Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

La quarantena non è incostituzionale

Corte Costituzionale n. 127 6 aprile – depositata il 26 maggio26 maggio 2022

LA MASSIMA

I «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose». Si è, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

Questa è l’opinione della Corte Costituzionale espressa nella sentenza n. 127 emessa il 6 aprile e depositata il 26 maggio scorso.

La rimessione prese spunto da una causa penale. incardinata presso il Tribunale di Reggio Calabria. dove all’imputato fu contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

LE NORME CENSURATE

La sentenza ha respinto le questioni di incostituzionalità degli artt.  2. 1, comma 6° e 2, comma 3° del decreto-legge 16/05/2020, n. 33, convertito, con modificazioni, nella legge 14/07/2020, n. 74.  (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19).

L’art. 1, comma 6, stabilisce che «è fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, aggiunge che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

SENTENZA N. 127 ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, promosso dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, nel procedimento penale a carico di M. A., con ordinanza del 15 aprile 2021, iscritta al n. 141 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2022 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021), il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

L’art. 1, comma 6, censurato stabilisce che «[è] fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, censurato aggiunge che «[s]alvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

Il giudice rimettente riferisce di dover giudicare un imputato tratto a giudizio direttissimo, tra l’altro, in relazione alla contravvenzione così punita, perché tale persona «non avrebbe osservato un ordine legalmente dato per impedire la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo».

Sarebbe perciò palese la rilevanza della questione, che investe la legittimità costituzionale della norma incriminatrice.

In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che il divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora avrebbe un contenuto «assolutamente identico» alla restrizione imposta mediante gli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 del codice di procedura penale, ovvero mediante la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Gli istituti di diritto penale appena citati inciderebbero senza dubbio sulla libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost.

Il rimettente ne deduce che analoga conclusione debba essere formulata quanto al divieto di mobilità oggetto di causa.

Infatti, la quarantena obbligatoria implicherebbe una limitazione positiva legata alla persona, anziché negativa in relazione ai luoghi: ovvero, essa «non impone un divieto di recarsi in determinati luoghi», ma «un divieto di muoversi a determinati soggetti».

Il giudice a quo ne conclude che il provvedimento di adozione del divieto comporti una restrizione della libertà personale, anziché della libertà di circolazione tutelata dall’art. 16 Cost., e che quindi esso debba essere adottato dall’autorità giudiziaria, o soggetto a convalida di quest’ultima.

Il giudice a quo, escluso che la lettera delle disposizioni impugnate permetta in via interpretativa di ritenere che il provvedimento sia soggetto a convalida dell’autorità giudiziaria, dubita perciò della legittimità costituzionale del divieto di mobilità e del regime penale che ne accompagna la violazione, per lesione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

L’Avvocatura ritiene che la misura alla quale è sottoposto chi si ammala vada ricondotta alla sfera della libertà di circolazione, anziché all’art. 13 Cost., deducendone l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

Ciò sulla base, sia del criterio cosiddetto quantitativo, sia del criterio cosiddetto qualitativo, che sarebbero stati elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte e che determinerebbero, altresì, la non fondatezza della questione.

Infatti, secondo la difesa statale, la restrizione, nel caso di specie, avrebbe carattere lieve e non comprometterebbe la dignità della persona, sottoponendola ad un trattamento degradante.

Tali considerazioni, che sottraggono al campo proprio dell’art. 13 Cost. i trattamenti sanitari obbligatori, varrebbero anche per i «cordoni sanitari» istituiti per contenere il contagio, anche se con provvedimenti diretti nei confronti di singoli individui.

Il divieto di mobilità per cui è causa sarebbe perciò una misura limitativa della libertà di circolazione, di natura provvisoria, e subordinata al «mero accertamento della positività al virus Covid-19».

L’assenza di ogni carattere coercitivo renderebbe, inoltre, improprio il riferimento operato dal giudice rimettente agli istituti degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare, che invece comportano «forme di coazione fisica», quale l’applicazione del regime carcerario, in caso di inosservanza delle misure.

3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, limitandosi a reiterare gli argomenti già svolti in sede di intervento.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021) il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

Il rimettente giudica un imputato al quale è contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

Il giudice a quo reputa il combinato disposto delle norme censurate difforme dall’art. 13 Cost., perché esse non prevedono che il provvedimento dell’autorità sanitaria, con il quale il malato è sottoposto alla cosiddetta quarantena obbligatoria, sia convalidato entro 48 ore dall’autorità giudiziaria.

2.– Nella fase iniziale della pandemia il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, aveva approntato una risposta penale per ogni violazione delle «misure di contenimento» attuate, sulla base di tale fonte primaria, a mezzo di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Tuttavia, fin dall’entrata in vigore del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35, il legislatore ha preferito riservare la sanzione penale alla trasgressione ritenuta più grave, nell’ottica del contenimento del contagio, ovvero alla violazione del «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, purché risultate positive al virus», a condizione che tale misura fosse stata attivata con gli strumenti di cui all’art. 2 di tale testo normativo, ovvero d.P.C.m. o ordinanze del Ministro della salute (art. 1, comma 2, lettera e, del d.l. n. 19 del 2020).

Con le disposizioni oggi censurate è direttamente la legge, senza la successiva intermediazione di un d.P.C.m., a porre il «divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’ autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata» (art. 1, comma 6, del d.l. n. 33 del 2020, come convertito), nonché a stabilire che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265» (art. 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020).

Tale figura contravvenzionale di reato mantiene analoga forma, quanto agli elementi costitutivi della fattispecie e alla pena comminata, con il sopravvenuto art. 4, comma 1, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza), che «a decorrere dal 1° aprile 2022» introduce l’art. 10-ter nel testo del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52 (Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 giugno 2021, n. 87.

Quest’ultima disposizione, saldandosi all’art. 13, comma 2-bis, del d.l. n. 52 del 2021, come introdotto a propria volta dall’art. 11, comma 1, lettera b), del d.l. n. 24 del 2022, continua a comportare che sia incriminato, con la medesima pena, il fatto descritto dalle disposizioni del d.l. n. 33 del 2020, in forza delle quali l’imputato viene giudicato nel processo principale.

Pertanto, è palese che lo ius superveniens non interferisce con l’attuale questione di legittimità costituzionale.

2.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità della questione, perché il rimettente avrebbe errato nel ricondurre la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria allo statuto giuridico della libertà personale (art. 13 Cost.), anziché a quello della libertà di circolazione (art. 16 Cost.), che non contiene in sé, diversamente dal primo, la riserva di giurisdizione.

L’eccezione non è fondata, posto che essa attiene con ogni evidenza al merito della questione, e non già ai suoi profili preliminari.

3.– Nel merito, la questione non è fondata.

