing, la precocità di intervento terapeutico, sia tutto.

2.5. Nelle more del giudizio così introdotto, l’AIFA ha provveduto a pubblicare due successivi aggiornamenti delle raccomandazioni, segnatamente il 4 ottobre 2021 e il 14 dicembre 2021.

2.6. Tali aggiornamenti non hanno peraltro formato oggetto di cognizione da parte del Tribunale nell’ambito del giudizio R.G. n. 6949/2021.

2.7. Piuttosto, solo il primo di tali aggiornamenti ha formato oggetto di autonomo ricorso al Tribunale, iscritto al R.G. n. 13510/21, allo stato non definito.

2.8. Nel giudizio definito dalla sentenza oggi impugnata si è costituito il Ministero della Salute, eccependo:

– l’inammissibilità del ricorso, per le ragioni che qui di seguito si riassumono:

a) l’omessa impugnazione della Raccomandazione AIFA, recepita nella circolare ministeriale come sua parte integrante, e dei relativi aggiornamenti medio tempore intervenuti;

b) l’inidoneità della circolare impugnata a ledere gli interessi dei ricorrenti, in quanto recante indicazioni orientative, insuscettibili di incidere sull’autonomia prescrittiva del medico;

c) la natura della situazione soggettiva azionata, adombrandosi nel ricorso la lesione di interessi diffusi, azionati dai ricorrenti per conto anche di altri medici o, comunque, quali portatori di interessi della categoria dei medici di medicina generale, ovvero finanche dei pazienti, in un’inedita quanto non consentita forma di sostituzione processuale;

– l’infondatezza del ricorso, per le ragioni qui di seguito sempre compendiate:

a) nella misura in cui lo stesso è diretto a sostenere che la circolare realizzerebbe un’illegittima limitazione dell’autonomia prescrittiva dei medici, imponendo loro il rispetto di una serie di divieti: in breve, secondo il Ministero, le linee di indirizzo fornite – lungi dall’integrare una lista dei “farmaci da non usare” e, quindi, un elenco di divieti rivolti ai medici – recano semplicemente la definizione delle condizioni in cui le evidenze di letteratura consentono di stimare l’efficacia di un farmaco raccomandandone, o meno, l’utilizzo;

b) nella misura in cui si incentra sulla contestazione nel merito delle valutazioni tecnico-discrezionali dell’AIFA richiamate nella circolare, si è contestata in particolare, da parte delle amministrazioni resistenti, la mancanza di attendibilità scientifica delle esperienze cliniche dei ricorrenti, non potendosi legittimamente accordare preferenza al dato empirico rispetto a quello scientifico posto a base della valutazione tecnico-discrezionale dell’Autorità regolatoria.

2.9. Il Ministero ha, inoltre, invocato i noti limiti del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica, in mancanza di vizi macroscopici quali il travisamento dei fatti e l’assoluta abnormità/illogicità del relativo esercizio.

3. Con la sentenza n. 419 del 15 gennaio 2022, all’esito del giudizio così instaurato dagli odierni appellati, il Tribunale ha accolto il ricorso.

3.1. Segnatamente, il primo giudice ha rigettato l’eccezione di inammissibilità per omessa impugnativa della nota AIFA del 26 aprile 2021 richiamata nella circolare, ritenendo che «nel momento in cui l’indicata raccomandazione è stata pedissequamente mutuata nella circolare ministeriale essa ha perso ogni singolare valenza, compresa una sua autonoma esistenza giuridica ed ha costituito, pertanto, la sola motivazione del provvedimento contestato».

3.2. Ciò posto, il Tribunale ha statuito che «le censurate linee guida, come peraltro ammesso dalla stessa resistente, costituiscono mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli» e che «in disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito».

3.3. La prescrizione dell’AIFA, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasterebbe, pertanto, «con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione [sic, n.d.r.], imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi [sic, n.d.r] eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia COVI 19 [sic, n.d.r.] come avviene per ogni attività terapeutica».

4. Avverso tale sentenza il Ministero ha proposto appello avanti a questo Consiglio di Stato, deducendone l’erroneità con un unico articolato motivo, di cui meglio si dirà in seguito, con il quale ha dedotto la violazione o la falsa applicazione di legge in relazione all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 23 del 1998, conv con mod. in l. n. 94 del 1998, degli artt. 47-bis, comma 2, 47-ter, comma 1, lett. a), del d. lgs. n. 300 del 1999 nonché dell’art. 48, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003, e ne ha chiesto, previa sospensione dell’esecutività, la riforma, con la conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso, proposto in primo grado dagli odierni appellati.

4.1. Con il decreto n. 207 del 19 gennaio 2022 il Presidente della III Sezione ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata e ha fissato, per la trattazione collegiale della domanda cautelare proposta dal Ministero, la camera di consiglio del 3 febbraio 2022.

4. Gli odierni appellati si sono costituiti, con la memoria difensiva tardivamente depositata il 2 febbraio 2022, per chiedere la reiezione dell’appello e della domanda incidentale di sospensione della esecutività della sentenza impugnata.

4.1. Nella camera di consiglio del 3 febbraio 2022 il Collegio ha di poter eventualmente decidere la controversia ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ne ha dato rituale avviso alle parti e, sentiti i difensori delle parti e sulle conclusioni dagli stessi rassegnate come da verbale, dopo ampia discussione orale ha trattenuto la causa in decisione.

5. L’appello proposto dal Ministero è fondato per le ragioni che seguono.

5.1. In via preliminare deve essere dichiarata la tardività della memoria difensiva depositata dagli odierni appellati solo il 2 febbraio 2022, il giorno precedente la camera di consiglio fissata alla data del 3 febbraio 2022 per la trattazione collegiale della domanda cautelare proposta dal Ministero appellante, con la conseguente inammissibilità delle argomentazioni difensive svolte in detta memoria e della documentazione allegata alla stessa per la violazione del termine previsto dall’art. 55, comma 5, c.p.a., secondo cui le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio.

5.2. Rimane ferma, e valida, la costituzione a mezzo di tale memoria degli appellati, che del resto, per il tramite del loro difensore, hanno svolto ampie e argomentate deduzioni difensive nel corso della discussione orale tenutasi nell’udienza camerale, nella quale il Collegio ha dato avviso orale alle parti della possibilità di definire la controversia in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a.

6. La risoluzione delle questioni controverse, relative alla legittimità delle Linee guida adottate dal Ministero sulla base delle raccomandazioni dell’AIFA in ordine alla gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2, impone di definire, e circoscrivere precisamente, l’oggetto del giudizio.

6.1. La circolare ministeriale del 26 aprile 2021 si limita a raccogliere le indicazioni degli organismi internazionali, i pronunciamenti delle autorità regolatorie e gli orientamenti di buona pratica clinica asseverati dagli studi nazionali ed internazionali, al fine di fornire a tutti gli operatori interessati un quadro sinottico, aggiornato ed autorevole, di riferimento.

6.2. Le raccomandazioni così fornite sono, dunque, in primo luogo espressione della funzione regolatoria dell’AIFA, ai sensill’art. 48, commi 3 e 5, del d. lgs. n. 269 del 2003, e il loro contenuto è stato poi arricchito con ulteriori indicazioni terapeutiche fornite dal Gruppo di lavoro a tal fine costituito, ed il testo conclusivo, acquisito il parere del Consiglio superiore di sanità, è stato infine pubblicizzato e diramato con la circolare qui contestata.

6.3. Come rileva il Ministero appellante, che si tratti di mere indicazioni/raccomandazioni è reso evidente, prima di tutto, dal tenore testuale della circolare, posto che non vi si istituiscono divieti e precetti e si fa riferimento, piuttosto, a «indicazioni di gestione clinica», richiamando le linee di indirizzo dell’AIFA.

6.4. La tesi degli odierni appellati, accolta invece dal primo giudice, è che la circolare conterrebbe una lista dei “farmaci da non usare”.

6.5. Al contrario, essa reca solo la definizione di condizioni per le quali le evidenze di letteratura consentono di stimare l’efficacia di un farmaco raccomandandone o meno l’utilizzo, così da non realizzare alcuna interferenza con l’autonomia prescrittiva del medico.

6.6. Al riguardo è bene rammentare – v, sul punto, già l’ordinanza n. 7097 dell’11 dicembre 2020 di questa Sezione, ai §§ 23-23.4. – che l’art. 3, comma 2, del d.l. n. 23 del 1998, conv. in l. n. 94 del 1998, dispone, quanto all’utilizzo off label di farmaci autorizzati per determinate indicazioni terapeutiche, che «in singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di 9 somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536 , convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale».

6.7. Nel caso di specie, l’atto annullato non impone divieti o limitazioni all’utilizzo di farmaci, bensì si limita ad indicare, con raccomandazioni e linee di indirizzo basate sulle migliori evidenze di letteratura disponibili, i vari percorsi terapeutici, a seconda del ricorrere di specifiche condizioni.

6.8. Più precisamente, le raccomandazioni si riferiscono alla gestione farmacologica dei casi lievi di COVID-19.

7. In linea generale, per le persone con queste caratteristiche cliniche non è indicata alcuna terapia, al di fuori di un eventuale trattamento sintomatico di supporto.

7.1. Tra le indicazioni si introduce la valutazione sui pazienti da indirizzare nelle strutture di riferimento per il trattamento con anticorpi monoclonali, vengono date indicazioni più accurate sull’utilizzo dei cortisonici, specificati gli usi inappropriati dell’eparina, indicati i farmaci che è raccomandato non utilizzare.

7.2. Infine, nei soggetti a domicilio asintomatici o paucisintomatici, viene esplicitato il concetto di “vigile attesa”, intesa – lo si vedrà meglio anche in seguito – come sorveglianza clinica attiva, costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente.

7.3. In particolare, la circolare consiglia – ma, si ribadisce, di certo non impone – di:

– non modificare, a meno di stringente ragione clinica, le terapie croniche in atto per altre patologie (es. terapie antiipertensive, ipolipemizzanti, ipoglicemizzanti, anticoagulanti o antiaggreganti, terapie psicotrope);

– utilizzare un trattamento di tipo sintomatico con paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso, o altri farmaci sintomatici su giudizio clinico;

– non utilizzare routinariamente corticosteroidi, perché un utilizzo precoce di questi farmaci si è rivelato inutile, se non dannoso, in quanto in grado di inficiare lo sviluppo di un’adeguata risposta immunitaria;

– utilizzare l’eparina solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto;

– evitare l’uso empirico di antibiotici, in quanto il loro eventuale utilizzo è da riservare esclusivamente ai casi in cui l’infezione batterica sia stata dimostrata da un esame microbiologico e a quelli in cui il quadro clinico ponga il fondato sospetto di una sovrapposizione batterica;

– non utilizzare l’idrossiclorochina, la cui efficacia non è stata confermata in nessuno degli studi clinici randomizzati fino ad ora condotti;

– valutare, nei pazienti a rischio di progressione di malattia, la possibilità di trattamento precoce con anticorpi monoclonali da parte delle strutture abilitate alla prescrizione.

7.4. La circolare segnala, inoltre, che, a oggi, non esistono evidenze solide e incontrovertibili – ovvero derivanti da studi clinici controllati – di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (come vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercitina), il cui utilizzo per questa indicazione non è, quindi, raccomandato (ma, si noti, lo stesso non è certo vietato).

7.5. Inoltre, come detto, in considerazione della costante evoluzione delle conoscenze sull’infezione, sul decorso della malattia da COVID-19 e sulle possibilità terapeutiche, il documento è periodicamente aggiornato, al fine di rendere le indicazioni conformi alla pratica clinica internazionale, sulla base delle emergenti conoscenze scientifiche, secondo quel modello di amministrazione adattiva e flessibile, già posto in rilievo dalla sentenza n. 7045 del 20 ottobre 2021 di questa Sezione.

8. Così definito l’oggetto del giudizio, dunque, occorre inquadrare anzitutto la questione sul piano giuridico e, poi, esaminare in modo più approfondito, a livello scientifico, i risvolti terapeutici.

9. Quanto al primo aspetto, anzitutto, bene rileva il Ministero appellante come la sentenza impugnata abbia travisato la reale portata della circolare ministeriale e delle richiamate raccomandazioni dell’AIFA, che non contengono prescrizioni vincolanti per i medici e non hanno un effetto precettivo cogente.

9.1. Questo Consiglio di Stato, nell’ordinanza n. 2221 del 23 aprile 2021, richiamata dallo stesso Tribunale all’esito dell’appello cautelare contro l’ordinanza n. 1421 del 2021 nel giudizio R.G. 1557/2020, ha già chiarito che le Linee guida, fondate su evidenze scientifiche documentate in giudizio, forniscono all’autonomia prescrittiva del medito un ausilio senza vincolarlo all’obbligatoria osservanza delle loro raccomandazioni.

9.2. La sentenza impugnata, pur richiamando e citando a fondamento del proprio giudizio le motivazioni di tale ordinanza che, si ribadisce, ha negato espressamente la vincolatività di dette indicazioni, è invece pervenuta – in modo illogico e contraddittorio rispetto alla premessa del proprio ragionamento – all’opposta conclusione secondo cui il contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti prescrizioni scelte terapeutiche, si porrebbe in contrasto con l’attività professionale, così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale.

9.3. In questo modo, però, il Tribunale ha trascurato di considerare ancora una volta che le Linee guida contengano mere raccomandazioni e non prescrizioni cogenti e si collocano, sul piano giuridico, a livello di semplici indicazioni orientative, per i medici di medicina generale, in quanto parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello internazionale.

9.4. Sul piano sistematico, esse si inscrivono dunque a pieno titolo in quella più complessa fenomenologia, ben nota all’esperienza giuridica contemporanea in diversi settori dell’ordinamento, del c.d. soft law che, in ambito medico, assume una connotazione peculiare, per le specifiche ragioni che ora si diranno.

9.5. La Circolare contestata in questo giudizio costituisce, dunque, un documento riassuntivo ed indicativo delle migliori pratiche che la scienza e l’esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, come bene ha messo in rilievo anche il decreto monocratico n. 207 del 19 gennaio 2022 di questo Consiglio di Stato.

10. Non si può pertanto condividere, perché erronea, la conclusione che le Linee guida contenute nella circolare ministeriale – al di là dello stesso strumento formale, la circolare stessa che, come noto, per costante giurisprudenza di questo Consiglio non ha valore normativo o provvedimentale e non ha efficacia vincolante per i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse (v. ex plurimis, sul punto, Cons. St., sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 313) – incidano sostanzialmente sull’autonomia prescrittiva del medico e gli impediscano di prescrivere ai pazienti i farmaci che egli ritenga più idonei a curare l’infezione da Sars-CoV-2 nella gestione domiciliare della malattia.

10.1. Ben è libero il singolo medico, nell’esercizio della propria autonomia professionale, ma anche nella consapevolezza della propria responsabilità, di prescrivere i farmaci che ritenga più appropriati alla specificità del caso, in rapporto al singolo paziente, sulla base delle evidenze scientifiche acquisite.

10.2. La già richiamata disposizione dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 23 del 1998, che riconosce la possibilità di prescrivere, seppure – non va dimenticato – a certe tassative condizioni, il farmaco off label da parte del medico curante, è il portato dell’autonomia decisionale del medico nella propria sfera di competenza, che è uno dei cardini intorno ai quali ruota il diritto sanitario, ed è un principio che si trae non solo dall’art. 33, comma primo, Cost., per il quale la scienza è libera, ma anche dall’art. 9, comma primo, Cost., per il quale la Repubblica promuove la ricerca scientifica.

10.3. Ed è appena il caso di ricordare, come già sottolineato nella già citata ordinanza n. 7097 del 2020 di questo Consiglio, che la Corte costituzionale, in numerose pronunce anche recenti, ha chiaramente affermato questo principio con l’osservazione che la regola di fondo di uno Stato democratico, in questa materia, è costituita dall’autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso informato del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione, sicché «autonomia del medico nelle sue scelte professionali e obbligo di tener conto dello stato delle evidenze scientifiche e sperimentali, sotto la propria responsabilità, configurano dunque un altro punto di incontro dei principi in questa materia» (v., per tutte, Corte cost., 26 giugno 2002, n. 282, ma v. anche Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151 e, più di recente, Corte cost., 12 luglio 2017, n. 169).

10.4. Si può e si deve aggiungere, in questa sede, anche di più, non potendosi prescindere da quanto questa stessa Sezione ha precisato nella recente sentenza n. 7045 del 20 ottobre 2021, con richiamo, peraltro, ai principî generali già affermati, anni or sono, dalla sentenza del 2 settembre 2014, n. 4460.

10.5. Nella relazione di cura e fiducia che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della l. n. 219 del 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), si instaura tra il singolo medico e il singolo paziente, si badi, viene in rilievo ed è centrale un concetto, e un impiego, della cura intesa non come astratto e indifferenziato protocollo, applicabile comunque e a chiunque, ma come scelta terapeutica concreta, costruita sulla base del consenso informato e, dunque, di una scelta condivisa da parte del singolo paziente per il suo benessere psicofisico, secondo la visione che della propria dignità personale e conseguentemente secondo la percezione, unica ed esclusiva, che egli ha del proprio corpo, della propria salute e, per converso, della propria malattia.

10.6. La cura non è una entità astratta, metafisica, calata dall’alto e imposta al singolo paziente, anche a mezzo di raccomandazioni e Linee guida, dallo Stato o dalle istituzioni sanitarie, salvo il caso eccezionale – che qui non ricorre – delle prestazioni sanitarie obbligatorie di cui all’art. 32, comma secondo, Cost., ma il frutto di una strategia concreta, individualizzata, che risponde non solo, e ovviamente, ad una precisa necessità terapeutica, una volta diagnosticata una certa malattia, ma anzitutto al concetto di dignità che di sé ha la singola persona, nell’incontro tra l’autonomia professionale del medico e il consenso informato del paziente (Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460, ma sul tema v., ancor più recente, in ordine alle decisioni di fine vita da parte del paziente la fondamentale pronuncia della Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242).

10.7. Lo stesso art. 1, comma 3, della l. n. 219 del 2017 prevede del resto, in modo chiaro e inequivocabile, che ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.

10.8. La codificazione del sapere scientifico in regole tecniche scritte che, come taluno ha detto, costituisce un punto di non ritorno, il processo di standardizzazione delle cure, l’impiego sempre più frequente di protocolli medici, le raccomandazioni contenute nelle Linee guida in ambito sanitario – si pensi, per tutti, all’art. 5 della l. n. 24 del 2017 – rispondono a livello internazionale e nazionale, come è ovvio, all’esigenza di individuare una strategia terapeutica comune e condivisa, che consenta al medico di fare proprie le acquisizioni scientifiche e le esperienze cliniche diffuse e condivise, che hanno dimostrato un profilo di efficacia e sicurezza largamente acclarato a livello scientifico nella cura di una patologia, e sono cresciuti di pari passo, come bene è stato osservato, con l’affermarsi della medicina basata sull’evidenza (c.d. evidence based medicine), ma non esimono il medico, anzitutto, dal dovere di costruire una terapia condivisa e ritagliata sulle esigenze del singolo paziente, anche adottando terapie non indicate nelle linee guida o nei protocolli, purché – lo si dirà tra breve – sicure ed efficaci.

11. Quest’ordine di idee viene anche espresso, sul piano tecnico, dal concetto di refutabilità delle linee guidain ambito medico, da intendersi nel senso di non necessaria applicabilità rispetto allo specifico caso clinico per le peculiarità di questo, ed è ovvio che questo concetto, che sul piano giuridico si traduce nella non vincolatività dei protocolli stessi, non può e non deve essere confuso con quello, di cui meglio si dirà, della confutabilità dei protocolli stessi.

11.1. È stato bene osservato che la disapplicazione – o, per meglio dire, non applicazione – delle Linee guida e delle buone pratiche – che costituiscono, in senso lato, la cristallizzazione delle migliori regole del sapere scientifico in un determinato momento storico – restituisce rilevanza al paziente come persona in quanto la singolarità, dal punto di vista clinico, non è l’eccezione, ma la norma, sicché, fermo il carattere orientativo “di base” delle linee guida, dei protocolli sanitari o delle buone pratiche clinico-assistenziali per tutti i medici, ad ogni malato deve essere assicurato, nella diagnosi della malattia e nella prescrizione della cura, il rispetto della propria – eventuale – “diseguaglianza clinica”.

11.2. In ciò si manifesta appunto la fondamentale differenza, non colta dal primo giudice, tra le regole deontiche, cogenti sul piano giuridico, e le regole tecniche (o anancastiche), come quelle in esame, dettate con carattere riepilogativo di una certa esperienza, nel passato, e orientativo di un certo comportamento, nel futuro, le quali ultime sono appunto refutabili o superabili dal medico, nel doveroso esercizio della propria autonomia professionale, perché si basano su ragioni determinabili e intersoggettivamente valide per essere costruite sull’esperienza più qualificata, che può essere superata, aggiornata e persino smentita dalle peculiarità del quadro clinico, essendo la giustificazione pratica su cui si fonda la regola pratica sottoponibile, come noto, a controllo empirico.

11.3. Come il paziente, il singolo paziente, non è un astratto, anonimo e quasi indifferente oggetto di cura, ma è invece soggetto primario e fine della stessa cura, così il medico, il singolo medico, non è, e non può essere, passivo recettore di acquisizioni scientifiche, meccanico esecutore di protocolli o mero prescrittore di farmaci, adatti a tutti e a nessuno.

12. Sono queste, la irriducibile singolarità del paziente e l’irriducibile autonomia del medico nell’individuazione della cura in concreto nel senso sopra inteso, due aspetti, speculari e inscindibili, di uno stesso essenziale valore, quella relazione di cura e fiducia, cuore del rapporto terapeutico, che risponde al valore più alto dell’ordinamento, la dignità della persona umana, a tutela della quale la Costituzione definisce e garantisce, nell’art. 32, la salute – unico tra i diritti della persona, non a caso, ad essere definito espressamente tale dalla Costituzione – come diritto «fondamentale» dell’individuo.

12.1. Se riguardata da questa irrinunciabile prospettiva, nell’ambito dei valori di civiltà giuridici più alti, in quanto costitutivi della persona umana, tutelati dalla Costituzione, la tesi secondo cui le Linee guida vincolerebbero il medico ad eseguire determinati protocolli o a prescrivere certi farmaci e non altri contro la singolarità del caso clinico urta non solo contro l’autonomia del medico, sancita dal codice di deontologia professionale e dallo stesso ordinamento in numerose disposizioni normative, sopra richiamate, ma anche contro lo stesso diritto alla salute, quale massima, primaria manifestazione della dignità umana, e il principio personalistico posto a base della Costituzione.

12.2. Nemmeno si può ritenere decisivo il richiamo dell’art. 5 della l. n. 24 del 2017 poiché, come bene anzitutto osserva lo stesso Ministero appellante, le Linee guida previste dall’art. 5, comma 1, della l. n. 24 del 2017 (recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”) hanno, a tacer d’altro, presupposti ed effetti ben diversi da quelle qui in considerazione e, dunque, non sono assimilabili a quelle qui contestate.

12.3. Anzi proprio l’esempio di tali Linee guida conferma, invece, che in via generale esse non sono cogenti per il medico, trattandosi, come è stato bene osservato, non di ordini calati dall’altro, categorici e definitivi, ma di suggerimenti, indirizzi motivati, e dediti a tener contro di tutte le istanze, anche confliggenti, quali emergono dal mondo dei sanitari, dei pazienti, degli amministratori, dei giuristi stessi, sicché la stessa dottrina medico-legale, pur nell’ampio dibattito che interessa medici e giuristi sulla natura e sulla portata delle Linee guida di cui non è possibile qui dar conto, concorda ormai sulla loro relatività, sul loro valore orientativo, sull’esclusione, per tutte le ragioni già viste, del loro automatismo applicativo, irragionevole e contrario agli stessi canoni della cura e alla deontologia medica, prima ancora che incostituzionale.

12.4. Lo stesso art. 5, comma 1, della l. n. 24 del 2017 prevede che il medico si attenga ad essi, «salvo la specificità del caso concreto» e il successivo art. 6 ammette l’esclusione della punibilità nel caso in cui l’evento lesivo o mortale in danno del paziente si sia verificato a causa di imperizia del medico quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, purché queste «risultino adeguate alle specificità del caso concreto», ciò che ben si comprende ed appare del resto necessario, e doveroso per il medico, a tutela del singolo paziente quale persona, se si tiene conto di quanto sin qui si è chiarito.

12.6. Né va taciuto come la giurisprudenza, chiamata a fare applicazione degli artt. 5 e 6 della l. n. 24 del 2017, abbia chiarito come l’art. 590-sexies c.p., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, preveda una causa di non punibilità applicabile ai soli fatti, inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 c.p. o di quello dell’art. 590 c.p., e operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse, mentre questa causa di non punibilità non è applicabile, invece, né ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche né quando queste siano individuate e, dunque, selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso, né, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse (Cass. pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017, n. 8770).

12.7. In questa fondamentale pronuncia la Suprema Corte ha sottolineato la scelta del legislatore di pretendere, senza concessioni, che l’esercente la professione sanitaria sia non solo accurato e prudente nel seguire la evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali; aggiornato in relazione non solo alle nuove acquisizioni scientifiche, ma anche allo scrutinio di esse da parte delle società e organizzazioni accreditate e, dunque, alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura; capace di fare scelte ex ante adeguate e di personalizzarle anche in relazione alle evoluzioni del quadro che gli si presentino, con la conseguenza che, se tale percorso risulti correttamente seguito e, ciononostante, l’evento lesivo o mortale si sia verificato con prova della riconduzione causale al comportamento del sanitario, il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore colpevole per imperizia potrà essere quello che chiama in campo la operatività della novella causa di non punibilità.

12.8. Ancora di recente si è ribadito in giurisprudenza che le linee guida, lungi dall’atteggiarsi come regole di cautela a carattere normativo, costituiscono invece raccomandazioni di massima che non sollevano il sanitario dal dovere di verificarne la praticabilità e l’adattabilità nel singolo caso concreto.

12.9. La giurisprudenza della Corte di legittimità è chiara nell’affermare che il rispetto delle linee guida non può essere univocamente assunto quale parametro di riferimento della legittimità e di valutazione della condotta del medico e «nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente» e, pertanto, non può dirsi esclusa la responsabilità colposa del medico in riguardo all’evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, comunque elaborate, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone (v., ex plurimis,Cass. pen., sez. IV, 30 settembre 2021, n. 37617).

13. Dal complesso di tali ragioni non può che discendere, pertanto, l’inammissibilità del ricorso proposto dagli odierni appellati contro le Linee guida, che non hanno una portata cogente per i loro destinatari, poiché essi, quali medici di medicina generale, possono nell’esercizio della propria competenza professionale prescrivere farmaci ulteriori e diversi da quelli raccomandati in esse, purché – e la precisazione è fondamentale – tale prescrizione si fondi su evidenze scientifiche attendibili che assicurino la sicurezza e l’efficacia del farmaco.

14. Resta infatti aperta e non può essere elusa, una volta chiariti questi essenziali aspetti, la questione posta con forza nel presente giudizio dagli odierni appellati, medici di medicina generale, secondo cui essi, discostandosi dalle Linee guida, che raccomandano certi comportamenti o prescrivono (o sconsigliano) la prescrizione di certi farmaci, il medico di medicina generale vedrebbe di fatto notevolmente ridotta, se non annullata, la propria autonomia decisionale, in quanto si esporrebbe addirittura a conseguenze disciplinari o a responsabilità, civile e penale, sicché, di fatto, esse sarebbero cogenti per il medico, a dispetto del nomen usato di raccomandazione.

14.1. L’esame della questione richiede, per la sua esatta comprensione, di analizzare l’altro aspetto, quello scientifico, dell’odierna controversia, inscindibilmente legato a quello giuridico, di cui si si detto, al di là delle osservazioni già svolte.

14.2. Come questo Consiglio di Stato ha chiarito in diverse occasioni (v., ad esempio, l’ord. n. 7097 dell’11 dicembre 2020, in tema di idrossiclorochina nella prima fase epidemica, ma più di recente anche la già richiamata pronuncia di Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045 in tema di vaccinazioni obbligatorie per il personale sanitario), la moderna medicina dell’evidenza richiede che la prescrizione di un farmaco si fondi su accertati profili di accertata efficacia e sicurezza di questo.

14.3. Non è possibile ripercorrere in questa sede, per la complessità del tema generale e dell’ampio dibattito scientifico, ad esso connesso, che prescinde, ma anche esula dall’oggetto del giudizio, il lungo e complesso percorso che ha condotto all’affermazione della c.d. medicina dell’evidenza e, con essa, anche alla crescente cristallizzazione del sapere scientifico in linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali.

14.4. Qui basti ricordare, in estrema sintesi, come l’approccio ormai dominante della scienza medica a partire dagli anni ’90 del secolo scorso nella scelta della terapia più adatta sia quello dell’evidenza scientifica, la c.d. l’evidence based medicine (EBM), alle cui fondamentali acquisizioni può qui farsi solo qualche breve cenno.

14.5. La scelta della cura avviene, secondo tale metodologia, sulla base delle migliori prove di efficacia clinica e, in particolare, di studi clinici a carattere sperimentale, randomizzati e controllati (RCT – controlled randomized trial), che costituiscono il c.d. gold standard della ricerca medica.

14.6. La medicina basata sulle prove, secondo la definizione dei suoi fondatori, è «l’integrazione delle migliori prove di efficacia clinica con la esperienza e l’abilità del medico ed i valori del paziente».

14.7. Il medesimo concetto è stato espresso anche in un altro modo e, cioè, con la precisazione che «l’uso cosciente, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze (cioè prove di efficacia) biomediche al momento disponibili, al fine di prendere le decisioni per l’assistenza del singolo paziente».

14.8. Lo stesso art. 2 del d.l. l. n. 23 del 1998, conv. con mod. in l. n. 94 del 1998, sopra richiamato, consente al medico l’utilizzo di farmaci off label qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e «purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale».

14.9. E d’altro canto nemmeno va trascurata l’ulteriore disposizione, prevista dall’art. 2, comma 348, della l. n. 244 del 2007 (legge finanziaria 2008) – v., sul punto, Corte cost., 12 gennaio 2011, n. 8 – secondo cui l’indicazione terapeutica off label del farmaco da parte del medico curante non è possibile «qualora per tale indicazione non siano disponibili almeno dati favorevoli di sperimentazione clinica di fase seconda».

15. Il complesso di tutte queste disposizioni dimostra, ove ce ne fosse bisogno, che la prescrizione di un farmaco, da parte del medico, non può fondarsi su intuizioni o improvvisazioni sperimentate sulla pelle dei singoli pazienti, ma su evidenze scientifiche e, dunque, su rigorosi studi e precise sperimentazioni cliniche, ormai numerosi a livello internazionale anche nella lotta contro il virus Sars-Cov-2 dopo due anni dall’inizio della pandemia.

15.1. Ora non vi è dubbio che il singolo medico, nel prescrivere un farmaco, possa discostarsi dalle Linee guida, senza incorrere in responsabilità (anzitutto penale, come si è visto supra, rammentando gli orientamenti della Cassazione in materia), purché esistano solide o, quantomeno, rassicuranti prove scientifiche di sicurezza ed efficacia del farmaco prescritto, sulla base dei dati scientifici, pur ancora parziali o incompleti, ai quali possa ricondurre razionalmente il proprio convincimento prescrittivo rispetto alla singolarità del caso clinico.

15.2. La prescrizione del farmaco anche nell’attuale emergenza epidemiologica, e tanto più nell’ovvia assenza di prassi consolidate da anni per la solo recente insorgenza della malattia, deve fondarsi su un serio approccio scientifico e non può affidarsi ad improvvisazioni del momento, ad intuizioni casuali o, peggio, ad una aneddotica insuscettibile di verifica e controllo da parte della comunità scientifica e, dunque, a valutazioni foriere di rischi mai valutati prima rispetto all’esistenza di un solo ipotizzato, o auspicato, beneficio.