3.1.– Il dubbio del rimettente nasce dalla convinzione che una misura così limitativa della facoltà di libera locomozione, da impedire l’uscita dalla propria abitazione durante la malattia, non possa che ricadere nella sfera giuridica della libertà personale, al pari di misure che il giudice a quo reputa del tutto affini quanto al grado di afflittività, ovvero gli arresti domiciliari, che sono una misura cautelare (art. 284 del codice di procedura penale), e la detenzione domiciliare, ovvero una misura alternativa alla detenzione (art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»).

È evidente che la facoltà di autodeterminarsi quanto alla mobilità della propria persona nello spazio, in linea di principio, costituisce una componente essenziale sia della libertà personale, sia della libertà di circolazione.

Tuttavia, i criteri che il rimettente suggerisce per qualificare la fattispecie ai sensi dell’art. 13 Cost., anziché in base all’art. 16 Cost., non hanno mai trovato corrispondenza nella ormai pluridecennale giurisprudenza maturata da questa Corte sul punto controverso.

Questa Corte, con la sentenza n. 68 del 1964, ha già rilevato che i «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose».

Perciò, in linea di principio, e impregiudicato ogni ulteriore profilo concernente la legittimità costituzionale di tali misure, non si può negare che un cordone sanitario volto a proteggere la salute nell’interesse della collettività (art. 32 Cost) possa stringersi di quanto è necessario, secondo un criterio di proporzionalità e di adeguatezza rispetto alle circostanze del caso concreto, per prevenire la diffusione di malattie contagiose di elevata gravità.

A seconda dei casi, in particolare, e sempre alla luce della evoluzione della pandemia, il legislatore potrà orientarsi, sia nel senso di prescrivere un divieto generalizzato a recarsi in determinati luoghi, per esempio quando il fattore di contagio alberghi solo in questi ultimi (ciò che il rimettente definisce «limitazioni negative» legate al luogo, attribuendole all’art. 16 Cost.), sia nel senso di imporre un divieto di spostarsi a determinate persone, specie quando queste ultime, in ragione della libertà di circolare, siano, a causa della contagiosità, un pericoloso vettore della malattia (ciò che il giudice a quo sostiene erroneamente comportare una «limitazione positiva» prescritta all’individuo, come tale in ogni caso presidiata dall’art. 13 Cost.).

3.2.– Si tratta di stabilire, anzitutto, se le modalità con le quali una simile, gravosa misura siano state adottate non trasmodino, in concreto, in restrizione della libertà personale.

3.3.– Inoltre, una volta che si sia giunti alla conclusione che la limitazione introdotta dal legislatore appartenga, a buon titolo, al campo governato dall’art. 16 Cost., e si sia quindi potuto escludere ogni rilievo all’art. 13 Cost., ugualmente occorrerebbe valutare la conformità della misura adottata ai limiti costituzionali che il legislatore incontra in tema di compressione della libertà di circolazione.

Quest’ultima, pur priva della riserva di giurisdizione, resta assistita da garanzie consone al fondamentale rilievo costituzionale che connota la facoltà di locomozione, anche quale base fattuale per l’esercizio di numerosi altri diritti di primaria importanza.

Tuttavia, tale secondo aspetto del problema non è stato sottoposto all’attenzione di questa Corte dal giudice rimettente, che ha invece circoscritto il dubbio di costituzionalità alla violazione dell’art. 13 Cost., sicché è solo a quest’ultima che deve riservarsi ora l’attenzione, restando invece impregiudicato ogni profilo afferente all’osservanza dell’art. 16 Cost.

4.– Nella giurisprudenza costituzionale, il nucleo irriducibile dell’habeas corpus, tutelato dall’art. 13 Cost. e ricavabile per induzione dal novero di atti espressamente menzionati dallo stesso articolo (detenzione, ispezione, perquisizione personale), comporta che il legislatore non possa assoggettare a coercizione fisica una persona, se non in forza di atto motivato dell’autorità giudiziaria, o convalidato da quest’ultima entro quarantotto ore, qualora alla coercizione abbia invece provveduto l’autorità di pubblica sicurezza.

L’impiego della forza per restringere la capacità di disporre del proprio corpo, purché ciò avvenga in misura non del tutto trascurabile e momentanea (sentenze n. 30 del 1962 e n. 13 del 1972), è quindi precluso alla legge dalla lettera stessa dell’art. 13 Cost., se non interviene il giudice, la cui posizione di indipendenza e imparzialità assicura che non siano commessi arbitri in danno delle persone.

Qualora, pertanto, il legislatore intervenga sulla libertà di locomozione, indice certo per assegnare tale misura all’ambito applicativo dell’art. 13 Cost. (e non dell’art. 16 Cost.) è che essa sia non soltanto obbligatoria (tale, vale a dire, da comportare una sanzione per chi vi si sottragga), ma anche tale da richiedere una coercizione fisica.

Per detta ragione, questa Corte ha ritenuto che un mero ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, la cui esecuzione sia affidata alla collaborazione spontanea di chi lo riceve, afferisca alla libertà di circolazione, ma che, diversamente, ove l’ordine comporti la traduzione fisica della persona, esso debba essere assistito dalle garanzie di cui all’art. 13 Cost. (sentenze n. 2 del 1956 e n. 45 del 1960). Parimenti, il respingimento dello straniero con accompagnamento coattivo alla frontiera, a differenza dell’ordine di espulsione, restringe la libertà personale in ragione di tale «modalità esecutiva» (sentenza n. 275 del 2017; in precedenza, sentenza n. 222 del 2004).

L’«assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale» contraddistingue anche il trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza, in quanto l’autorità competente, «avvalendosi della forza pubblica» adotta misure che impediscono di abbandonare il luogo (sentenze n. 105 del 2001; si veda, inoltre, la sentenza n. 23 del 1975).

Sempre in osservanza del fondamentale criterio che attiene alla coercizione fisica, questa Corte ha ricondotto all’art. 13 Cost. l’esecuzione di un prelievo ematico nel corso di un procedimento penale «quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva» (sentenza n. 238 del 1996), ma ha invece escluso l’applicabilità di tale disposizione costituzionale al test alcolemico, ove proposto a chi sia sospettato di aver guidato in stato di ebbrezza, considerato che la persona, pur commettendo reato in caso di rifiuto ingiustificato, «non subisce coartazione alcuna, potendosi rifiutare in caso di ritenuto abuso di potere da parte dell’agente» di pubblica sicurezza (sentenza n. 194 del 1996).

Ed è bene precisare che qualora sia previsto il ricorso alla forza fisica al fine di instaurare o mantenere in essere, con apprezzabile durata, una misura restrittiva della facoltà di libera locomozione, allora la circostanza che la legge abbia introdotto tale misura in via generale per motivi di sanità non comporta che essa vada assegnata alla garanzia costituzionale offerta dall’art. 16 Cost., e sfugga così alla riserva di giurisdizione, posto che detto elemento coercitivo implica necessariamente che sia l’autorità giudiziaria ad applicare la restrizione, o a convalidarne l’esecuzione provvisoria.