15.3. Non si vuol negare che l’esperienza clinica dei singoli medici a livello territoriale sia preziosa e fondamentale per la ricerca scientifica nella lotta contro il Sars-CoV-2, anzi, ma proprio per questo i risultati e i dati di questa esperienza non possono essere sottratti ad un rigoroso approccio scientifico che consenta, anche in condizioni di emergenza epidemiologica, di valutare comunque la sicurezza e l’efficacia del farmaco, non affidabile certo individualmente e solamente al buon senso o addirittura al caso.

15.4. Lo stesso principio di precauzione, come pure questo Consiglio di Stato ha chiarito rispetto alle vaccinazioni obbligatorie contro il virus Sars-CoV-2, può essere invocato in una fase emergenziale nell’impiego di nuovi farmaci, come anche in quello off label di farmaci già autorizzati, purché esistano sufficienti e solide evidenze scientifiche, per quanto suscettibili di revisione e bisognose di ulteriori conferme nel tempo, di una loro sicurezza ed efficacia, come è appunto nel caso dei vaccini, sottoposti ad autorizzazione condizionata fondata sull’esistenza di studi clinici controllati e randomizzati in fase avanzata.

15.5. La prescrizione di farmaci non previsti o, addirittura, non raccomandati dalle Linee guida non può dunque fondarsi su un’opinione personale del medico, priva di basi scientifiche e di evidenze cliniche, o su suggestioni e improvvisazioni del momento, alimentati da disinformazione o, addirittura, da un atteggiamento di sospetto nei confronti delle cure “ufficiali” in quelle che sono state definite le contemporanee societés de la défiance, le società della sfiducia nella scienza.

15.6. Come questo Consiglio di Stato ha pure chiarito, la libertà della scienza non vuol dire anarchia del sapere applicato dal medico al paziente (Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) e il fondamentale incontro, di cui si è detto, tra l’autonomia professionale del medico e l’autodeterminazione terapeutica del paziente, nell’individuazione della cura adatta, non può schiudere la strada ad un pericoloso, e incontrollabile, relativismo terapeutico, ove è cura tutto ciò che il singolo medico o il singolo paziente o entrambi, di comune accordo e, dunque, sulla base di un consenso disinformato, credono sia tale, sulla base di supposizioni o credenze non verificabili alla stregua di criteri oggettivi e, dunque, non falsificabili da nessuno e, in ultima analisi, insindacabili.

15.7. L’individualità della cura in rapporto al singolo paziente non è e non è può essere mai, insomma, l’individualismo della cura.

15.8. La Sezione ha già affermato che è la scienza ad indicare al legislatore, ma anche all’individuo le opzioni terapeutiche valide, che questi può scegliere, e «non è certo l’individuo, ancorché dotato di proprie personali competenze e di un sapere asseritamente superiore, a forgiarsi una cura da indicare alla scienza e al legislatore, costruendosi una cura “parallela”, “propria”, “privata”, non controllabile da alcuno e non verificabile in base ad alcun criterio scientifico di validazione» (Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045, §§ 46.7. e 46.8.).

15.9. Per questo, va qui ribadito, la libertà e il progresso della scienza tutelati dagli artt. 9 e 33 Cost., di cui lo stesso art. dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 23 del 1998 già richiamato (v., supra, § 6.6.) è esso stesso espressione, non sono né possono essere anarchici o erratici (così, ancora, la citata sentenza di questo Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045), tanto più in una fase emergenziale, per molti aspetti drammatica, nella lotta contro il virus Sars-CoV-2.

16. Non è possibile insomma, nemmeno nella fase emergenziale, venir meno al «principio di doverosa cautela nella validazione e somministrazione di nuovi farmaci» (Corte cost., 10 dicembre 2014, n. 274, nel noto caso Stamina) o nell’impiego di farmaci già autorizzati per altre indicazioni terapeutiche nella terapia contro il nuovo virus.

17. Se si tengono presenti questi fondamentali principi, che devono guidare l’attività del medico nell’esercizio consapevole e responsabile della propria competenze professionali e limitano, nella c.d. riserva di scienza, lo stesso esercizio del potere pubblico in materia sanitaria a livello legislativo e amministrativo, e li si applica alla controversa questione delle cure domiciliari contro il Sars-CoV-2, risulta evidente per altro aspetto l’erroneità, per non dire l’apoditticità, della sentenza impugnata non solo nell’avere ritenuto ammissibile il ricorso in prime cure, pur nell’assenza di una concreta lesività della circolare e delle raccomandazioni dell’AIFA per l’esercizio della professione medica, ma anche nell’averlo accolto nel merito senza verificare se, in ipotesi, la circolare del Ministero e le raccomandazioni dell’AIFA si discostassero notevolmente, e in modo manifestamente irragionevole, dalle acquisizioni della scienza medica e della ricerca scientifica in materia.

17.1. Una volta – in ipotesi – superata, infatti, la questione della refutabilità o, se si preferisce, della non vincolatività delle Linee guida da parte del singolo medico, la confutabilità o, con diverso termine, l’opinabilità delle indicazioni di trattamento terapeutico contenute nelle Linee guida era ed è questione del tutto diversa, che avrebbe dovuto costituire oggetto di approfondita analisi nella sentenza impugnata, la quale sarebbe potuta pervenire ad una statuizione annullatoria se e solo se avesse ritenuto, motivatamente, che l’esercizio della discrezionalità tecnica, da parte del Ministero o dell’AIFA, non si fosse mantenuta nell’ambito delle opzioni terapeutiche consentite dal sapere specialistico che deve applicarsi alla materia controversa.

17.2. Solo insomma se la scelta autoritativa del decisore pubblico fosse stata nel suo contenuto talmente abnorme, irragionevolee contrastante con i principî della scienza medica da imporre effettivamente al medico l’irriducibile alternativa tra seguire le Linee guida, con danno per la salute del paziente (in spregio all’antico canone: primum non nocere) prima ancor che per il sicuro esercizio della sua professione, e invece percorrere un’opzione terapeutica diametralmente opposta, conforme tuttavia ai dettami delle migliori conoscenze ed esperienze cliniche sin qui acquisite, il giudice amministrativo avrebbe potuto, e dovuto, annullare le Linee guida.

17.3. Si deve qui ricordare che la c.d. riserva di scienza che compete alle autorità sanitarie non si sottrae al sindacato del giudice amministrativo, men che mai nell’attuale fase di emergenza epidemiologica, per l’indefettibile esigenza, connaturata all’esistenza stessa della giurisdizione amministrativa e consacrata dalla Costituzione, di tutelare le situazioni giuridiche soggettive, a cominciare da quelle che hanno un radicamento costituzionale come il fondamentale diritto alla salute, a fronte dell’esercizio del potere pubblico e, dunque, anche della discrezionalità c.d. tecnica da parte dell’autorità competente in materia sanitaria.

17.4. Senza qui voler ripercorrere il lungo tragitto evolutivo che ha condotto alla garanzia di una più intensa ed effettiva tutela giurisdizionale, secondo la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 6 luglio 2020, n. 4322), il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della amministrazione può oggi svolgersi non in base al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro coerenza e correttezza, quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo.

17.5. Non si tratta, ovviamente, di sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se queste scelte siano assistite da una credibilità razionale supportata da valide leggi scientifiche e correttamente applicate al caso di specie.

17.6. Il controllo giurisdizionale, teso a garantire una tutela delle situazioni giuridiche effettiva, anche quando si verta in tema di esercizio della discrezionalità tecnica di una autorità indipendente, non può essere perciò limitato ad un sindacato meramente estrinseco, estendendosi al controllo intrinseco, anche mediante il ricorso a conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata dall’amministrazione, sulla attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti, specialmente rispetto ai fatti accertati ed alle norme di riferimento attributive del potere.

17.7. In tale contesto, per quanto attiene all’esercizio della discrezionalità tecnica dell’autorità indipendente, il giudice amministrativo non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della salute che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato.

17.8. Sul versante tecnico, in relazione alle modalità del sindacato giurisdizionale, quest’ultimo è volto a verificare se l’autorità abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica, senza che sia consentito al giudice amministrativo, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali.

17.9. In particolare, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione nelle sue determinazioni (cfr. ad es. Cons. St., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5559).

18. Per usare altri termini il giudice amministrativo deve poter verificare che l’amministrazione abbia applicato in modo corretto alla vicenda concreta, in conformità ai principî proprî del metodo scientifico prescelto (iuxta propria principia), le regole del sapere specialistico applicabili al settore dell’attività amministrativa sottoposta all’esercizio del potere regolatorio, ad evitare che la discrezionalità tecnica del decisore pubblico trasmodi in un incontrollabile, e dunque insindacabile, arbitrio (v. Cons. St., sez. III, 17 dicembre 2015, n. 5707 e Cons. St., sez. III, 2 aprile 2013, n. 1856).

19. Ebbene, anche ammettendo, in ipotesi, che le Linee guida qui contestate abbiano un carattere vincolante per i medici, il che non è, come detto, ed esaminando la questione controversa sotto tale prospettiva nell’esercizio del doveroso controllo giurisdizionale sugli atti dell’autorità sanitaria, si deve qui rilevare che le censure degli appellanti non avrebbero potuto trovare accoglimento e condurre all’annullamento della circolare.

19.1. E infatti, nei limiti consentiti dall’ordinamento al sindacato del giudice amministrativo sulla c.d. discrezionalità tecnica, ben evidente appare come la circolare ministeriale e le raccomandazioni dell’AIFA nelle Linee guida non si siano discostate dalle acquisizioni più recenti e condivise della scienza e della pratica clinica a livello nazionale ed internazionale, secondo i canoni della c.d. medicina dell’evidenza, come il Ministero appellante ha ben dimostrato, senza trovare adeguata confutazione da parte degli odierni appellati, le cui produzioni documentali sono tutte inammissibili, come si è precisato, per la tardività della costituzione in questo grado del giudizio.

19.2. La c.d. vigile attesa non è e non può essere concepita, se si esaminano con attenzione la Circolare e le raccomandazioni dell’AIFA, come un rassegnato immobilismo, negazione della stessa medicina nella sua funzione e, per alcuni pazienti più vulnerabili, preludio certo dell’ospedalizzazione, con esiti talvolta e purtroppo fatali.

19.3. La gestione dei soggetti con malattia lieve deve prevedere anzitutto, come la circolare qui contestata prevede, l’attenta valutazione dei parametri clinici essenziali, al momento della diagnosi di infezione, ed il monitoraggio quotidiano, per individuare precocemente segni e sintomi di instabilità clinica correlati all’alterazione dei parametri fisiologici (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, temperatura corporea, livello di coscienza, saturazione di ossigeno) che permetterebbero di identificare – appunto attraverso un atteggiamento di vigile attesa – il rischio di un rapido peggioramento clinico e di bloccarne tempestivamente l’evoluzione.

19.4. La “vigile attesa”, lungi dal costituire dunque un’inerzia ingiustificabile, postula invece tutta una serie di attività fondamentali, ampiamente riconosciute e dettagliate nella circolare del Ministero, e tra le altre, il monitoraggio e l’identificazione precoce di parametri e/o condizioni cliniche a rischio di evoluzione della malattia, con la conseguente necessità di ospedalizzazione, e la prescrizione di norme di comportamento e terapie di supporto in relazione al quadro clinico in evoluzione.

19.5. Quanto all’utilizzo, consigliato o sconsigliato, di determinati farmaci, poi, l’impianto argomentativo degli odierni appellati, come ben rileva il Ministero appellante, muove da un equivoco di fondo, assumendo che le linee di indirizzo costituiscano una lista dei “farmaci da non usare” e non, piuttosto, la definizione delle condizioni per le quali le evidenze di letteratura consentono di stimare l’efficacia di un farmaco raccomandandone, o meno, l’utilizzo.

19.6. Le raccomandazioni fornite nella nota impugnata individuano linee di indirizzo volte a specificare quali sono gli ambiti di utilizzo efficace e sicuro dei diversi farmaci.

20. Più nel dettaglio, avuto riguardo alla “limitazione sull’uso dei corticosteroidi”, la prescrizione in ambito domiciliare del cortisone è raccomandata solo nei soggetti con malattia COVID-19 che necessitino di supplementazione di ossigeno e, in particolare, in quei pazienti il cui quadro clinico non migliora entro le 72 ore, se in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici che richieda l’ossigenoterapia.

20.1. Tale raccomandazione, che non può essere intesa come “limitazione all’uso”, è basata sulle prove di efficacia derivanti da ampi studi randomizzati controllati che ne hanno ben definito il valore esclusivamente nei soggetti in ossigenoterapia (cfr. RECOVERY Trial e meta-analisi del WHO) e tiene, d’altro canto, in considerazione che in molti soggetti con malattie croniche l’utilizzo del cortisone può determinare importanti eventi avversi che rischiano di complicare il decorso della malattia virale.

20.2. Recentemente, gli infettivologi del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, come ricorda il Ministero appellante, hanno diramato un “alert”, nel quale hanno sottolineato come stessero arrivando al pronto soccorso del nosocomio sempre più pazienti, anche giovani, con una severa infezione da COVID-19 verosimilmente attribuibile ad una somministrazione precoce di cortisone e, nel suddetto “alert”, gli specialisti invitano i medici di medicina generale ad essere consapevoli della loro responsabilità in cui si effettuano tali e altre prescrizioni al di fuori dalle linee guida poiché «deve essere chiaro che un trattamento con cortisone iniziato entro sette giorni dall’esordio dei sintomi favorisce la replicazione virale e quindi l’infezione e le sue conseguenze».

20.3. È infatti importante ricordare che in molti soggetti con malattie croniche l’utilizzo del cortisone può determinare importanti eventi avversi, che rischiano di complicare il decorso della malattia virale e al riguardo basti qui citare, per tutti, l’esempio dei soggetti diabetici in cui sia la presenza di un’infezione, sia l’uso del cortisone, possono gravemente destabilizzare il controllo glicemico.

20.4. Quanto, ancora, alla “limitazione sull’uso di eparina”, la prescrizione in ambito domiciliare delle eparine a basso peso molecolare (EBPM) nella profilassi degli eventi trombo-embolici nel paziente medico con infezione respiratori acuta allettato o con ridotta mobilità, è raccomandato, in assenza di controindicazioni, dalle principali linee guida internazionali e configura un utilizzo autorizzato di questa classe di farmaci.

20.5. Si specifica, inoltre, che le eparine non sono soggette a limitazioni della prescrizione negli usi autorizzati, possono quindi essere prescritte a carico del medico di medicina generale e possono essere distribuite sul territorio secondo le modalità stabilite a livello regionale.

20.6. Sul sito dell’AIFA sono riportati nel dettaglio gli studi a supporto di tale raccomandazione(https://www.aifa.gov.it/documents/20142/0/Eparine_Basso_Peso_Molecolare_13.05.2021.pdf ).

20.7. Relativamente al “divieto all’uso domiciliare di antibiotici”, pure censurata dagli appellati in prime cure, nel documento dell’AIFA l’utilizzo degli antibiotici non è vietato ma semplicemente, in accordo con tutte le linee guida e tutti gli indirizzi di stewardship antibiotica, non raccomandato come utilizzo routinario, essendone invece previsto, ragionevolmente e correttamente, l’utilizzo in presenza di sospetto di una sovrainfezione batterica.

20.8. Con riferimento al “divieto all’uso domiciliare di idrossiclorochina”, l’AIFA – anche in ossequio a quanto questo Consiglio di Stato aveva chiarito nell’ordinanza n. 7097 dell’11 dicembre 2020, più volte citata – non ha posto un divieto all’uso, ma ha fornito una raccomandazione negativa all’utilizzo, specificando che una eventuale prescrizione nei singoli casi si configurerebbe come un uso off label e deve essere dunque rimessa all’autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico, con il consenso informato del singolo paziente.

20.9. La raccomandazione avverso l’utilizzo di idrossiclorochina al di fuori di studi clinici randomizzati è giustificata ormai, dopo diversi mesi di sperimentazione clinica e a distanza di tempo anche dall’emissione della citata ordinanza n. 7097 dell’11 novembre 2020 in sede cautelare da questo Consiglio di Stato, che registrava un quadro di sperimentazioni non ancora univoco e definitivo, dai numerosi studi clinici randomizzati che hanno dimostrato la sostanziale inefficacia del farmaco ed è in linea con quanto raccomandato dalle principali linee guida internazionali, potendosi consultare la scheda pubblicata sul sito dell’AIFA in cui sono riportati nel dettaglio gli studi clinici randomizzati a supporto di tale raccomandazione(https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1123276/idrossiclorochina%20update05_22.12.2020.pdf).

21. Quanto, infine, al preteso effetto peggiorativo del paracetamolo in relazione all’azione sul glutatione (riportato nel lavoro del dott. Chirumbolo citato nel ricorso) e, quindi, all’affermata migliore efficacia dei FANS per il trattamento sintomatico del COVID-19 (desumibile dalla citazione dello studio di Suter et al.), bene ha evidenziato il Ministero appellante che non ci sono, nello specifico, studi comparativi e che tutte le linee guida internazionali – al pari di quelle qui contestate (v., in particolare, p. 10: «trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari») – raccomandano indifferentemente i due farmaci, riferendosi per lo più genericamente ad antipiretici antiinfiammatori lasciando al medico l’opportunità di scegliere sulla base della valutazione dei singoli casi.

22. Più in generale, si deve rilevare che l’argomento degli odierni appellati, secondo cui l’assenza di prove non è prova di assenza di beneficio (c.d. fallacia ad ignorantiam), se è in astratto condivisibile non può rappresentare in concreto la base, come si è detto, per sovvertire un approccio scientifico rigoroso alla valutazione dell’efficacia e della sicurezza di un trattamento.

22.1. Ritenere che in condizioni di emergenza sanitaria si possa derogare ai principi propri dell’evidence based medicine per la difficoltà di condurre studi clinici randomizzati espone, d’altro canto, a serio rischio la salute pubblica, come è avvenuto in altri Paesi, dove ad esempio la somministrazione di farmaci non adeguatamente verificati in sede di studi clinici – ad esempio, l’invermectina – ha causato addirittura la morte di alcuni pazienti.

22.2. I medici ricorrenti in prime cure hanno esibito, a supporto delle loro tesi, una serie non organica di appunti su esperienze cliniche, oltre ad una semplice expert opinion.

22.3. La descrizione delle esperienze dei singoli medici tuttavia, ove non esitata nella conduzione di studi clinici idonei, non può rappresentare il presupposto scientifico su cui basare scelte di tipo regolatorio e raccomandazioni per la pratica clinica poiché solo gli studi clinici randomizzati e controllati consentono di ottenere informazioni attendibili in merito all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci.

22.4. Emerge con tutta evidenza come la circolare impugnata non violi in alcun modo il principio di precauzione, ma anzi ne costituisca applicazione, fondandosi sulla valutazione in sede istruttoria di tutti i dati scientifici disponibili, mentre gli odierni appellati non sono riusciti a dimostrare, sulla base di evidenze scientifiche attendibili e, dunque, di studi clinici randomizzati e controllati, che la circolare raccomandi trattamenti terapeutici inutili o dannosi o, al contrario, sconsigli farmaci appropriati per la cura domiciliare della malattia in contrasto con dette evidenze.

23. In conclusione, per tutte le ragioni espresse, l’appello proposto dal Ministero deve essere accolto, con la conseguente riforma della sentenza impugnata, e deve essere quindi dichiarato inammissibile il ricorso proposto in primo grado dagli odierni appellati, comunque infondato anche nel merito, non ravvisandosi nella circolare, qui contestata, alcun profilo di manifesta irragionevolezza o erroneità, per tutte le ragioni esposte, ferma rimanendo l’autonomia prescrittiva dei singoli medici di medicina generale, nei termini che si sono sopra precisati.

24. La circolare in esame assolve, invece, ad uno specifico obbligo di legge assicurando le funzioni di coordinamento del sistema sanitario nazionale di cui all’art. 47-bis, comma 2, del d. lgs. n. 300 del 1999, secondo cui «sono attribuite al Ministero le funzioni spettanti allo Stato in materia di tutela della salute umana, di coordinamento del sistema sanitario nazionale», e di raccordo con le organizzazioni internazionali e l’Unione europea aventi competenza in materia sanitaria (in particolare OMS, EMA ed ECDC), di cui all’art. 47-ter, comma 1, lett. a), del medesimo d. lgs. n. 300 del 1999.

24.1. Quanto – poi – all’AIFA, le cui raccomandazioni la circolare ministeriale ha recepito, viene in rilievo l’art. 48, commi 3 e 5, del d. lgs. n. 269 del 2003, conv. in l. 326/2003, e in particolare la previsione del comma 5, lett. a), che le assegna la funzione di «promuovere la definizione di liste omogenee per l’erogazione e di linee guida per la terapia farmacologica anche per i farmaci a distribuzione diretta, per quelli impiegati nelle varie forme di assistenza distrettuale e residenziale nonché per quelli utilizzati nel corso di ricoveri ospedalieri».

24.2. L’AIFA fornisce un’informazione pubblica e indipendente, al fine di favorire un corretto uso dei farmaci, di orientare il processo delle scelte terapeutiche, di promuovere l’appropriatezza delle prescrizioni, nonché l’aggiornamento degli operatori sanitari attraverso le attività editoriali, lo svolgimento come provider di programmi di formazione a distanza (“FAD”) e la gestione del proprio sito internet.

24.3. La circolare come quella in contestazione, con la quale si informano strutture ed operatori sanitari delle raccomandazioni adottate dall’AIFA e delle più aggiornate acquisizioni scientifiche, oltre che dei pronunciamenti delle istituzioni internazionali e delle agenzie regolatorie in generale, costituisce insomma sono strumento attuativo del dovere istituzionale, da parte del Ministero, di adottare strumenti di indirizzo e coordinamento generale per garantire l’adeguatezza delle scelte terapeutiche e l’osservanza delle cautele necessarie, ampliando la base scientifica informativa sulla cui scorta il medico è chiamato a compiere la scelta di cura.

24.4. Ciò a maggior ragione, come pure rileva il Ministero appellante, in un contesto pandemico, caratterizzato dall’assoluta novità dell’epidemia da COVID-19 e dall’assenza di prassi consolidate cui attenersi.

24.5. L’unitarietà di indirizzo nell’approccio terapeutico alla pandemia è, del resto, un principio di intuitiva percezione, sul quale, sia pure pronunciandosi in altro campo, la stessa Corte Costituzionale ha recentemente avuto occasione di soffermarsi, sottolineandone l’importanza in una gestione sanitaria unitaria e coordinata (v., in particolare, Corte cost. 12 marzo 2021, n. 37).

25. Le dirimenti ragioni sin qui espresse assorbono ogni ulteriore statuizione in ordine alla improcedibilità dell’originario ricorso, eccepita dal Ministero appellante (pp. 16-18 del ricorso), questione del tutto superflua ormai ai fini del decidere.

26. Le spese del doppio grado del giudizio, considerata la novità della questione che concerne l’esercizio di diritti fondamentali attinenti alla persona nella presente fase emergenziale, possono essere interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, proposto dal Ministero dell’Interno, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara inammissibile il ricorso proposto in primo grado da Fabrizio Salvucci, Riccardo Szumski e Luca Poretti.

Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2022, con l’intervento dei magistrati:

Michele Corradino, Presidente

Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore

Raffaello Sestini, Consigliere

Solveig Cogliani, Consigliere

Umberto Maiello, Consigliere

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Vigile attesa. Il Consiglio di Stato smentisce il Tar

19/01/2022 – Consiglio di Stato Sezione Terza

ANNULLA SEZIONE TERZA DEL TAR LAZIO N. 419 PUBBLICATA IL 15/01/2022

IL PUNTO

La sospensione della circolare, lungi da far “riappropriare” i MMG della loro funzione e delle loro inattaccabili e inattaccate prerogative di scelta terapeutica (che l’atto non intacca) determinerebbe semmai il venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, e che i MMG ben potranno, nello spirito costruttivo della circolazione e diffusione delle informazioni scientifico-mediche, considerare come raccomandabili, salvo scelte che motivatamente, appunto in scienza e coscienza, vogliano effettuare, sotto la propria responsabilità (come è la regola), in casi in cui la raccomandazione non sia ritenuta la via ottimale per la cura del paziente

Il Consiglio di Stato con la sentenza della sez. III, dec., 19 gennaio 2022, n. 207 ha immediatamente sospeso la decisione della sezione terza del  Tar Lazio n. 419  pubblicata  il 15/01/2022 che annullò  la  Circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” affermando che la stessa contrastasse  con la deontologia del medico  e “ con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid19 come avviene per ogni attività terapeutica”.

Il Tar, si ricorda, ritenne vincolante ai fini delle scelte terapeutiche dei medici di medicina generale le raccomandazioni della circolare  per la cura domiciliare dei pazienti Covid. Tra le altre raccomandazioni  la Circolare del Ministero della Salute, poneva l’attenzione nei casi lievi del rischio per il paziente sull’uso routinario di alcuni farmaci ritenuti completamente inappropriati nella gestione dei casi lievi come: corticosteroidi, eparina, antibiotici,  idrossiclorochina e benzodiazepine ad alto dosaggio. Indicava anche quando farmaci molto costosi potessero essere utilizzati in modo appropriato indicando, in particolare, le regole prescrittive per gli anticorpi monoclonali.

La decisione del Consiglio di Stato riporta chiarezza sul confine tra prescrizione a carico del servizio sanitario nazionale e libertà prescrittiva del medico.

Non tutti i farmaci possono essere erogati gratuitamente ma solo quelli che lo Stato rende idonei per una serie di patologie. Fuori da queste regole il medico ha a disposizione la c.d “ricetta bianca” in solvenza del paziente.  

L’art. 13 del codice di deontologia medica, infatti,  gli permette di prescrivere secondo scienza e coscienza la prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione è una diretta, specifica, esclusiva e non delegabile competenza del medico, impegna la sua autonomia e responsabilità e deve far seguito a una diagnosi circostanziata o a un fondato sospetto diagnostico. La prescrizione però deve fondarsi sulle evidenze scientifiche disponibili, sull’uso ottimale delle risorse e sul rispetto dei principi di efficacia clinica, di sicurezza e di appropriatezza in particolare quando i farmaci sono prescritti “off label”  cioè al di fuori delle indicazioni cliniche per le quali il farmaco è stato registrato.

a cura Avv. Paola Maddalena Ferrari

IL TESTO DEL DECRETO

sul ricorso numero di registro generale 411 del 2022, proposto dal Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

-OMISSIS-, non costituiti in giudizio;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. –, resa tra le parti, concernente le linee guida per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-Cov-2 (Covid-19);

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista l’istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.;

Considerato che la sintetica motivazione della sentenza appellata afferma la natura vincolante, ai fini delle scelte terapeutiche dei medici di medicina generale, per la cura domiciliare dei pazienti Covid, della circolare ministeriale;

Ritenuto che, in questa sede di delibazione sommaria, laddove non emerge una puntuale motivazione circa il carattere vincolante censurato, appare invece:

– che il documento contiene, spesso con testuali affermazioni, “raccomandazioni” e non “prescrizioni”, cioè indica comportamenti che secondo la vasta letteratura scientifica ivi allegata in bibliografia, sembrano rappresentare le migliori pratiche, pur con l’ammissione della continua evoluzione in atto;

 che di conseguenza non emerge alcun vincolo circa l’esercizio del diritto-dovere del MMG di scegliere in scienza e coscienza la terapia migliore, laddove i dati contenuti nella circolare sono semmai parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello anche internazionale;

– che, dunque, la sospensione della circolare, lungi da far “riappropriare” i MMG della loro funzione e delle loro inattaccabili e inattaccate prerogative di scelta terapeutica (che l’atto non intacca) determinerebbe semmai il venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, e che i MMG ben potranno, nello spirito costruttivo della circolazione e diffusione delle informazioni scientifico-mediche, considerare come raccomandabili, salvo scelte che motivatamente, appunto in scienza e coscienza, vogliano effettuare, sotto la propria responsabilità (come è la regola), in casi in cui la raccomandazione non sia ritenuta la via ottimale per la cura del paziente;

P.Q.M.

accoglie l’istanza e, per l’effetto, sospende l’esecutività della sentenza appellata fino alla discussione collegiale che fissa alla camera di consiglio del 3 febbraio 2022.

Il presente decreto sarà eseguito dall’Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti appellate.

Così deciso in Roma il giorno 19 gennaio 2022Edit

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Tar Lazio sospende circolare sulla vigile attesa

La Circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021 contrasta con la deontologia del medico  e “ con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid19 come avviene per ogni attività terapeutica”.

Quindi, il contenuto della nota ministeriale, affermano i giudici, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale

Questa è la massima contenuta della sentenza della sezione terza del  Tar Lazio n. 419  pubblicata  il 15/01/2022 annullando il provvedimento che, com’è facilmente immaginabile, sarà impugnata dal Ministero.

Alcuni medici e specialisti  contestarono le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti.

In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

Il termine vietato non è utilizzato neppure una volta nella circolare che si limitava a raccomandare e sconsigliare terapie ritenute inutili e/o inefficaci.

A pagina 10, infatti, si legge chiaramente “le presenti raccomandazioni si riferiscono alla gestione farmacologica in ambito domiciliare dei casi lievi di COVID-19” intendendosi per tali: presenza di sintomi come febbre (>37.5°C), malessere, tosse, faringodinia, congestione nasale, cefalea, mialgie, diarrea, anosmia, disgeusia, in assenza di dispnea, disidratazione, alterazione dello stato di coscienza.

In linea generale, si afferma,  per soggetti con queste caratteristiche cliniche non è indicata alcuna terapia al di fuori di una eventuale terapia sintomatica di supporto.

Per vigile attesa, la circolare intendeva un costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente con misurazione periodica della saturazione ed ossigeno attraverso pulsossimetria nonché norme igieniche di vita.

Mentre dal punto di vista farmacologico, consigliava trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso). Altri farmaci sintomatici potranno essere utilizzati su giudizio clinico.

Raccomandava e sconsigliava, inoltre, di  non utilizzare routinariamente corticosteroidi per le forme lievi da considerare solo  in pazienti con fattori di rischio di progressione di malattia verso forme severe, in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici che richieda l’ossigenoterapia ove non sia possibile nell’immediato il ricovero per sovraccarico delle strutture ospedaliere.

Raccomandava e sconsigliava, inoltre, di  non utilizzare eparina. L’uso di tale farmaco, si afferma nella raccomandazione,  è indicato, solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto ed evitare l’uso empirico di antibiotici. La mancanza di un solido razionale e l’assenza di prove di efficacia nel trattamento di pazienti con la sola infezione virale da SARS-CoV2 non consentono di raccomandare l’utilizzo degli antibiotici, da soli o associati ad altri farmaci.

Un ingiustificato utilizzo degli antibiotici può, inoltre, determinare l’insorgenza e il propagarsi di resistenze batteriche che potrebbero compromettere la risposta a terapie antibiotiche future. Il loro eventuale utilizzo è da riservare esclusivamente ai casi nei quali l’infezione batterica sia stata dimostrata da un esame  microbiologico e a quelli in cui il quadro clinico ponga il fondato sospetto di una sovrapposizione batterica.

Sconsigliava di utilizzare idrossiclorochina la cui efficacia era ritenuta dal Ministero non confermata in nessuno degli studi clinici randomizzati fino ad ora condotti.

Ad avviso di chi scrive, il Tar dimentica che la libertà prescrittiva a carico del servizio sanitario nazionale è limitata ai farmaci ritenuti idonei a curare specifiche situazioni cliniche. Il medico ha sempre la possibilità di adattare la terapia scegliendo tra i farmaci che sono indicati come efficaci e prescrivibili su “ricetta rossa”.