Così, in particolare, la garanzia di cui all’art. 13 Cost. raggiunge certamente misure disposte o protratte coattivamente, anche se sorrette da finalità di cura, perché «quanto meno allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come “obbligatorio” – con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso, ma anche come “coattivo” – potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana – le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona» (sentenza n. 22 del 2022).

4.1.– Ciò premesso, l’obbligo, per chi è sottoposto a quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria, in quanto risultato positivo al virus COVID-19, di non uscire dalla propria abitazione o dimora, non restringe la libertà personale, anzitutto perché esso non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia.

Il destinatario del provvedimento è infatti senza dubbio obbligato ad osservare l’isolamento, a pena di incorrere nella sanzione penale, ma non vi è costretto ricorrendo ad una coercizione fisica, al punto che la normativa non prevede neppure alcuna forma di sorveglianza in grado di prevenire la violazione. In definitiva, chiunque sia sottoposto alla “quarantena” e si allontani dalla propria dimora incorrerà nella sanzione prevista dalla disposizione censurata, ma non gli si potrà impedire fisicamente di lasciare la dimora stessa, né potrà essere arrestato in conseguenza di tale violazione.

Non può a tale proposito sfuggire la marcata differenza che separa tale fattispecie dalle ipotesi normative evocate dal rimettente per giustificare l’applicazione dell’art. 13 Cost.

Sia la misura cautelare degli arresti domiciliari (art. 284 cod. proc. pen.), sia la misura alternativa alla detenzione costituita dalla detenzione domiciliare (art. 47-ter della legge n. 354 del 1975) sono, infatti, coattivamente imposte e mantenute in vigore, al punto che l’art. 3 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e di buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, consente l’arresto di chi sia evaso anche al di fuori dei casi di flagranza.

Non vi è quindi, su questo piano, alcun paragone possibile tra l’introduzione, da parte delle norme censurate e a pena di commettere una contravvenzione, del solo obbligo di non uscire di casa se malati, al fine di scongiurare ulteriori contagi, e l’esecuzione di provvedimenti tipici del diritto penale, ai quali è connaturata la coercibilità, perlomeno per i casi di inosservanza.

5.– Fin dagli esordi della sua giurisprudenza, questa Corte ha riconosciuto che l’art. 13 Cost. deve trovare spazio non soltanto a fronte di restrizioni mediate dall’impiego della forza fisica, ma anche a quelle che comportino l’«assoggettamento totale della persona all’altrui potere», con le quali, vale a dire, viene compromessa la «libertà morale» degli individui (sentenza n. 30 del 1962), imponendo loro «una sorta di degradazione giuridica» (sentenza n. 11 del 1956).

Tale criterio di lettura ha trovato ripetutamente applicazione, ove si è trattato di qualificare sul piano costituzionale i limiti imposti alla facoltà di libera locomozione, che non fossero accompagnati da forme di coercizione (sentenze n. 144 del 1997; n. 193 e n. 143 del 1996; n. 210 del 1995; n. 419 del 1994; n. 68 del 1964; n. 45 del 1960), e che, di conseguenza, si prestavano, in linea astratta, a convergere verso il campo di applicazione dell’art. 16 Cost.

Questa Corte ha tenuto ferma, al contrario, la necessità che simili restrizioni, ove implicanti «degradazione giuridica», fossero assistite dalle piene garanzie dell’habeas corpus offerte dallo statuto della libertà personale.

Specie a fronte di un vasto apparato di misure di prevenzione, che la legislazione dei tempi affidava alla gestione della sola autorità di pubblica sicurezza, si è infatti ritenuto che la medesima esigenza costituzionale di preservare la libertà dell’individuo, comprimibile solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge, dovesse essere avvertita non soltanto innanzi allo spiegamento di forme coercitive (il cui esercizio segna la più icastica manifestazione del monopolio statale della forza), ma anche per quei casi nei quali la legge assoggetta l’individuo a specifiche prescrizioni che si riflettono sulla facoltà di disporre di sé e del proprio corpo, compresa quella di locomozione, recando al contempo «una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona» (sentenze n. 419 del 1994 e n. 68 del 1964).

Si tratta, è appena il caso di precisarlo, di un criterio che è stato utilizzato nella giurisprudenza di questa Corte solo per allargare lo scudo protettivo dell’art. 13 Cost., e in nessun caso per ridimensionarlo: in altri termini, ove la restrizione sia ottenuta mediante coercizione fisica, essa continua ad afferire alla libertà personale, quand’anche non rechi degradazione giuridica.

Nel caso opposto, prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l’individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità.

5.1.– Naturalmente, può essere complicato, talvolta, distinguere, tra le incisioni della facoltà di locomozione, quelle che convergono, in quanto degradanti, verso la libertà personale, e quindi di competenza dell’autorità giudiziaria, e quelle che, invece, afferiscono alla libertà di circolazione.

Basti pensare, a tale proposito, che questa Corte ha ravvisato la pertinenza dell’art. 13 Cost. a fronte dell’obbligo, non coercibile, di comparire presso un ufficio di polizia durante lo svolgimento di manifestazioni sportive (sentenze n. 193 e n. 143 del 1996), ma la ha invece esclusa con riguardo al divieto di accedere agli stadi, perché l’assenza di un contatto con la pubblica autorità, in tal caso, determina una «minore incidenza sulla sfera della libertà del soggetto», ovvero non ne comporta una degradazione giuridica afferente alla dignità della persona (sentenza n. 193 del 1996).

Non vi è in questi casi, e salvo eccezioni, quel sottostante giudizio sulla personalità morale del singolo, e la incidenza sulla pari dignità sociale dello stesso, che reclamano, ove posti a base di una misura restrittiva pur non coercitiva, l’apparato di garanzie predisposto a tutela della libertà personale. Tuttavia, non è detto che questo sia sufficiente sul piano costituzionale, e che non debbano invece aggiungersi a ciò, in casi del tutto particolari, le garanzie offerte dall’art. 13 Cost., alla luce delle peculiarità con cui si è eventualmente manifestato l’intervento legislativo.

6.– Sulla base di questi principi deve ritenersi che, nel caso di specie, è palese che la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria recata dall’art. 1, comma 6, censurato non determina alcuna degradazione giuridica di chi vi sia soggetto e quindi non incide sulla libertà personale.

Si è qui, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

6.1.– Va infine ribadito che il paragone che il giudice rimettente instaura con le misure degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare è insostenibile.

In tali casi si è infatti in presenza di misure proprie del diritto penale, la cui applicazione è inscindibilmente connessa ad una valutazione individuale della condotta e della personalità dell’agente, da parte dell’autorità giudiziaria a ciò costituzionalmente competente.

Sono, questi, elementi che danno pienamente conto delle ragioni per le quali non è dubitabile che simili misure siano soggette alla riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost., ma che, al contempo, servono a chiarire perché non lo debba invece essere la cosiddetta quarantena obbligatoria, che non fa seguito ad alcun tratto di illiceità, anche solo supposta, nella condotta della persona, ma alla sola circostanza, del tutto neutra sul piano della personalità morale e della pari dignità sociale, di essersi ammalata a causa di un agente patogeno diffuso nell’ambiente.