La libertà prescrittiva del medico non è limitata in quanto gli è sempre permesso di prescrivere, anche off label, su “ricetta bianca” a carico del cittadino.

È appena opportuno ricordare che un uso inappropriato di farmaci come l’eparina e gli antibiotici  puo’ determinare, soprattutto in una situazione pandemica, rischi di mancati approvvigionamenti del ciclo farmaceutico con rischio di farli mancare  ai  pazienti più fragili.

Avv. Paola M. Ferrari

LA SENTENZA

FATTO e DIRITTO

I ricorrenti sono medici di medicina generale e specialisti.

Con il ricorso oggetto del presente scrutinio, i predetti hanno contestato le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti.

Alla camera di consiglio del giorno 4 agosto 2021, il Collegio ha disposto, a mente dell’art. 55, comma 10 cpa, la fissazione della discussione del presente ricorso alla udienza di merito del giorno 7 dicembre 2021.

Alla udienza del giorno 7 dicembre 2021 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

In primo luogo deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla resistente perché, a suo dire, la nota AIFA, recepita nella circolare ministeriale, ha una sua autonomia giuridica e non è stata autonomamente impugnata.

E’ necessario rappresentare che nel momento in cui l’indicata raccomandazione è stata pedissequamente mutuata nella circolare ministeriale essa ha perso ogni singolare valenza, compresa una sua autonoma esistenza giuridica ed ha costituito, pertanto, la sola motivazione del provvedimento contestato.

Conseguentemente l’eccezione deve essere respinta.

Le censurate linee guida, come peraltro ammesso dalla stessa resistente, costituiscono mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli.

In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

La prescrizione dell’AIFA, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia COVI 19 come avviene per ogni attività terapeutica.

In merito è opportuno rappresentare che il giudice di appello nello scrutinare una analoga vicenda giudiziaria ( la censura afferente alla sola determinazione dell’AIFA) ha precisato che :”… la nota AIFA non pregiudica l’autonomia dei medici nella prescrizione, in scienza e coscienza, della terapia ritenuta più opportuna, laddove la sua sospensione fino alla definizione del giudizio di merito determina al contrario il venir meno di linee guida, fondate su evidenze scientifiche documentate in giudizio, tali da fornire un ausilio (ancorché non vincolante) a tale spazio di autonomia prescrittiva, comunque garantito”.

Quindi, il contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale.

Per tali ragioni il ricorso deve essere accolto.

La peculiarità della vicenda convince il Collegio a compensare le spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento in epigrafe indicato.

Compensa le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Savoia, Presidente

Paolo Marotta, Consigliere

Roberto Vitanza, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberto Vitanza Riccardo Savoia

IL SEGRETARIO

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Infermiere già in aspettativa ai sensi della legge 104/1992 non può essere sospeso per mancata vaccinazione.

Con la sentenza del 26.11.2021 a firma della Dott.ssa Porcelli, il Tribunale di Milano ha accolto la richiesta di reintegra di un’infermiera sospesa per mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale nonostante la stessa si trovasse in aspettativa retribuita biennale ex lege 104/1992.

Per il Giudice, in particolare, la sospensione presuppone, al momento della sua adozione, lo svolgimento in concreto delle prestazioni professionali da parte del soggetto che astrattamente rientra tra i lavoratori destinatari dell’obbligo di vaccinazione.

Secondo la sentenza il rapporto di lavoro della ricorrente già sospeso per la fruizione dell’aspettativa prevista dalla L. 104/1992 non può essere sospeso per altra motivazione.

le specializzande somministrano una dose letale di chemioterapico ma la disorganizzazione del reparto riduce la colpa grave

28/09/2021 n. 77 – Corte Conti Umbria

  1. Con atto di citazione depositato in data 12 novembre 2020 e ritualmente notificato, la Procura regionale presso questa Sezione giurisdizionale regionale ha convenuto in giudizio i sig.ri [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis], come in epigrafe generalizzati – tutti Medici – per sentirli condannare, a titolo di colpa grave, ad un risarcimento danni indiretto pari, nel complesso, ad € 800.000,00, oltre accessori e spese, in favore dell’Azienda Ospedaliera di [omissis], ripartito pro quota in misura paritaria (=€ 200.000,00), a carico di ciascuno dei quattro convenuti o in diversa quota ritenuta di giustizia.
  2. La fattispecie de qua è relativa ad un danno indiretto, prospettato dalla Procura attorea, quale danno da ‘malpractice medica’ e liquidato dall’Azienda Ospedaliera di [omissis] con deliberazione n. 1439 del 31 agosto 2015, con la quale venivano corrisposti – a seguito di transazione – € 800.000,00 a titolo di risarcimento di tutti i danni, sia patrimoniali sia non patrimoniali, nei confronti degli eredi di [omissis] [omissis], deceduto in data 15 aprile 2014, presso il Reparto di [omissis] dell’Ospedale

“[omissis] [omissis] [omissis] [omissis]” di [omissis], a causa di una erronea somministrazione del farmaco “Idarubicina”, in un sovradosaggio spropositato che, nella prospettazione attorea, ne avrebbe determinato il decesso per ‘scompenso cardiaco acuto’.

2.1 La fattispecie dannosa contestata, in particolare, scaturirebbe dall’errore della specializzanda dott.ssa [omissis] [omissis] nel redigere la c.d. “stecca terapeutica”, (sia cartacea, da trasmettere via fax alla farmacia, sia informatica del paziente, indirizzata agli infermieri), che aveva riportato in modo errato la dose del farmaco (indicata in 45/ mg per mq corporeo, anziché 12 mg/ per mq corporeo, quali correttamente prescritti dalla Dr.ssa [omissis]), senza che né lei stessa né altri se ne avvedessero. Anzi, l’errore era stato confermato da un’altra specializzanda, dott.ssa [omissis] [omissis], la quale, rispondendo alla telefonata di chiarimenti ricevuta dalla Farmacia oncologica ospedaliera in ordine alla esorbitanza del dosaggio, senza consultare né la cartella clinica del paziente, né i dosaggi massimi indicati nel Protocollo AIDA, affermava che proprio quello era stato il dosaggio prescritto in applicazione del suddetto Protocollo non informava tempestivamente della richiesta telefonica ricevuta dalla Farmacia, né la specializzanda dott.ssa [omissis] , né il medico tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], responsabile del paziente.

  1. Si giungeva purtroppo alla erronea somministrazione di un dosaggio esorbitante i limiti massimi di posologia di quel farmaco, verosimilmente anche a causa della inidonea organizzazione del Reparto e degli insufficienti controlli interni predisposti dal Dirigente della struttura, Prof. [omissis] [omissis], che, soltanto dopo il fatto lesivo, dotava il reparto di un software in grado di bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci; concorreva, altresì, alla causazione del danno letale, la mancata rilevazione dell’errore fatale da parte delle quattro infermiere somministratrici delle quattro dosi letali, che non si avvedevano di nessuna anomalia; né la Farmacia oncologica, benchè sospettasse che il dosaggio richiesto fosse sproporzionato, mise in essere azioni positive che avrebbero allertato i medici responsabili di settore, limitandosi, peraltro, ad effettuare una mera telefonata di verifica – ricevuta dalla dott.ssa [omissis], specializzanda, nelle modalità già riferite – nella cui risposta la Farmacia medesima confidava, senza preoccuparsi di effettuare ulteriori verifiche con il medico prescrittore, responsabile del dosaggio.
  1. Sulla vicenda de qua è stato aperto un procedimento penale (n. 2105/005911 R.G. Notizie di reato) culminato con l’archiviazione, in data 6 novembre 2015, per insussistenza di reato, nei confronti dei signori [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis] e [omissis]. Nei confronti di [omissis] , il procedimento penale (n. 3699/2014 R.G. Notizie di reato) è culminato invece con sentenza n. 25/16 dell’11.1.2016 del GIP, pronunciata ex art. 444 e ss. c.p.p.
  2. Il dott. [omissis] e la dott.ssa [omissis] presentavano (nell’ambito delle rispettive memorie di costituzione, tempestivamente pervenute, entro il termine del 29 aprile 2021, stabilito per la costituzione in giudizio dal Decreto presidenziale di fissazione dell’odierna udienza) formale istanza di Rito Abbreviato, ai sensi dell’art. 130 c.g.c., offrendo ciascuno il pagamento di € 100.000,00, importo corrispondente al 50% della quota della pretesa risarcitoria posta a carico di ciascuno, nell’atto di citazione; per entrambi è stato espresso il parere favorevole della Procura contabile. A seguito del Decreto n.1/2021 del 20 maggio 2021, in accoglimento delle istanze di rito abbreviato, è stata fissata l’udienza camerale del 14 luglio 2021 per la definizione del giudizio all’esito del controllo dell’avvenuto pagamento.

Risulta in atti che il pagamento è stato effettuato e che all’udienza del 14 luglio 2021 la posizione dei dottori [omissis] e [omissis] sia stata definita con sentenza di estinzione del giudizio nei loro confronti e relativa condanna alle spese processuali. (Cfr. Corte conti, Sez. giur.le Umbria, Sent. n. 73/2021 del 13 agosto 2021).

  1. Il giudizio de quo pertanto prosegue ora nei soli confronti delle altre due convenute, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis], ciascuna evocata per un danno pro capite di euro 200.000,00.

Con memoria di costituzione nell’interesse della dott.ssa [omissis] , in data 28 aprile 2021, il difensore ha chiesto, in via preliminare, di rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, per l’intervenuta prescrizione dell’azione e/o l’improcedibilità della stessa nei confronti dell’odierna deducente. Dichiarare la nullità ex art. 87 Codice Giustizia Contabile per difformità tra l’atto di citazione e l’invito a dedurre.

NEL MERITO, PREVIA DECLARATORIA DI INUTILIZZABILITÀ NEL PRESENTE GIUDIZIO DELLE PERIZIE TECNICHE VERSATE IN ATTI DALLA PROCURA:

In via principale, Rigettare allo stato degli atti la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate ed in particolare poiché il pregiudizio non è esigibile dai convenuti, potendo essere coperto dal contratto di assicurazione RCT/O n. ITOMM1301773; in subordine, rinviare ad altra udienza il presente giudizio, in attesa che la Procura regionale verifichi la copertura deldanno lamentato da parte dell’assicurazione.

In via subordinata, Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e segnatamente tutte le domande ex adverso proposte

in quanto infondate in fatto ed in diritto, non essendo prova della colpa grave in capo alla Dott.ssa [omissis]. In estremo subordine, nella denegata e non creduta ipotesi in cui questa Corte adita volesse ritenere fondate le pretese dell’attrice, si chiede di effettuare la riduzione del quantum dell’addebito posto a carico della medesima anche in relazione alla responsabilità dei concorrenti e della struttura ospedaliera stessa, parametrando comunque l’apporto al trattamento economico di tutti i soggetti evocati e non evocati

come da disposizioni della Legge Gelli, che si indicano nel Dirigente Generale e Sanitario all’epoca dei fatti, Dirigente Amministrativo all’epoca dei fatti, Dirigente Affari Generali.

All’epoca dei fatti, i membri del Co.Ge.Si. (dott. [omissis] [omissis], prof. [omissis] [omissis], Prof. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis]), Broker, Dirigente reparto [omissis] Prof.

[omissis] [omissis], il Medico Responsabile e Tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], il Dirigente della Farmacia Oncologica Ospedaliera, Dott. [omissis] [omissis], le Dirigenti Farmaciste Oncologiche, Dott.ssa [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis], nonché le Infermiere [omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis].

IN VIA ISTRUTTORIA, senza inversione dell’onere probatorio gravante sull’attrice, si chiede di ammettere C.T.U. medico legale, con riserva di nomina del perito di parte nell’interesse della dott.ssa [omissis]; ordinare la produzione documentale ex art. 94 Codice di Giustizia Contabile ed ex art. 210 c.p.c. delle polizze assicurative contratte dall’Azienda ospedaliera a copertura del contratto di specialità n. 3198 del 15.07.2013 della dott.ssa [omissis], in particolare della comunicazione fatta alla AMTrust Europe circa l’applicazione della garanzia per colpa grave ex art. 36 della polizza RCT/O n. ITOMM1301773, in favore della dott.ssa [omissis] [omissis].

La difesa della dott.ssa [omissis] ha avanzato le seguenti richieste, con memoria di costituzione del 28 aprile 2021: IN VIA PRELIMINARE: Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte per l’intervenuta prescrizione dell’azione e/o l’improcedibilità della stessa nei confronti dell’odierna deducente. NEL MERITO, in via principale, Rigettare allo stato degli atti la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate ed in particolare poiché il pregiudizio non è esigibile dai convenuti, potendo essere coperto dal contratto di assicurazione RCT/O n. ITOMM1301773; in subordine, rinviare ad altra udienza il presente giudizio, in attesa che

la Procura regionale verifichi la copertura del danno lamentato da parte dell’assicurazione. In via subordinata, Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e segnatamente tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate in fatto ed in diritto, non essendo prova della colpa grave in capo alla Dott.ssa [omissis]. In estremo subordine, nella denegata e non creduta ipotesi in cui questa Corte adita volesse ritenere fondate le pretese dell’attrice, si chiede di effettuare la riduzione del quantum dell’addebito posto a carico della medesima anche in relazione alla responsabilità dei concorrenti e della struttura ospedaliera stessa, parametrando

comunque l’apporto al trattamento economico di tutti i soggetti evocati e non evocati

come da disposizioni della Legge Gelli, che si indicano nel Dirigente Generale e Sanitario

all’epoca dei fatti, Dirigente Amministrativo, all’epoca dei fatti, Dirigente Affari Generali

all’epoca dei fatti, i membri del Co.Ge.Si. (dott. [omissis] [omissis], prof.

[omissis] [omissis], Prof. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], dott.

[omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott.ssa

[omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis]), Broker, Dirigente reparto [omissis] Prof.

[omissis] [omissis], il Medico Responsabile e Tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis],

il Dirigente della Farmacia Oncologica Ospedaliera, Dott. [omissis] [omissis], le Dirigenti

Farmaciste Oncologiche, Dott.ssa [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis],

nonché le Infermiere [omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e

[omissis] [omissis].

IN VIA ISTRUTTORIA, ordinare la produzione documentale ex art. 94

Codice di Giustizia Contabile ed ex art. 210 c.p.c. delle polizze assicurative contratte dall’Azienda ospedaliera a copertura del contratto di specialità n. 3229 del 17.07.2013 della dott.ssa [omissis] in particolare della comunicazione fatta alla AMTrust Europe circa l’applicazione della garanzia per colpa grave ex art. 36 della polizza RCT/O n. ITOMM1301773, in favore della dott.ssa [omissis] [omissis].

All’odierna udienza, a porte chiuse per via della protrazione del periodo emergenziale pandemico dovuto al Virus COV-SARS2, fino al 31.12.2021, in sede di dibattimento, le parti in causa e il rappresentante della Procura regionale hanno ribadito le proprie conclusioni scritte e confermato le proprie richieste, ulteriormente argomentando.

La causa è stata quindi trattenuta in decisione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il Collegio è chiamato a decidere su un caso ‘emblematico’ di colpa medica professionale – da cui discende, com’è noto, una responsabilità amministrativo-contabile indiretta, riveniente dal pagamento del sinistro nei confronti degli aventi diritto ad opera dell’Azienda Ospedaliera – caratterizzato da una serie di avvenimenti, a dir poco, ‘sconcertanti’, nei quali sono confluite varie responsabilità, a vari livelli e che, complessivamente, hanno dato causa all’evento letale occorso in data 15 aprile 2014 al sig. [omissis] [omissis], deceduto per ‘scompenso cardiaco acuto’ presso il Reparto di [omissis] dell’Ospedale “[omissis] [omissis] [omissis] [omissis]” di [omissis], a causa dell’erronea somministrazione del farmaco “Idarubicina”, in un sovradosaggio assai sproporzionato, che ne determinò il decesso.