Per tale ragione, sebbene il legislatore abbia costruito la figura di reato sull’inosservanza del provvedimento che sottopone la singola persona alla quarantena a seguito di positività al test del virus Covid-19, non solo non vi è alcun obbligo ai sensi dell’art. 13 Cost. che tale provvedimento sia convalidato dall’autorità giudiziaria, ma di quest’ultimo provvedimento amministrativo non vi sarebbe neppure stata la necessità costituzionale.

Il legislatore ben potrebbe, infatti, configurare come reato la condotta di chi, sapendosi malato, lasci la propria abitazione o dimora, esponendo gli altri al rischio del contagio, senza la necessità della sopravvenienza di un provvedimento dell’autorità sanitaria. Ciò infatti è accaduto durante la vigenza del d.l. n. 19 del 2020, il cui art. 4, comma 6, aveva provveduto proprio in tal senso.

Del resto, la natura del virus, la larghissima diffusione di esso, l’affidabilità degli esami diagnostici per rilevarne la presenza, sulla base di test scientifici obiettivi, fugano ogni pericolo di «arbitrarietà e di ingiusta discriminazione» (sentenza n. 68 del 1964), tale da chiamare in causa il giudice, affinché la misura dell’isolamento sia disposta, o convalidata tempestivamente; fermo restando che il malato non solo, come si è visto, può sottrarsi alla misura obbligatoria, ma non coercitiva (pur sostenendone le conseguenze penali), ma può altresì far valere le proprie ragioni, in via di urgenza, innanzi al giudice comune, perché ne sia accertato il diritto di circolare, qualora difettino i presupposti per l’isolamento.

7.– In definitiva, la questione di legittimità degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020 non è fondata, in riferimento all’art. 13 Cost., perché la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione, anziché restringere la libertà personale.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, sollevata, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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Suicidio assistito. Le ragioni del no al referendum

Corte Costituzionale Sentenza 50/2022 

   Decisione  del 15/02/2022 Deposito del 02/03/2022;   Pubblicazione in G. U. 02/03/2022  n. 9

SENTENZA N. 50

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’art. 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti:

a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»;

b) comma secondo: integralmente;

c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano», giudizio iscritto al n. 179 del registro referendum.

Vista l’ordinanza del 15 dicembre 2021 con la quale l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta;

udito nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi gli avvocati Tommaso Romano Valerio Politi per l’Associazione PRO VITA E FAMIGLIA Onlus e per il Comitato per il No all’eutanasia legale, Alessandro Benedetti per l’Associazione Scienza & Vita e per l’Unione giuristi cattolici italiani (UGCI), Carmelo Domenico Leotta per il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, Giovanni Doria per l’Associazione Movimento per la Vita, Mario Esposito per il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, Piercarlo Peroni per il Comitato Famiglie per il no al referendum sull’omicidio del consenziente, Siro Centofanti per il Comitato per il NO all’uccisione della persona anche se consenziente, Tullio Padovani per l’Associazione La Società della Ragione APS, per l’Associazione Liberi di Decidere, per l’Associazione Mobilitazione Generale degli Avvocati (MGA), per l’Associazione Walter Piludu Ets Aps e per l’Associazione Chi si cura di te Aps, Marcello Cecchetti per l’Associazione A Buon Diritto Onlus Aps, per l’Associazione Utenti e Consumatori Aps, per l’Associazione Consulta di Bioetica Ets, per la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), per l’Associazione ArciAtea Aps e per l’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti, Alfonso Celotto e Guido Aldo Carlo Camera per l’Associazione +EUROPA, Gianni Baldini e Gian Ettore Gassani per l’Associazione avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI), Filomena Gallo e Massimo Clara per il Comitato promotore Referendum eutanasia legale (Filomena Gallo, Marco Cappato, Wilhelmine Schett e Rocco Berardo, nella qualità di promotori e presentatori, Matteo Mainardi, Mario Staderini, Carlo Troilo, Mario Riccio, Monica Coscioni, Marco Gentili, Valeria Imbrogno, Vincenzo Maraio e Massimiliano Iervolino, nella qualità di presentatori);

deliberato nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2021, depositata il 16 dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1, limitatamente alle seguenti parole “la reclusione da sei a quindici anni”; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole “Si applicano”?».

2.− L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)».

3.− Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.

4.− In data 26 gennaio 2022, i promotori della richiesta di referendum hanno depositato una memoria, nella quale, dopo un’ampia premessa sulla natura e sulle finalità del referendum abrogativo, argomentano a sostegno dell’ammissibilità dell’odierno quesito.

4.1.– L’obiettivo espresso dal quesito referendario sarebbe quello di «eliminare parzialmente dall’ordinamento il rilievo penale della condotta dell’omicidio del consenziente, tranne nei casi specifici già previsti al medesimo art. 579, terzo comma, c.p. e per i quali è già stabilita la sanzione penale di cui all’art. 575 c.p.».

La richiesta sarebbe ancorata a una «matrice razionalmente unitaria», idonea al raggiungimento dello scopo dichiarato e anche esaustiva, essendo incentrata sulla sola e unica fattispecie penale dell’omicidio del consenziente. Il quesito non presenterebbe neppure un asserito taglio manipolativo: la sua formulazione e l’esito cui si intenderebbe pervenire – l’eliminazione della fattispecie dell’omicidio del consenziente – ne confermerebbero, infatti, la natura meramente ablativa, «niente affatto innovativa o tantomeno sostitutiva di norme».

4.2.– Riguardo agli eventuali effetti dell’abrogazione referendaria, la difesa dei promotori, richiamando diversi precedenti di questa Corte, ricorda, da un lato, che eventuali criticità o profili di illegittimità costituzionale delle normativa di risulta non potrebbero condurre, per ciò solo, a una dichiarazione di inammissibilità del quesito e, dall’altro, che questa Corte, pur non potendo compiere in sede di valutazione di ammissibilità del referendum abrogativo un giudizio anticipato di legittimità costituzionale, ben potrebbe rivolgere specifiche indicazioni al legislatore, al fine di superare eventuali profili di criticità conseguenti all’abrogazione referendaria.

4.3.– I promotori precisano, inoltre, che con l’abrogazione referendaria non verrebbe affatto «totalmente depenalizzata» la condotta dell’omicidio del consenziente, perché non verrebbe eliminata la rilevanza penale per le ipotesi, sia di condotte contro persone che si trovino in un particolare stato di vulnerabilità, ossia i minori e le persone inferme di mente o affette da deficienza psichica, sia per le ipotesi di consenso non libero, estorto o carpito con l’inganno, in base a quanto previsto dall’attuale art. 579, terzo comma, cod. pen., il quale non sarebbe inciso dalla odierna richiesta di referendum.

In altri termini, il presidio penale non verrebbe eliminato, bensì perimetrato sulla base di quelle medesime esigenze che questa stessa Corte, fissando le condizioni che renderebbero lecita la condotta dei terzi cooperanti all’attuazione del proposito suicidario, avrebbe individuato con la sentenza n. 242 del 2019.

Si sottolinea, infatti, come l’odierno quesito referendario si porrebbe in linea di ideale e concreta continuità rispetto a quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 242 del 2019 per l’aiuto al suicidio e, stante la «perdurante inerzia del legislatore» in materia, mirerebbe a superare la punizione di una condotta che, seppur differente rispetto a quella dell’aiuto al suicidio, risulta certamente a essa contigua, se si considerano le analoghe, se non identiche, condizioni in cui versa la persona che richiede di porre fine alla propria vita.

Il quesito referendario mirerebbe, pertanto, anche ad eliminare la discriminazione oggi in atto verso quei malati che «non sono in condizione di ottenere una morte volontaria attraverso l’autosomministrazione del farmaco» e, in tal modo, i profili di irragionevolezza fra le fattispecie dell’aiuto al suicidio, così come risultante dall’intervento di questa Corte, e dell’omicidio del consenziente. Fattispecie che, sebbene differenziate per taluni elementi, risultano omogenee e analoghe, sia rispetto all’esito cui in entrambi i casi si perverrebbe, sia in ordine al rilievo – che questa Corte avrebbe valorizzato nella sentenza n. 242 del 2019 – della dignità soggettiva personale del paziente. Ferma restando – così si continua – la possibilità per il legislatore di intervenire al fine di introdurre una regolamentazione tesa a sistematizzare complessivamente la materia, seppur nel rispetto di quanto sancito da questa Corte in merito all’aiuto al suicidio e dell’esito della stessa consultazione referendaria.

4.4.– Ciò chiarito, la difesa dei promotori ritiene che in caso di abrogazione per via referendaria, e ancor prima dell’intervento del legislatore, assumerebbe decisiva importanza la funzione interpretativa dei giudici e non vi sarebbe nessun rischio di «allenta[re] per via referendaria» la «“cintura di protezione”» che questa Corte ha configurato nella più volte citata sentenza n. 242 del 2019.

Si sostiene, infatti, che l’analisi della giurisprudenza di merito e di legittimità, chiamata a dare applicazione alla disposizione oggetto del quesito referendario, farebbe emergere un quadro univoco, in forza del quale il consenso di cui all’art. 579 cod. pen. deve presentare alcune peculiari caratteristiche, ossia deve essere serio, esplicito, non equivoco, attuale e perdurante fino al momento della realizzazione della condotta dell’omicida. In linea, poi, con tali requisiti, sarebbero previsti una valutazione e un accertamento estremamente rigorosi in sede processuale. Verrebbe, quindi, certamente esclusa la possibilità di desumere l’esistenza del consenso da semplici ed estemporanee manifestazioni di sofferenza e, in modo del tutto conseguente, sarebbe possibile «intercettare (facendole ricadere nel perimetro della più gravemente punita fattispecie di omicidio volontario) tutte quelle situazioni in cui la formazione della volontà sia stata in qualche modo viziata e condizionata»; con ciò, in definitiva, scongiurando il rischio di una mancata tutela delle persone fragili e vulnerabili.

Proprio rispetto a tali categorie di soggetti, la difesa dei promotori ricorda che, anche «a fronte della richiesta di manipolazione dell’art. 579 c.p.», sarebbero, comunque sia, presidiati a livello penale i casi di coinvolgimento del minore, di persone che versano nelle condizioni di deficienza psichica e di infermità, di consenso estorto con violenza, minaccia, suggestione, o carpito con inganno, ossia le categorie protette dall’art. 579, terzo comma, cod. pen., non interessate dall’odierno quesito referendario. E si precisa che, anche per la seconda e la terza categoria, le quali «sollecitano interrogativi di non marginale portata», sussisterebbe «un contesto – normativo e giurisprudenziale» – idoneo ad offrire «solide sponde per assicurare una tutela piena ed effettiva» alle persone che in esse potrebbero essere ricomprese.

Sui concetti di deficienza psichica, infermità psichica e di suggestione, l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità formatasi attorno alla fattispecie incriminatrice delle condotte di circonvenzione di incapace di cui all’art. 643 cod. pen., offrirebbe, infatti, idonee garanzie al fine di «intercettare» le ipotesi in cui la capacità della persona di esprimere un valido consenso sia stata in qualsiasi forma condizionata ab exeterno (si citano Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 9 novembre 2016-8 febbraio 2017, n. 5791 e 26 maggio-9 settembre 2015, n. 36424).

Inoltre, proprio la giurisprudenza di legittimità che si è formata sull’art. 579 cod. pen. (si cita Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 19 aprile 2018-9 gennaio 2019, n. 747) indurrebbe ad escludere che l’abrogazione parziale dell’omicidio del consenziente possa esplicare «effetti di depenalizzazione» per i fatti commessi contro persone che non abbiano piena coscienza della propria richiesta. Si mette in evidenza, infatti, che, a viziare il consenso, sarebbe sufficiente anche una non totale diminuzione della capacità psichica che renda, sia pure momentaneamente, il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo atto. La giurisprudenza di legittimità, infatti, intenderebbe «l’infermità psichica e la deficienza psichica» quale una minorata capacità psichica, anche con compromissione del potere di critica e minorazione della sfera volitiva ed intellettiva, che agevoli la suggestione della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie. Da ciò, si conclude che «tutti quei casi spesso citati per destare perplessità sulla tenuta del quesito referendario, come la delusione amorosa, la crisi finanziaria dell’imprenditore», sarebbero considerati, in sede processuale, quali circostanze che determinerebbero la contestazione «del comma 3», e quindi indurrebbe ad escludere che il consenso eventualmente prestato possa considerarsi valido, così determinando l’applicazione del reato di omicidio doloso. E, allorché dovessero scaturire delle difficoltà applicative dalla disciplina risultante dall’abrogazione referendaria, difficoltà che i giudici non sarebbero in grado di dirimere con gli ordinari strumenti interpretativi e in specie ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata, rimarrebbe pur sempre la possibilità di sollevare «questione di costituzionalità».

4.5.– Da ultimo, la difesa del comitato promotore prende posizione sulla asserita natura costituzionalmente obbligata, vincolata o necessaria della tutela penale del bene della vita, con particolare riguardo alle persone che versano in condizioni di vulnerabilità o fragilità, secondo una visione che si è sviluppata «nel dibattito che ha recentemente interessato la tematica del fine vita». Si sostiene, infatti, che secondo la tesi contestata, alcune posizioni soggettive reclamerebbero, sempre e incondizionatamente, ossia a prescindere dalla specificità del caso concreto e dalla capacità della persona di esprimere un valido consenso, una protezione di tipo penale, data la «rilevanza sistematica del bene vita». In altri termini, questa tesi sembrerebbe fondarsi sull’idea che l’unico strumento normativo idoneo a proteggere le persone fragili e vulnerabili sia quello penale.