Prima di affrontare il merito della causa, vanno rigettate per infondatezza le eccezioni

preliminari delle due difese, alcune delle quali di identico contenuto.

a. La difesa della dott.ssa [omissis] in primis ha contestato l’atto di citazione in giudizio eccependone la nullità per difformità ex art. 87 c.g.c.

Come ha già avuto modo di affermare in udienza il rappresentante della Procura regionale rispetto a detta doglianza, ritenendola infondata, non risulta in atti alcuna mancata corrispondenza tra atto di citazione e invito a dedurre, dalla cui semplice lettura ragionata emerge chiaramente la piena corrispondenza di petitum e causa petendi né alcun elemento contrario si rileva per poter affermare che l’atto di citazione decampi completamente dal contenuto sostanziale dell’invito a dedurre. La doglianza de qua appare meramente pretestuosa.

b. Comuni ad entrambe le difese sono le altre eccezioni preliminari e pregiudiziali:

b.1. Riguardo all’eccezione di inesigibilità del pregiudizio erariale per mancata attivazione del contratto assicurativo, si rileva subito l’inconferenza della questione, atteso che – come da giurisprudenza assai consolidata sul punto – la corretta gestione della copertura assicurativa da parte dell’amministrazione configura una circostanza totalmente estranea alla pretesa erariale azionata, al pari di quella attinente alla stipula dei contratti di assicurazione più appropriati ed idonei. (Cfr., ad esempio, tra le più recenti, Corte conti, Sezione III Appello, n. 13/2020). Ciò significa che le vicende del contratto assicurativo dell’Azienda Sanitaria Locale non hanno alcuna rilevanza sulla pretesa erariale de qua e del tutto ininfluente sul giudizio è la sottoscrizione o meno dell’appendice relativa all’estensione della franchigia, poiché tale appendice non esclude comunque l’operatività della franchigia, trattandosi di ‘assicurazione aggiuntiva’, da attivare su richiesta, con la quale la Compagnia si impegna a non surrogarsi nelle pretese nei confronti dei dipendenti; cioè a dire che la franchigia non opererebbe da parte dell’Assicurazione nei confronti dei dipendenti.

Come ha già avuto modo di sottolineare condivisibilmente il PM d’udienza, “…tale appendice non solo non risulta sottoscritta, ma neppure attivata […]” ; egli fa inoltre presente in udienza come emerga chiaramente dalle produzioni documentali, il tentativo dei convenuti di attivarla mediante adesioni ‘ora per allora’.

Si tratta evidentemente di circostanze ultronee, di natura civilistica, che non rilevano sulla pretesa erariale pubblica di cui si tratta e che impingono la competenza di un’altra giurisdizione (A.G.O.).

b.2. Quanto all’eccezione di prescrizione del credito erariale, essa risulta infondata, in quanto, in ipotesi di danno indiretto, quale quella di cui si discute, il periodo prescrizionale decorre dall’effettivo esborso di danaro pubblico, perciò dal pagamento del danno (Deliberazione di liquidazione, 31 agosto 2015, n. 1439). Il termine prescrizionale risulta essere stato validamente interrotto dalla Procura regionale con l’emissione dell’invito a dedurre (17 giugno 2020). (Sulla decorrenza della prescrizione dall’effettivo esborso in ipotesi di danno indiretto, cfr., Corte conti, SS.RR., sent. n.14/2011).

  1. Passando ora al merito del giudizio, il Collegio, anzitutto, aderendo all’opposizione del PM d’udienza, non ritiene sia necessario richiedere una ulteriore consulenza tecnica, considerate esaustive e complete le tre relazioni peritali già esperite fra procedimento amministrativo e penale e acquisite agli atti, aventi tutte la medesima conclusione, stando alla quale, l’evento morte, nel caso de quo, è conseguito, secondo le regole civilistiche, all’errata posologia del farmaco, da ricondursi materialmente al duplice errore di trascrizione commesso dalla dott.ssa [omissis], sia nella richiesta cartacea che su quella informatica e alla successiva errata conferma della dott.ssa [omissis].

Tanto premesso, appare assai sconcertante e al limite del credibile quello che risulta dagli atti di causa, nel merito del processo de quo.

Tralasciando – perché già decise con separato provvedimento giurisdizionale – le condotte gravemente colpevoli dei dottori [omissis] e [omissis], le cui posizioni sono state definite con rito abbreviato (cfr., sent. n. 73/2021 del 13 agosto 2021, già cit. nella premessa e nella parte in fatto) e sulle quali nulla può più dirsi, il Collegio è chiamato ora a valutare le condotte dei due medici, nella triste vicenda de qua, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis], quali medici specializzandi dell’Unità di [omissis] (Struttura

Complessa di [omissis] e [omissis]) dell’Ospedale [omissis] [omissis] [omissis] [omissis] di [omissis].

Le suddette sono state evocate in giudizio dalla Procura regionale per un danno pro capite pari ad € 200.000,00, in quanto con comportamenti commissivi gravemente colpevoli hanno dato concausa (insieme ai dottori [omissis] e [omissis], di cui sopra), nell’ipotesi accusatoria, all’esito letale occorso al sig. [omissis], ricoverato per [omissis] [omissis] [omissis] nel surriferito Nosocomio.

Va subito rilevato – onde sgombrare il campo da equivoci – che il fatto che si trattasse di due specializzande, evidentemente, non scusa la estrema, quanto gravissima superficialità con cui le medesime hanno dimostrato di operare – per quel che qui rileva, nel caso concreto all’esame – nel Reparto di [omissis] dell’Ospedale, in cui erano di diritto inserite quali Medici in Corso di specializzazione, con la supervisione di un tutor (dott.ssa [omissis]) e di gestire, in particolare, il sig. [omissis]. I fatti del resto chiaramente dimostrano la colpa grave dell’una, (dott.ssa [omissis]), per aver inspiegabilmente (e quasi inverosimilmente) riportato, ‘per errore’ rispetto alla corretta prescrizione della dott.ssa [omissis], un marchiano e lampante sovradosaggio di farmaco chemioterapico, di cui la stessa non si avvedeva fino all’evento letale, nonché dell’altra, (dott.ssa [omissis]), che con estrema e grave superficialità interloquiva incautamente con la Farmacia Oncologica dell’Ospedale, che aveva rilevato l’abnorme dosaggio del farmaco, confermando un dato che le era oscuro e cioè che si trattasse di dosaggio coerente con il Protocollo AIDA, senza verificare l’esattezza di quanto stava affermando, né chiedendo chiarimenti al medico strutturato né consultando il Protocollo AIDA e senza peraltro notiziare, successivamente, della telefonata, né la collega specializzanda né il tutor dott.ssa [omissis]. Inammissibili appaiono dette condotte, tenute da Medici, sia pure in corso di specializzazione, ma, comunque, sempre, Medici chirurghi.

E’ proprio la qualifica professionale da esse posseduta che connota di maggiore gravità l’errore marchiano commesso, quali medici, che, con molta disinvoltura, senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze del proprio operato – purtroppo nefaste, nella fattispecie – hanno, l’una (dott.ssa [omissis]), errato inammissibilmente (e quasi incredibilmente) nella trascrizione del dosaggio del farmaco, esorbitante i limiti massimi di posologia del farmaco stesso, senza minimamente avvedersene (un Medico è tenuto a verificare attentamente la posologia di un farmaco, soprattutto se chemioterapico! Né può non rendersi conto – conoscendo esattamente quali siano le dosi da ‘Protocollo’ e soprattutto sulla base di un esatto dosaggio della dott.ssa [omissis] – di aver trascritto un sovradosaggio assai eccessivo!); l’altra (dott.ssa [omissis]), confermato con estrema superficialità l’errore della prima, rispondendo ad una telefonata di chiarimenti ricevuta dalla Farmacia Oncologica Ospedaliera, in ordine alla esorbitanza del dosaggio – senza consultare la cartella clinica del degente né i dosaggi massimi indicati nel Protocollo AIDA – affermava incautamente che proprio quello era stato il dosaggio prescritto in applicazione del suddetto Protocollo, inducendo in errore il chiamante e non informando tempestivamente della richiesta telefonica ricevuta dalla farmacia, né la collega specializzanda né soprattutto la tutor dott.ssa [omissis], responsabile del paziente e medico prescrittore e dunque tenuta a svolgere un diligente controllo sia sulla evoluzione del percorso nosocomiale del sig. [omissis] e sia sull’operato delle specializzande.

Del tutto infondate e pretestuose appaiono le doglianze di parte, tese a minimizzare la condotta delle due specializzande e a massimizzare invece la condotta – si ripete – sicuramente connotata da altrettanta grave colpa, dei due medici strutturati.

I fatti dimostrano indubitabilmente la colpa grave di entrambe le convenute, che – anche con il concorso di altri, di cui a breve si dirà – hanno dato concausa al decesso del sig. [omissis] [omissis] per ‘scompenso cardiaco acuto’.

  1. Dal punto di vista generale, il Collegio non può fare a meno di rammentare che nell’esercizio della propria professione, il medico deve sempre mantenere particolarmente alta e vigile la propria attenzione, per evitare di mettere a repentaglio la vita o, comunque, la salute dei propri pazienti.

Ciò detto, preso atto degli arresti giurisprudenziali della Suprema Corte in ordine ai profili di colpa nell’esercizio della professione sanitaria, con particolare riferimento all’individuazione del nesso di causalità tra condotta ed evento, nonché dei principi, altrettanto consolidati nella giurisprudenza della Corte dei conti, in materia di colpa medica nell’ambito di un giudizio di danno erariale indiretto, si deve precisare che non ogni condotta diversa da quella doverosa, comporta sicuramente una colpa grave, ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia, con riferimento alla prudenza, perizia e diligenza che invece ci si aspetterebbe da figure sanitarie professionali di alto profilo, quali i medici e che sia posta in essere senza la scrupolosa osservanza, nel caso concreto, di quel livello minimo di diligenza, prudenza o perizia, richiesti particolarmente all’esercente la professione sanitaria in genere, onde non incorrere in situazioni pericolose per la vita dei propri pazienti; occorre puntualizzare, inoltre, che tale ‘livello minimo’ dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente e dalla sua particolare preparazione professionale, in quel settore della pubblica amministrazione al quale è materialmente preposto (cfr., ad esempio, Corte conti, Sez. Appello Sicilia, n. 418/2014). Una giurisprudenza in materia di colpa medica, ricorda ad esempio come la colpa grave si concretizzi “in un comportamento non consono a quel minimo di diligenza richiesto nel caso concreto ed improntato ad evidente imperizia, superficialità, trascuratezza ed inosservanza degli obblighi di servizio, che non risulta giustificato dalla presenza di situazioni eccezionali ed oggettivamente verificabili, tali da impedire all’agente il corretto svolgimento delle funzioni volte alla tutela degli interessi pubblici a lui affidati”. (Cfr., Corte conti, Sez. Appello Sicilia, 23 gennaio 2012, n. 18).

  1. Venendo poi, in particolare, al nesso di causalità, ai fini dell’affermazione di una responsabilità amministrativo-contabile, è necessario che insieme all’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, la condotta posta in essere nell’occasione sia diretta cagione del danno (come nel caso qui all’esame).

Tale circostanza assume connotati di particolare rilevanza nel caso di danno indiretto, quale quello qui azionato, e, particolarmente, di danno erariale discendente da riconoscimento di una colpa medica professionale. Infatti, posto che la relazione tra danno erariale e colpa medica professionale si sostanzia nel fatto che senza la seconda non vi sarebbe stato un esborso di denaro da parte della pubblica amministrazione, è poi compito esclusivo del Giudice contabile, di fronte all’azione del Procuratore regionale volta ad ottenere dall’esercente la professione sanitaria la restituzione di quanto pagato dall’Azienda sanitaria a titolo di danno conseguente a colpa professionale – valutare se le condotte materiali del medico e/o delle altre figure sanitarie, non perite e imprudenti e non conformi alle linee guida siano da porre in diretta ed esclusiva relazione col fatto di danno poi risarcito dall’Azienda sanitaria. Con la conclusione che, se oltre alle condotte del sanitario/i convenuti nel processo amministrativo contabile, il fatto dannoso risarcito sia riconducibile anche a diverse altre cause, esterne (concause) e queste o non vengano prese in considerazione dall’attore o rimangano estranee al giudizio (ad esempio, perché l’attore pubblico non ha ritenuto di valutarle o le ha ritenute irrilevanti) ovvero anche, se il fatto dannoso sia riconducibile anche ad altri soggetti, in ipotesi, corresponsabili, non può concludersi per una assenza di dimostrazione del nesso di causalità nei confronti degli evocati in giudizio – come sembrano ritenere le difese di parte – ma ciò impone al Giudice contabile di valutare tutte le concorrenti responsabilità – anche ‘idealmente’ – per porre nei confronti di ciascuna concausa esterna e di ciascun corresponsabile la quota di danno ad essi astrattamente o concretamente spettante.

  1. Nel caso de quo, il Collegio giudicante ha proceduto ad una attenta ricostruzione dei fatti sulla scorta di tutti gli elementi di prova offerti dalle parti e acquisiti ex officio e presenti nel fascicolo processuale.

Nella fattispecie concreta è perciò incontrovertibilmente risultato che – come già riferito più sopra – i due medici specializzandi, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis] hanno dato causa finale e diretta con le loro condotte gravemente, quanto ingiustificabilmente, imperite ed imprudenti all’evento letale occorso al sig. [omissis]; la loro condotta gravemente colpevole è stata tuttavia favorita da una serie di concause che effettivamente hanno tutte concorso alla causazione del danno letale e che vanno adeguatamente prese in considerazione, a fini di giustizia, pur in assenza di idonea valutazione sul punto da parte della Procura territoriale che ha ritenuto di non citare in giudizio gli ulteriori corresponsabili della incredibile vicenda de qua.

Come in atti affermato dal Responsabile della Divisione anticrimine della Polizia di Stato, all’esito della rimessione della notizia di reato al Procuratore della Repubblica competente, è emerso con chiarezza incontestabile, in fattispecie, come un semplice errore di trascrizione sia passato – incredibilmente – indenne innanzi a svariate figure professionali di provato valore e competenza. Invero la dose erronea era riportata ovunque, sia sulla cartella clinica cartacea sia su quella informatica, entrambe visionabili in qualsiasi momento da tutto il personale medico e infermieristico. Un discorso analogo può farsi per le farmaciste che di fronte ad una richiesta palesemente anomala (quattro volte la dose massima somministrabile ad un essere umano secondo il protocollo AIDA) hanno accettato supinamente una mera conferma telefonica data da una dottoressa specializzanda, senza approfondire. Infine, come valutare l’operato delle infermiere che materialmente hanno somministrato il medicinale in sovradosaggio?

Il Collegio perciò ha il dovere di darsi carico, dapprima – quanto alla considerazione di concause esterne – della constatazione di una inidonea organizzazione del Reparto di [omissis], che non attivava periodicamente i necessari controlli interni nè la necessaria supervisione quotidiana da parte dei medici strutturati e soprattutto non era dotato, all’epoca dei fatti, di quel necessario software idoneo a bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci; inoltre, va adeguatamente e seriamente presa in considerazione – quanto agli altri corresponsabili – la condotta assai scriteriata della Farmacia Oncologica (nelle persone del Dirigente responsabile, dott. [omissis] [omissis]; farmaciste preparatrici del farmaco, dott.sse [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis]), che, ben sapendo quale fosse la dose massima da inoculare ai pazienti oncologici, agevolava il verificarsi del triste evento, preparando materialmente le posologie sproporzionate, poi rivelatesi fatali, del farmaco chemioterapico ‘Idarubicina’ e pur avendo il dubbio che si trattasse di posologia esorbitante e senza effettuare i necessari controlli con il medico prescrittore – come, peraltro, avrebbero richiesto, in particolare, le Raccomandazioni emanate dal Ministero della salute del 14 ottobre 2012 per la prevenzione degli errori di posologia nelle terapie con farmaci anti neoplastici, laddove si raccomanda che la richiesta della preparazione galenica del farmaco debba essere sempre fatta dal medico prescrittore per iscritto o con la c.d. CIC (Convalida Informatica Certificata) e laddove è chiaramente raccomandato di non poter accettare prescrizioni verbali, eccetto che per l’interruzione urgente della terapia, che deve comunque essere trascritta quanto prima possibile – preparavano il farmaco de quo in dosaggi esorbitanti; ancora inspiegabile e inammissibile risulta, nel caso all’esame, la condotta delle infermiere che materialmente hanno inoculato le dosi letali del detto farmaco chemioterapico ([omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis]) senza minimamente chiedersi – come la loro preparazione infermieristica professionale avrebbe richiesto e come potevano verificare quotidianamente, attese le comuni e continue somministrazioni di farmaci chemioterapici ai pazienti oncologici degenti – come mai a quel paziente fosse prescritta una dose così elevata (esorbitante i limiti massimi di posologia di quel farmaco chemioterapico) e senza interpellare sul punto i medici addetti al Reparto e il medico prescrittore.