Tuttavia, «un simile ragionamento» – così si continua – si scontrerebbe, sia con la giurisprudenza costituzionale (si citano le sentenze n. 447 del 1998, n. 411 del 1995, n. 49 del 1985 e n. 226 del 1983), sia con «la più autorevole dottrina (costituzionalistica e penalistica)» la quale, invece, avrebbe negato la possibilità di ricavare dal testo costituzionale «degli obblighi positivi di incriminazione». Si ricorda, inoltre, come questa Corte, nella sentenza n. 447 del 1998, abbia affermato che le «esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, […]; ché anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio». Posizione analoga sarebbe stata assunta anche dal Tribunale costituzionale tedesco, in due distinte occasioni in cui è stato chiamato a pronunciarsi in materia di aborto. Il giudice costituzionale tedesco, infatti, seppur «in una prima decisione, del 1975,» avrebbe riscontrato l’incostituzionalità delle disposizioni impugnate, in quanto non tutelavano il diritto alla vita del feto attraverso «il ricorso allo strumento penale», in una «seconda pronuncia, invece, che risale al 1993» avrebbe «imposto al legislatore di considerare l’aborto “illegittimo, ma non penalmente punibile”».

In tale prospettiva, quindi, le riflessioni portate avanti, sia in Italia, sia in Germania, darebbero conferma dell’idea che la norma penale non possa essere strumentalmente piegata alla positiva realizzazione dei diritti fondamentali.

Conclusione, questa, che, secondo i promotori, troverebbe conferma anche nella sentenza n. 242 del 2019 (recte: ordinanza n. 207 del 2018), nella parte in cui questa Corte ha affermato che al «legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite». Si ritiene, infatti, che un conto sarebbe riconoscere uno spazio in cui possa dispiegarsi la discrezionalità del Parlamento, altro sarebbe ipotizzare che, in quello stesso spazio, su quest’ultimo gravi un obbligo di penalizzazione direttamente discendente dalla Costituzione.

In definitiva, alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, sarebbe da escludere la natura costituzionalmente imposta, necessaria o obbligatoria del presidio penale.

5.– In data 27 gennaio 2022, hanno depositato memoria le associazioni La società della ragione Aps, Liberi di decidere, Mobilitazione generale degli avvocati (MGA), Walter Piludu Ets Aps e Chi si cura di te Aps, chiedendo che la richiesta di referendum sia dichiarata ammissibile.

6.– In pari data, hanno presentato memoria A buon diritto Onlus Aps, Associazione utenti e consumatori Aps, Consulta di bioetica – Ets, Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) – Ufficio nuovi diritti, ArciAtea – rete per la laicità Aps e VOX – Osservatorio italiano sui diritti, deducendo anch’esse l’ammissibilità della richiesta referendaria.

7.– In data 2 febbraio 2022, hanno depositato memorie l’associazione +EUROPA, chiedendo che il quesito referendario sia dichiarato ammissibile, e l’associazione Pro Vita & Famiglia Onlus, deducendo, invece, l’inammissibilità del ricorso.

8.– In prossimità della camera di consiglio, hanno depositato memorie, chiedendo che il referendum sia dichiarato inammissibile, il Comitato per il no all’uccisione della persona anche se consenziente, il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, il Comitato Famiglie per il ‘no’ al referendum sull’omicidio del consenziente, l’Associazione movimento per la vita, l’associazione Scienza & Vita, il Comitato per il No all’eutanasia legale e l’Unione giuristi cattolici italiani.

Ha depositato, altresì, memoria l’associazione Avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI).

Considerato in diritto

1.– La richiesta di referendum abrogativo, dichiarata conforme alle disposizioni di legge dall’Ufficio centrale per il referendum con ordinanza del 15 dicembre 2021 e denominata «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)», investe l’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti:

a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»;

b) comma secondo: integralmente;

c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano».

2.− In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte, come già avvenuto più volte in passato, non solo ha consentito l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), ma – prima ancora – ha altresì ammesso gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (da ultimo: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012).

Tale ammissione non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque sia, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrino le rispettive posizioni.

3.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di «verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenza n. 17 del 2016).

Ai fini di tale valutazione, è necessario innanzitutto individuare la portata del quesito.

Come questa Corte ha chiarito, «la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento […] (ex plurimis, sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 37 del 2000, n. 17 del 1997)» (sentenza n. 24 del 2011; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 28 del 2017).

Al riguardo, va altresì ribadito che il giudizio di ammissibilità che questa Corte è chiamata a svolgere si atteggia, per costante giurisprudenza, «con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge» (sentenze n. 26 del 2011, n. 45 del 2005, n. 16 del 1978 e n. 251 del 1975). Non sono pertanto in discussione, in questa sede, profili di illegittimità costituzionale, sia della legge oggetto di referendum, sia della normativa risultante dall’eventuale abrogazione referendaria (sentenze n. 27 del 2017, n. 48, n. 47 e n. 46 del 2005). Quel che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una «valutazione liminare ed inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se […] il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale» (sentenze n. 24 del 2011, n. 16 e n. 15 del 2008 e n. 45 del 2005).

3.1.– Nella specie, il quesito referendario verte sull’art. 579 cod. pen., che configura il delitto di omicidio del consenziente. Si tratta di norma incriminatrice strettamente finitima, nell’ispirazione, a quella del successivo art. 580 cod. pen., che incrimina l’aiuto (oltre che l’istigazione) al suicidio. Le due disposizioni riflettono, nel loro insieme, l’intento del legislatore del codice penale del 1930 di tutelare la vita umana anche nei casi in cui il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi, sia manu alius, sia manu propria, ma con l’ausilio di altri. Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell’atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo), il legislatore erige una “cintura di protezione” indiretta rispetto all’attuazione di decisioni in suo danno, inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale.

In quest’ottica, l’art. 579 cod. pen. punisce segnatamente, al primo comma, con la reclusione da sei a quindici anni «[c]hiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui». In tal modo, la norma esclude implicitamente, ma univocamente, che rispetto al delitto di omicidio possa operare la scriminante del consenso dell’offeso, la quale presuppone la disponibilità del diritto leso (art. 50 cod. pen.), accreditando, con ciò, il bene della vita umana del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare.

L’omicidio del consenziente è configurato, pur tuttavia, come fattispecie autonoma di reato, punita con pena più mite di quella prevista in via generale per il delitto di omicidio (art. 575 cod. pen.), in ragione del ritenuto minor disvalore del fatto.

Nella medesima prospettiva di mitigazione del trattamento sanzionatorio, il secondo comma dell’art. 579 cod. pen. rende, altresì, inapplicabili all’omicidio del consenziente le circostanze aggravanti comuni indicate nell’art. 61 cod. pen.

Il successivo terzo comma dell’art. 579 cod. pen. sottrae, peraltro, al perimetro applicativo della fattispecie meno severamente punita, riportandole nell’alveo della fattispecie comune, le ipotesi nelle quali il consenso sia prestato da un soggetto incapace o risulti affetto da un vizio che lo rende invalido. La disposizione stabilisce, in particolare, che «[s]i applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».

3.2.– Il quesito referendario in esame è costruito con la cosiddetta tecnica del ritaglio, ossia chiedendo l’abrogazione di frammenti lessicali della disposizione attinta, in modo da provocare la saldatura dei brani linguistici che permangono. Agli elettori viene, infatti, chiesto se vogliano una abrogazione parziale della norma incriminatrice che investa il primo comma dell’art. 579 cod. pen., limitatamente alle parole «la reclusione da sei a quindici anni»; l’intero secondo comma; il terzo comma, limitatamente alle parole «Si applicano».

Per effetto del ritaglio e della conseguente saldatura tra l’incipit del primo comma e la parte residua del terzo comma, la disposizione risultante dall’abrogazione stabilirebbe quanto segue: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».

Il risultato oggettivo del successo dell’iniziativa referendaria sarebbe, dunque, quello di rendere penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione. Eliminando la fattispecie meno severamente punita di omicidio consentito e limitando l’applicabilità delle disposizioni sull’omicidio comune alle sole ipotesi di invalidità del consenso dianzi indicate, il testo risultante dall’approvazione del referendum escluderebbe implicitamente, ma univocamente, a contrario sensu, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente in tutte le altre ipotesi: sicché la norma verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo.

L’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili.

Alla luce della normativa di risulta, la “liberalizzazione” del fatto prescinderebbe dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, le quali non dovrebbero risultare necessariamente legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche, potendo connettersi anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui. Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere). Né può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione.

3.3.– Al riguardo, non può essere, infatti, condivisa la tesi sostenuta dai promotori nel presente giudizio, e ripresa anche nelle difese di alcuni degli intervenuti, stando alla quale la normativa di risulta andrebbe reinterpretata alla luce del quadro ordinamentale nel quale si inserisce: porterebbe a ritenere che, ai fini della non punibilità dell’omicidio del consenziente, il consenso dovrebbe essere espresso nelle forme previste dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e in presenza delle condizioni alle quali questa Corte, con la citata sentenza n. 242 del 2019, ha subordinato l’esclusione della punibilità per il finitimo reato di aiuto al suicidio, di cui all’art. 580 cod. pen., non attinto dal quesito referendario (di modo che il consenziente dovrebbe identificarsi in una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche per lei assolutamente intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli).

A fronte della limitazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente alle sole ipotesi espressamente indicate dall’attuale terzo comma dell’art. 579 cod. pen., nulla autorizzerebbe a ritenere che l’esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della “procedura medicalizzata” prefigurata dalla legge n. 219 del 2017 per l’espressione (o la revoca) del consenso a un trattamento terapeutico (o del rifiuto di esso).

Del resto, anche l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, dopo aver proposto, con ordinanza non definitiva del 30 novembre 2021, una denominazione del quesito referendario nella quale non compariva la parola «eutanasia» – in specie, quella di «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice di penale (omicidio del consenziente)» –, non ha poi accolto, con l’ordinanza conclusiva del 15 dicembre 2021, la richiesta dei promotori di aggiungere a tale denominazione la frase «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole, informato». Ha rilevato, infatti, l’Ufficio centrale che l’integrazione proposta prospettava un bilanciamento tra i due diritti che vengono in gioco (diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione) che non trova fondamento nella sentenza n. 242 del 2019 e non «è rispettoso dei limiti di un quesito di natura abrogativa, spingendosi piuttosto sul terreno di scelte eventualmente spettanti agli organi istituzionalmente competenti all’adozione di una disciplina organica della materia».

4.– A quest’ultimo proposito, non è neppure significativo, agli odierni fini, che l’iniziativa referendaria – nata quale reazione all’inerzia del legislatore nel disciplinare la materia delle scelte di fine vita, anche dopo i ripetuti moniti provenienti da questa Corte (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018) – sia destinata, nell’idea dei promotori, a fungere da volano per il varo di una legge che riempia i vuoti lasciati dal referendum.

Come precisato, infatti, da questa Corte, sono irrilevanti in sede di giudizio di ammissibilità del referendum «i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa, quale è quella prevista dall’art. 75 della Costituzione, è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina. Ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare, tra l’altro, se essa abbia per avventura un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione» (sentenza n. 17 del 1997).

5.– Proprio questa, in effetti, è l’ipotesi che ricorre nel caso in esame, venendo il quesito referendario ad incidere su normativa costituzionalmente necessaria.

5.1.– A partire dalla sentenza n. 16 del 1978, questa Corte ha costantemente affermato l’esistenza di «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.». Una delle categorie allora individuate consisteva nei «referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)».

All’interno di questa categoria di norme legislative che non possono essere oggetto di richieste referendarie, la sentenza n. 27 del 1987 ha chiarito che debbono essere enucleate «due distinte ipotesi: innanzitutto le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”».

Successivamente, la sentenza n. 35 del 1997 ha riferito quest’ultima ipotesi anche a quelle «leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione», e la sentenza n. 49 del 2000 ha puntualizzato che le leggi «costituzionalmente necessarie», poiché sono «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento».

Con la sentenza n. 45 del 2005, infine, si è ulteriormente precisato, per un verso, che la natura di legge costituzionalmente necessaria può anche essere determinata dal fatto che una certa disciplina «coinvolg[a] una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa», e per l’altro, che «il vincolo costituzionale può anche riferirsi solo a parti della normativa oggetto del quesito referendario o anche al fatto che una disciplina legislativa comunque sussista».

5.2.– Nel caso oggi in esame viene in considerazione un valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona.

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire in più occasioni, il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., è «da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”» (sentenza n. 35 del 1997). Esso «concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona» (sentenza n. 238 del 1996).

Posizione, questa, confermata da ultimo, proprio per la tematica delle scelte di fine vita, nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, ove si è ribadito che il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, è il «“primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri», ponendo altresì in evidenza come da esso discenda «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».

5.3.– Rispetto al reato di omicidio del consenziente, può, d’altro canto, ripetersi quanto già osservato da questa Corte in rapporto alla figura finitima dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018). Se è ben vero, cioè, che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice di cui all’art. 579 cod. pen., intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini, non è però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma «alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi».

Vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente assolve, in effetti, come quella dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018), allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.

A questo riguardo, non può non essere ribadito il «cardinale rilievo del valore della vita», il quale, se non può tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure consente una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite» (ordinanza n. 207 del 2018). Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima.

Discipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale.