Anche il personale infermieristico infatti nell’esercizio delle proprie delicate mansioni a contatto diretto con i pazienti deve attenersi a canoni di correttezza e diligenza qualificata, a regole di estrema cautela in ragione della sua specifica qualità professionale esercitata, specie in un Reparto specializzato oncologico; essi sono perciò responsabili per imprudenza negligenza o imperizia nel caso di errori nella somministrazione della terapia e nel monitoraggio successivo del paziente, perché il loro ruolo non può essere solo quello di ‘mero esecutore materiale’ della terapia, ma deve comportare l’obbligo di controllare, prima e dopo la somministrazione del farmaco, le condizioni del paziente e di rilevare, ad esempio, macroscopici errori di indicazione del dosaggio di farmaci o inappropriatezze di prescrizioni terapeutiche, svolgendo le opportune segnalazioni al medico strutturato prescrittore.

  1. Il Collegio conclusivamente ritiene che, in fattispecie, se anche una sola delle figure professionali coinvolte nella vicenda de qua si fosse adeguatamente attenzionata e avesse seriamente svolto il proprio ruolo professionale, con l’estrema diligenza che il caso richiedeva, il sig. [omissis] avrebbe potuto, verosimilmente, superare e cronicizzare lo stato leucemico dal quale era afflitto, come si può agevolmente verificare dalla storia clinica letteraria di pazienti leucemici curati con il corretto Protocollo e molto spesso guariti. (Vedasi, ad es., le tante testimonianze di pazienti curati e guariti presso il Reparto di [omissis] dell’Università La Sapienza di Roma, che – con la scienza del compianto prof. F:M: e i medici della sua equipes – sono tornati ad una vita normale: recentemente (21 giugno 2021) i mass-media hanno riportato la notizia del nostro

Presidente della Repubblica Mattarella, che ha raccolto la testimonianza di una persona guarita da [omissis] [omissis] [omissis], signora [omissis], ricevuta al Quirinale in occasione dei 50 anni di attività dell’Associazione AIL – fondata proprio dal prof. M. – di cui la guarita è ora volontaria).

Tutto ciò premesso e considerato, nella triste vicenda all’esame, devono essere attentamente valutate tutte le corresponsabilità coinvolte, non evocate in giudizio, che, ciascuna con il proprio ruolo, sono intervenute e hanno dato concausa all’evento fatale occorso al sig. [omissis], per graduarne la responsabilità e addossare a ciascuna la quota-parte di danno, secondo giustizia. E non va ovviamente sottovalutato il preminente ruolo svolto dal Reparto di [omissis], sotto il profilo amministrativo e di adeguatezza della struttura sanitaria specializzata.

Orbene, considerato che dal danno totale richiesto (=€ 800.000,00) deve essere detratta la quota parte addossata ai dottori [omissis] e [omissis], la cui posizione è stata definita con Rito abbreviato, come già rappresentato, rimane una quota-parte di danno, pari in totale a euro 400.000,00, che la Procura attorea ha chiesto di imputare, metà ciascuna, alle odierne convenute. Il Collegio non concorda con detta imputazione, relativamente al quantum debeatur delle dottoresse [omissis] e [omissis] e ritiene equitativamente di poter addossare la parte prevalente del danno de quo nella misura del 75% di esso (pari a euro 300.000,00) alla inidonea organizzazione amministrativa-sanitaria del Reparto di [omissis], privo, all’epoca dei fatti, di quel software necessario in grado di bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci, che, solo successivamente al sinistro occorso al sig. [omissis], fu installato presso l’Ospedale ed in considerazione, altresì, degli insufficienti controlli interni predisposti dal Dirigente della struttura complessa, che vedevano troppe assenze di personale medico strutturato in corsia; detta mala-organizzazione in un Reparto [omissis], a parere del Collegio, ha avuto una valenza preponderante, quale concausa esterna, sul verificarsi della sconcertante vicenda all’esame. Il rimanente 25% del danno (pari a euro 100.000,00) va ad imputarsi, pro quota, in base alla rispettiva responsabilità, nei confronti anzitutto delle due dottoresse specializzande (cui va attribuita la quota-parte di euro 30.000,00, in parti uguali, pari a € 15.000,00 cadauna), qui evocate in giudizio, che, con comportamento gravemente colpevole, sono state la causa diretta e finale dell’evento letale nonché, virtualmente, va ad imputarsi la restante quota-parte di danno, pari a euro 70.000,00, in parti uguali, nei confronti degli ulteriori corresponsabili della vicenda de qua, sia il Responsabile della farmacia [omissis] dell’Ospedale che le due farmaciste preparatrici del farmaco nonché le quattro infermiere che materialmente hanno somministrato il farmaco con il dosaggio letale, per una quota-parte di danno pari a € 10.000,00 cadauno.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE DEI CONTI

Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, definitivamente pronunciando, ogni

contraria istanza ed eccezione reiette

ACCOGLIE parzialmente

La domanda della Procura regionale e, per l’effetto, condanna la dott.ssa [omissis] [omissis] e la dott.ssa [omissis] [omissis] al risarcimento del danno erariale indiretto pari a complessivi euro 30.000,00, in favore della Azienda Ospedaliera di [omissis], ripartito pro-quota nella somma di euro 15.000,00 cadauna. Sulla somma per cui è condanna sono dovuti la rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT nonché gli interessi legali sulla somma rivalutata, dalla pubblicazione della presente sentenza e fino al soddisfo.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in euro 598,40 (diconsi cinquecentonovantotto/40), in parti uguali.

Così deciso in Perugia, nella Camera di consiglio del 19 maggio 2021, proseguita il 6 luglio 2021.

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Medico ed infermiere manomettono i dispositivi medici ed il paziente muore

Cassazione penale 03/01/2022 n. 1 – Sez. TERZA PENALE

LA MASSIMA

Ci si trova, di fronte ad una fattispecie in cui un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

IL FATTO

Con sentenza n. 33253 del 2019 la Quarta Sezione penale della Corte di cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza del 18 maggio 2015 con la quale la Corte di appello di Bologna aveva confermato la precedente decisione del Tribunale di Bologna, che, ritenuta la penale responsabilità di  XY in ordine al reato di cui all’art. 589 cod. pen., per avere, in cooperazione colposa con altri, cagionato, con la sua imperizia, imprudenza e negligenza, la morte di XXX, paziente ricoverato presso il Reparto di terapia intensiva cardiologica dell’Ospedale Maggiore di Bologna, la aveva condannata alla pena ritenuta di giustizia.

Con la sentenza n. 33253 del 2019 la Corte di cassazione aveva rilevato che nel motivare la responsabilità della  la Corte territoriale aveva omesso di considerare quanto, nel determinismo causale della morte di XXX, avevano inciso da una parte la scelta, definita del tutto anomala, di un medico, operante presso la medesima struttura ove la  svolgeva le mansioni di infermiera, di procedere all’espianto del defibrillatore cardiaco impiantabile che era applicato al XXX con un anticipo ritenuto ingiustificato rispetto alla necessità clinica, quest’ultima legata al fatto che quello doveva essere sottoposto ad un intervento di chirurgia cardiaca che avrebbe richiesto il preventivo espianto dell’apparato, e da altra parte il fatto che, dato il momento di congestione che era in corso in quella mattinata nel reparto di terapia intensiva, non vi sarebbe stata in ogni caso la possibilità di intervenire tempestivamente per sopperire alla crisi cardiaca che aveva colpito l’uomo ed alla quale, essendo stato espiantato, non poteva più porre rimedio automaticamente il defibrillatore che questi, sino a poco tempo prima, portava nel suo corpo.

Si rileva, infatti, che secondo la accusa fra le cause della morte del XX vi era stata anche la circostanza che, essendo stato disattivato da un altro infermiere e dalla , o comunque senza la consapevole opposizione della XY , durante il turno notturno da costoro svolto, il meccanismo di attivazione dell’allarme sonoro della esistenza di eventuali malesseri cardiaci che era installato presso il letto occupato dal paziente XXX (così come per tutti gli altri pazienti ricoverati in terapia intensiva), e non avendo gli stessi provveduto né alla riattivazione dell’allarme, una volta terminato il loro servizio notturno, né ad informare di tale loro iniziativa gli infermieri che li avevano sostituiti nel turno diurno, la crisi cardiaca che aveva colpito il XXX non era stata rilevata nella sua immediatezza ma solamente quanto essa aveva già in buona parte spiegato i suoi effetti perniciosi.

Adita, pertanto, quale giudice del rinvio, la Corte di appello di Bologna, nuovamente investita della questione attinente alla responsabilità della , questa ha ribadito la responsabilità della donna, osservando che non vi erano elementi per affermare che l’evento morte del XXX fosse intervenuto a seguito di uno sviamento della ordinaria serie causale degli eventi, legato alla iniziativa di espiantare intempestivamente il defibrillatore automatico (fattore quest’ultimo che, peraltro, la Corte di Bologna ritiene non essere certo, non essendovi una tempistica standard in merito al momento in cui, in vista di un successivo intervento chirurgico, debba essere espiantato il defibrillatore impiantabile) né per sostenere, con la dovuta certezza, che, ove la crisi che aveva colpito il citato paziente fosse stata immediatamente percepita dal personale medico e paramedico in servizio presso il reparto in questione, comunque non sarebbe stato possibile ovviare ad essa nei ristretti tempi che la clinica medica ritiene utili.

 La Corte di Bologna ha, pertanto, confermato la affermazione della responsabilità della donna, limitandosi a ridurre la pena a questa inflitta, portandola da anni 2 di reclusione, come stabilito dal Tribunale di Bologna, ad anni 1 di reclusione, salvo il resto.

Avverso la sentenza in questione ha interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore fiduciario, la Coppolla, articolando due motivi di impugnazione.

Il primo motivo riguarda la erronea applicazione della legge penale in relazione alla rilevazione del nesso di causalità fra la condotta della  e l’evento morte oggetto di contestazione; in sostanza, rileva la ricorrente difesa, la Corte di Bologna, disattendendo le conclusioni cui era peraltro già giunta la Corte di cassazione, ha ritenuto che la condotta del dott. XX, che ha espiantato intempestivamente il defibrillatore dalla persona del XXX, non avrebbe costituito un autonomo ed autosufficiente elemento di rischio atto ad interrompere il nesso di causalità fra l’evento e la condotta della XY, laddove, invece, gli elementi istruttori in atti depongono per la irritualità dell’intervento del dott. XX, il quale non solo non aveva comunicato a tutti gli altri addetti alla terapia intensiva quanto da lui fatto, ma neppure si era preoccupato di verificare la funzionalità del sistema di allarme, tale quindi da introdurre un fattore di novità della precedente serie causale.

Quanto all’ulteriore profilo la ricorrente rileva che la valutazione sulla possibile tempestività dell’intervento dei sanitari, ove gli stessi fossero stati  avvisati per tempo, è stata operata in termini del tutto apodittici e senza procedere ad un autonomo e concreto esame delle risultanze probatorie, e senza, peraltro, che sia stato verificato quale sarebbe potuto essere il tempo utile per intervenire fattivamente a salvaguardia della vita del XXX; la necessità della verifica di tale lasso di tempo tanto più sarebbe stata evidente ove si consideri che, non essendo stato informato tutto il personale dell’avvenuto espianto del defibrillatore dal corpo del XXX, non vi era in atto nel personale una condizione di preallarme, posto che si riteneva che alle eventuali emergenze si sarebbe fatto fronte con il dispositivo che il paziente portava addosso.

Conclusivamente la difesa della imputata richiede nuovamente l’annullamento della sentenza della Corte di Bologna.

CONSIDERATO IN DIRITTO

 Il ricorso, essendo risultati manifestamente, infondati i due motivi posti a suo sostegno, deve essere dichiarato inammissibile. Con riferimento al primo motivo di impugnazione, con il quale la difesa della ricorrente lamenta, sotto il profilo della violazione di legge, il fatto che la Corte di Bologna, nell’affermare la penale responsabilità della  in ordine al reato a lei contestato, avrebbe fatto malgoverno degli artt. 40 e 41 del codice sostanziale penale nella parte in cui essi regolano il regime del nesso di causalità, in particolare nel caso in cui un evento sia dovuto alla interazione sotto il profilo causale di una pluralità di fattori genetici, ritiene la Corte che la doglianza sia del tutto priva di fondamento.

Deve, infatti, premettersi la assoluta irritualità del comportamento tenuto dalla  che, per ragioni da lei stessa ascritte alla esigenza di “scongiurare, durante la notte, quello che (la medesima) aveva definito ‘inquinamento acustico’”, aveva provveduto, unitamente all’altro collega svolgente il servizio notturno di assistenza infermieristica, a silenziare (oltre che gli stessi campanelli dell’interfono che consentiva ai pazienti di collegarsi con gli infermieri di guardia, “tanto che questi, per chiedere aiuto, dovevano chiamare ad alta voce’) il sistema di allarme acustico e visivo, (cosiddetto “allarme rosso”) volto a segnalare, onde immediatamente allertare il personale sanitario, la presenza di fenomeni patologici, ivi compresi quelli di aritmia cardiaca, riferibili ai singoli soggetti occupanti le postazioni di terapia intensiva, riguardante il posto letto assegnato al XXX; deve altresì ricordarsi che il detto sistema di allarme non solamente non era stato riattivato dai due al momento della cessazione del loro servizio ma anche che della sua anomala disattivazione i predetti non avevano fatto cenno ai loro colleghi montanti per il turno diurno.

In termini del tutto corretti, pertanto, i giudici del merito hanno attribuito rilevanza causale all’operato della imputata nel determinismo dell’evento morte del paziente XXX, posto che, evidentemente, la disattivazione dell’impianto di allarme acustico e visivo ha comportato un ritardo nell’assistenza prestata al paziente in occasione della crisi cardiaca per lui fatale.

Ciò posto si tratta di vedere se correttamente o meno in sede di merito è stato escluso che la serie causale, innescata dalla condotta della , può dirsi essere stata interrotta dal fatto che – in termini temporali verosimilmente anticipati rispetto ad una prassi prudenziale, sebbene sia stato accertato che non vi siano precisi riferimenti cronologici in ordine alla tempistica riguardante la effettuazione di tale, pur nell’occasione indispensabile, operazione – alle ore 8 e 28 minuti del 20 febbraio 2013, data in cui si è verificato l’evento, il cardiochirurgo che, successivamente – in particolare fra la tardissima mattinata ed il primo pomeriggio del medesimo giorno – avrebbe dovuto operare il XXX, aveva provveduto, come peraltro necessario in vista del programmato intervento, a disattivare il “defibrillatore cardiaco impiantabile” portato dal paziente e che, fino a quel momento, anche nella notte immediatamente precedente, aveva ovviato in via automatica, consentendo il ripristino dell’ordinario ciclo, alle non infrequenti anomalie del ritmo cardiaco che il paziente presentava.

Ci si trova, in sostanza, di fronte ad una fattispecie in cui un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

Nella specie si è dato correttamente corso al giudizio di responsabilità della , essendo stata esclusa – proprio per la sua doverosità in quanto necessariamente funzionale all’effettuazione del successivo intervento chirurgico programmato – la eccezionalità, tale da introdurre un fattore di rischio del tutto inatteso ed autonomo, della condotta di rimozione dell’apparecchio ICD tenuta dal sanitario intervenuto nella mattina del 20 febbraio 2013.

Tale operazione, infatti, sebbene inopportuna nella sua tempistica, non si presenta come idonea ad integrare una serie causale di pericolo del tutto autonoma rispetto alla condotta della , posto che, laddove non fossero stati disattivati i meccanismi automatici di allarme, si sarebbe potuto ragionevolmente ritenere che, l’ambiente ove si trovava il XXX, caratterizzato da un elevato grado di presenza di meccanismi automatici di attivazione della assistenza medica, avrebbe garantito a quello, in caso di necessità, una pronta ed adeguata prestazíone terapeutica.

 D’altra parte non può trascurarsi di osservare che – avendo la  e l’altro infermiere che aveva con lei svolto il turno notturno, disattivato l’impianto di allarme acustico che, pur in presenza del defibrillatore automatico, avrebbe segnalato a questi stessi soggetti il fatto che, durante la notte precedente all’evento morte, il XXX aveva presentato diversi episodi di aritmia cardiaca ,come successivamente emerso in occasione dell’esame dell’apparecchio già espiantato che in più di un’occasione era intervenuto a ripristinare il ritmo cardiaco – non era stato possibile apprezzare immediatamente una siffatta circostanza che, con assoluta verosimiglianza, ove, invece, posta a conoscenza del personale sanitario, avrebbe, quanto meno, indotto una particolare cautela sia nella scelta dei tempí per l’esecuzione dell’espianto sia – ove portata a conoscenza di tutto il personale e non del solo medico che, dopo avere eseguíto l’espianto, aveva compiuto l’”interrogatorio telemetrico dell’apparecchiatura”, il quale, a sua volta, aveva informato del suo operato solo alcuni altri addetti – nel monitoraggio, una volta compiuta tale operazione, delle condizioni del paziente.

Particolare attenzione che – pur considerate le peculiarità che caratterizzano in tema di assistenza medica un reparto di terapia intensiva – la non preventivamente rilevata presenza di particolari criticità, “silenziate” per effetto dell’avvenuta disattivazione dell’impianto di segnalazione acustica e visiva delle emergenze, aveva verosimilmente fatto trascurare. In definitiva nel rilevare che non vi era stata alcuna interruzione del nesso di causalità fra la improvvida condotta della  e l’evento da cui dipende l’esistenza del reato a lei ascritto la Corte felsinea non ha fatto cattivo governo dei criteri che regolano la materia in caso di pluralità di fattosi causali, avendo, invece, correttamente applicato il principio, accolto sia in sede normativa che dalla ermeneutica giurisprudenziale, di equivalenza causale, in applicazione del quale l’azione od omissione dell’agente è considerata causa dell’evento nel quale il reato si concretizza, anche se altre circostanze, di qualsiasi genere – a quello estranee, preesistenti, concomitanti o successive, laddove esse non siano state tali da determinare in maniera autonoma e del tutto indipendente dalle precedenti l’evento – concorrono alla sua produzione perché il comportamento dell’agente ha pur sempre costituito una delle condizioni dell’evento (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 26 marzo 1983, n. 2764).

Venendo al secondo motivo di ricorso, il cui oggetto è la ritenuta contraddittorietà o illogicità della motivazione della sentenza impugnata in quanto in essa la Corte felsinea avrebbe, in termini apodittici, rilevato che, ove l’impianto di allarme sonoro disattivato dalla  fosse stato in funzione sarebbe stato possibile intervenire tempestivamente a favore del XXX, va rilevata la inammissibilità anche di questo. Si rileva che sul punto la sentenza impugnata, lungi dal presentare il vizio lamentato dal ricorrente, ha invece minuziosamente ricostruito le fasi che hanno condotto all’exitus del XXX, segnalando il fatto che fra la prima fase di semplice tachicardia ventricolare, iniziata alle ore 8 e 48 minuti, per come oggettivamente risultante dalle registrazioni elettrocardigrafiche operate in via continuativa sui pazienti ricoverati nella rianimazione, e la fase di “asistolia non rettilinea”, rilevata strumentalmente alle ore 9, 0 minuti e 50 secondi, successivamente alla quale, dopo altri 2 minuti circa, sono iniziate le, ormai tardive, manovre di rianimazione, sono intercorsi quasi 13 minuti, tempo indubbiamente più che sufficiente, in un reparto ospedaliero istituzionalmente avvezzo a praticare cure d’urgenza quale è quello della rianimazione cardiologica (nel quale gli apparati “salvavita” sono già allocati accanto al posto letto di ogni degente), per apprestare una risposta che, ad avviso della Corte (e si tratta di valutazione di fatto del tutto plausibilmente basata sulle risultanze consultive di cui la Corte territoriale ha tenuto conto, come tale non censurabile di fronte a questa Corte di legittimità), avrebbe con elevatissima probabilità consentito, se tempestiva, la sopravvivenza del [XXX. Tutto questo, beninteso, solo in quanto l’apparato di costante monitoraggio della condizione del paziente fosse stato correttamente collegato con il sistema di allarme acustico e visivo, dovendo ritenersi, senza alcun ragionevole dubbio, che questo, adempiendo alla sua specifica funzione, avrebbe allertato il personale ospedaliero ben primo di quanto sia, invece, casualmente avvenuto nella fattispecie.

Le doglianze al riguardo formulate dalla difesa della ricorrente, attinenti alla pretesa “costipazione” del personale del reparto al momento in cui è verificata l’emergenza, impegnato in altre e diverse attività, non superano il livello della mera prospettazione fattuale, come tale non rilevante in questa sede, peraltro smentita dalla Corte di Bologna, la quale ha accertato che nel momento in cui si è verificata la crisi cardiaca che ha condotto il paziente a morte nel reparto vi erano, almeno, tre infermieri professionali ed un medico di guardia, nessuno dei quali impegnato in attività aventi una qualche urgenza e che, pertanto, ben avrebbero potuto essere interrotte onde prestare la indispensabile assistenza al XXX; tutto questo, beninteso, si ribadisce, solo in quanto gli strumenti apprestati per segnalare con immediata tempestività la presenza di situazioni di emergenza non fossero stati, con [inescusabile negligenza e gravissima imprudenza, disattivati dalla . Non essendo stata riscontrata, alla luce delle argomentazioni che precedono, alcuna contraddizione né manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata della Corte di appello di Bologna, anche il secondo motivo del ricorso presentato avverso di essa deve essere dichiarato inammissibile e, con esso, l’intera impugnazione.

Conseguentemente a tale statuizione la ricorrente, visto l’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannata al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Della presente pronunzia, essendo divenuta definitiva la condanna della , dipendente di una amministrazione pubblica, deve essere data notizia, ai sensi dell’art. 153-ter disp. att. cod. proc. pen., alla Azienda ospedaliera presso la quale la stessa, quantomeno all’epoca del fatto, prestava servizio.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Visto l’art. 153-ter disp. att. cod. proc. pen., dispone che il presente dispositivo

sia comunicato alla Azienda ospedaliera Ospedale Maggiore di Bologna.

Così deciso in Roma, il 3 novembre 2021

Tribunale di Roma. Dipendente di un villaggio turistico rifiuta la vaccinazione. Legittimo sospenderlo dalla retribuzione se a contatto con il pubblico ed a dirlo è il medico competente

Tribunale di Roma, Sez. 2 Lav., 28 luglio 2021, n. 18441
Il Giudice dott.ssa Renata Quartulli, sciogliendo la riserva che precede, esaminati gli atti

osserva
Dalla documentazione in atti risulta quanto segue:
-la ricorrente, sottoposta a visita di idoneità dal medico competente è stata dichiarata: “Idoneo con limitazioni” , ovvero: “Evitare carichi lombari maggiori/uguali a 7 Kg …Altro non può essere in contatto con i residenti del villaggio” ( cfr doc 5 in atti resistente) stante il rifiuto di sottoporsi a vaccinazione contro il virus Sars covid.

  1. Tale giudizio non risulta impugnato dalla lavoratrice;
  • a seguito di tale giudizio la – omissis – le ha comunicato , ai sensi dell’articolo 42 dlgs 81/08, la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con efficacia dall’1.07.2021, ” Data in cui si tornerà ad operare in modalità ordinaria, ovvero, non in smart working” fino a un eventuale giudizio revisione del giudizio di idoneità o cessazione delle limitazioni . ( cfr doc 6)
  • dall’organigramma prodotto in atti non risultano posizioni lavorative confacenti alla professionalità della ricorrente (né per la verità vi è alcuna deduzione al riguardo in ricorso) e quindi la possibilità di reimpiegare diversamente la ricorrente.

È evidente, quindi, che, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, la comunicazione datoriale non costituisce un provvedimento disciplinare per il rifiuto di sottoporsi a vaccinazione, bensì di un doveroso provvedimento di sospensione adottato stante la parziale inidoneità alle mansioni della lavoratrice. In questi casi, infatti, il datore dì lavoro ha l’obbligo di sospendere in via momentanea il dipendente dalle mansioni alle quali è addetto ai sensi dell’ art. 2087 c.c.

A questo riguardo si richiamano le condivisibili argomentazioni espresse dal Tribunale di Modena ( ordinanza del 19.5.21) che, dopo aver richiamato il disposto di cui all’art. 20 D. Lgs. 81/2008 secondo cui: “1. Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi fomiti dal datore di lavoro.

  1. I lavoratori devono in particolare:

a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;

b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale;…”

ha affermato : “Da una piena lettura della disposizione in esame si evince che il prestatore di lavoro, nello svolgimento della prestazione lavorativa, è tenuto (non solo a mettere a disposizione le proprie energie lavorative ma anche) a osservare precisi doveri di cura e sicurezza per la tutela dell’integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto. Il prestatore di lavoro è quindi titolare di precisi doveri di sicurezza e, pertanto, deve essere considerato soggetto responsabile a livello giuridico dei propri contegni… Si osserva poi che, a opinare diversamente e così ad escludere un obbligo (giuridicamente rilevante) di collaborazione da parte del prestatore di lavoro in materia di sicurezza sul lavoro, si depotenzierebbe in misura più che significativa l’obbligo di sicurezza cui il datore di lavoro è sicuramente astretto ai sensi dell’art. 2087 c.c.”

In ordine alla sussistenza dell’obbligo retributivo da parte del datore di lavoro, poi, la giurisprudenza concordemente ritiene che se le prestazioni lavorative sono vietate dalle prescrizioni del medico competente con conseguente legittimità del rifiuto datoriale di riceverle il datore di lavoro non è tenuto al pagamento della retribuzione (cfr. Tribunale di Verona, Sent. n. 6750/2015; Cass., n. 7619/1995).
Peraltro, come è stato osservato: “la protezione e la salvaguardia della salute dell’utenza rientra nell’oggetto della prestazione esigibile. Tutela della salute dell’utenza, penetrata nella struttura del contratto tanto da qualificare la prestazione lavorativa, che non può che attuarsi (anche) mediante la sottoposizione al trattamento sanitario del vaccino contro il virus Sars Cov-2. Con la conseguenza per cui un ingiustificato contegno astensivo rende la prestazione (ove tramontata la possibilità di ricollocamento aliunde) inutile, irricevibile da parte del datore di lavoro poiché inidonea al soddisfacimento dell’interesse creditorio e alla realizzazione del sinallagma, così come obiettivizzatosi nel regolamento contrattuale ( Trib. Modena cit).

Tali considerazioni assumono carattere assorbente e giustificano il rigetto del ricorso.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento di euro 1300 a titolo di compensi professionali oltre oneri di legge

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Consiglio di Stato sentenza 3568 del 30/06/2021 – respinto il ricorso contro obbligo di green pass


N. 03568/2021 REG.PROV.CAU.

N. 06007/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

Il Presidente

ha pronunciato il presente

DECRETO

sul ricorso numero di registro generale 6007 del 2021, proposto da
omissis, rappresentati e difesi dall’avvocato Francesco Scifo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro

Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero Salute, Ministero Interno, Ministero Economia non costituiti in giudizio;
per la riforma

del decreto cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 03624/2021, resa tra le parti, concernente DCPCM 17 GIUGNO 2921

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista l’istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.;

Considerato che l’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal Presidente del Tribunale amministrativo regionale, a fronte del testuale disposto normativo di cui all’articolo 56 c.p.a., può essere considerato ammissibile nei soli casi del tutto eccezionali di provvedimento che abbia solo veste formale di decreto ma contenuto sostanzialmente decisorio;

Ritenuto che tali casi di provvedimenti monocratici impugnabili aventi solo veste formale di decreto o “decreti meramente apparenti” si configurano esclusivamente nel caso in cui la decisione monocratica in primo grado non abbia affatto carattere provvisorio ed interinale ma definisca o rischi di definire in via irreversibile la materia del contendere;

Ritenuto che l’istanza cautelare, per quanto ammissibile, non è tuttavia fondata;

Considerato infatti:

1) che le contestate prescrizioni del D.P.C.M. impugnato trovano copertura di fonte primaria nel D.L. n. 52/2021 il cui precetto normativo va applicato per come incorporato dalla legge di conversione n. 87/2021;

2) che le prescrizioni stabilite dal Garante per la riservatezza dei dati personali mantengono la loro efficacia nei confronti delle misure applicative di copertura dell’autorità sanitaria nazionale cui spetta il coordinamento delle iniziative occorrenti;

3) che il “green pass” rientra in un ambito di misure, concordate e definite a livello europeo e dunque non eludibili, anche per ciò che attiene la loro decorrenza temporale, e che mirano a preservare la salute pubblica in ambito sovrannazionale per consentire la fruizione delle opportunità di spostamenti e viaggi in sicurezza riducendo i controlli;

4) che la generica affermazione degli appellanti (pag. 7 appello) secondo cui “allo stato delle conoscenze scientifiche” non vi sarebbe piena immunizzazione e quindi si creerebbe un “lasciapassare falso di immunità”, si pone in contrasto con ampi e approfonditi studi e ricerche su cui si sono basate le decisioni europee e nazionali volte a mitigare le restrizioni anti covid a fronte di diffuse campagne vaccinali;

Considerato quindi che deve essere confermato il decreto del Presidente del T.A.R. del Lazio impugnato in questa sede.

P.Q.M.

Respinge l’istanza cautelare.

Il presente decreto sarà eseguito dall’Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Roma il giorno 30 giugno 2021.

 Il Presidente
 Franco Frattini

IL SEGRETARIO

Il quesito. Il sanitario che non si vaccina non può lavorare?

La norma di legge


Il comma 6 dell’art. 4 recita: “Decorsi i termini per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale di cui al comma 5, l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza.
L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”.

Non sussiste un obbligo assoluto di svolgere la professione se applicata in settori dove non vi è contatto con il pubblico come per esempio teletriage, refertazione al di fuori dei reparti di degenza, televisita ecc .

Gli obblighi della struttura

Una volta accertato che il sanitario non si è vaccinato, la struttura sanitaria non ha un obbligo di mutare l’organizzazione ed ha il divieto, pena responsabilità verso il paziente, di far svolgere attività in presenza a personale non vaccinato e può disporne la sospensione e/o messa in ferie fino al mese di DIcembre 2021.

E’ vietata qualunque attività e presenza di personale sanitario non vaccinato a contatto con il pubblico e nei reparti di degenza.

Cosa rischia il medico non vaccinato che opera in presenza

Il medico può essere denunciato per esercizio non autorizzato di professione sanitaria e nel caso in cui il paziente venga infettato sarà responsabile civilmente e penalmente.

L’ordine professionale può assumere nei suoi confronti le sanzioni disciplinari più gravi come la sospensione e/o nel caso di diffusione del contagio tra i suoi pazienti anche sanzioni più gravi.

Cosa rischia il medico non vaccinato che opera non in presenza

Il tema deontologico è controverso, a mio avviso, in ragione di una interpretazione Costituzionalmente orientata, il medico è responsabile anche deontologicamente se svolge attività in presenza.

Sullo stesso tema

I Giudici hanno espresso alcune opinioni in proposito.

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