La norma incriminatrice vigente annette a quest’ultima una incidenza limitata, che si risolve nella mitigazione della risposta sanzionatoria, in capo all’autore del fatto di omicidio, in ragione del consenso prestato dalla vittima. Non si tratta di una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, non essendo quella ora indicata l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana. Discipline come quella considerata possono essere modificate o sostituite dallo stesso legislatore con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano.

Già in occasione di uno dei referendum sull’interruzione della gravidanza, questa Corte ha del resto dichiarato inammissibile la richiesta referendaria, richiamando la necessità di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, con specifico riferimento al diritto alla vita (sentenza n. 35 del 1997).

5.4.– Non gioverebbe opporre – come fanno i promotori e alcuni degli intervenienti – che l’abrogazione dell’art. 579 cod. pen. richiesta dal quesito referendario, non essendo totale, ma solo parziale, garantirebbe i soggetti vulnerabili, in quanto resterebbero ancora puniti gli omicidi perpetrati in danno dei soggetti indicati dall’attuale terzo comma: e ciò tanto più alla luce del rigore con il quale la giurisprudenza ha mostrato sinora di valutare la ricorrenza dei presupposti di operatività della fattispecie meno gravemente punita dell’omicidio del consenziente.

Le ipotesi alle quali rimarrebbe circoscritta la punibilità attengono, infatti, a casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza alle quali hanno fatto riferimento le richiamate pronunce di questa Corte non si esauriscono, in ogni caso, nella sola minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici); senza considerare che l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili.

In tutte queste ipotesi, l’approvazione della proposta referendaria – che, come rilevato, renderebbe indiscriminatamente lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito senza incorrere nei vizi indicati, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata – comporterebbe il venir meno di ogni tutela.

6.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve quindi concludersi per la natura costituzionalmente necessaria della normativa oggetto del quesito, che, per tale motivo, è sottratta all’abrogazione referendaria, con conseguente inammissibilità del quesito stesso.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe, dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 15 dicembre 2021.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 febbraio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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Corso medicina generale. Nessuna incompatibilità se si rinuncia alla borsa


13/01/2022 n. 350 – Tar Lazio sezione quater

sul ricorso numero di registro generale 6824 del 2021, integrato da motivi aggiunti, proposto da
-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avvocato Mauro Schirra, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Cagliari, via Campidano 36;
contro

Regione Autonoma della Sardegna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Sonia Sau, Floriana Isola, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Assessorato Igiene e Sanità e Assist. Sociale, non costituito in giudizio;
Ministero della Salute, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l’annullamento

Per quanto riguarda il ricorso introduttivo:

previa concessione di idonea misura cautelare,

a) della nota – contenuta nella pec trasmessa in data 21.06.2021 – avente ad oggetto “ammissione al corso di formazione specifica in medicina generale – triennio 2020 /2023 – tramite graduatoria riservata – ex art. 12, comma 3, del D.L. n. 35/2019 convertito con L. n. 60/2019 – comunicazione ai sensi degli artt. 8 e 9 dell’Avviso pubblico approvato con determinazione n. 788 del 14/09/2020. Scorrimento graduatoria” della Direzione Generale della Sanità del Servizio Programmazione Sanitaria e Economico Finanziaria e Controllo di Gestione, nella parte in cui prevede come parte integrante un documento informativo per il perfezionamento dell’iscrizione al corso recante le condizioni di incompatibilità, coperture assicurative e normativa di riferimento;

b) dell’all. A alla predetta comunicazione – anch’essa contenuta nella mail trasmessa in data 21.06.2021 (doc. 1) – contenente il “documento informativo per il perfezionamento dell’iscrizione al corso in sovrannumero” nella parte in cui preclude l’assunzione e/o la conservazione di incarichi convenzionali e/o l’esercizio di attività libero professionali compatibili in concreto con gli obblighi formativi;

c) ove occorra e per quanto di ragione, della nota contenuta nella mail del 23.06.2021 trasmessa agli ammessi al corso dalla Direzione Generale della Sanità – Servizio Programmazione sanitaria e economico finanziaria e controllo di gestione avente ad oggetto “FSMG 2020/2023: modalità avvio corso”;

d) del Det. -OMISSIS- del Servizio Programmazione sanitaria, economico finanziaria e controllo di gestione della Direzione Generale Sanità (doc. 5) avente ad oggetto l’ “Avviso pubblico per n° 10 posti per l’ammissione al Corso di formazione specifica in medicina generale triennio 2020/2023 tramite graduatoria riservata – ex art. 12, comma 3, del D.L. n. 35/2019 convertito con L. n. 60/2019” è stato approvato l’avviso pubblico per l’ammissione in soprannumero di n. 10 medici complessivi presso le due sedi didattiche di Cagliari e Sassari, tramite graduatoria riservata, alla frequenza del Corso di formazione specifica in medicina generale relativo al triennio 2020/2023 e di tutti i suoi allegati (“Allegato n.1 – Avviso [file.pdf]”), il relativo modulo di domanda (“Allegato n.2 – Modulo di domanda [file.rtf]”), l’informativa sulla privacy (“Allegato n.3 – Informativa trattamento dati personali [file.pdf]”), che ne costituiscono parte integrante e sostanziale, nella parte in cui inibiscono al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private, anche di carattere saltuario o temporaneo;

e) ove occorra e per quanto di ragione, della nota -OMISSIS-della Commissione Salute, non conosciuta, richiamata nel documento informativo per il perfezionamento dell’iscrizione al corso in sovrannumero, nella parte in cui limita (in deroga a quanto indicato all’art. 11, comma 1, relativamente agli incarichi stipulati in regime libero professionale, ai medici iscritti al corso di formazione specifica in medicina generale, ivi compresi i medici assegnatari di “incarichi temporanei ai sensi del DL 135/2018 o del DL 35/2019”, si soli incarichi in convenzionamento e di sostituzione, ivi comprese le sostituzioni comunicate all’Azienda USL ai sensi dell’articolo 37, comma 1 del vigente ACN, ed inibisce al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali/o omette di consentirle;

f) ove esistenti o nelle more pervenuti, dell’autodichiarazione di compatibilità e di qualsiasi altro atto regionale nella misura in cui dovesse stabilire l’incompatibilità tra la frequenza del corso di formazione specifica in medicina generale per il triennio 2020/2023 e lo svolgimento di attività libero professionale;

g) di tutti gli atti e/o provvedimenti presupposti, connessi e consequenziali, discendenti e successivi, o che a qualunque titolo inibiscono al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private, anche di carattere saltuario o temporaneo;

nonché per l’annullamento, o disapplicazione, in via mediata,

h) ove occorra e per quanto di ragione, del D.M. 7 marzo 2006 del Ministero della Salute recante “Principi fondamentali per la disciplina unitaria in materia di formazione specifica in medicina generale”, con particolare riferimento all’art. 11 (corsi a tempo pieno – incompatibilità), nella parte in cui inibisce al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private, anche di carattere saltuario o temporaneo, senza operare alcuna distinzione;

i) ove occorra e per quanto di ragione, della circolare del Ministero della Salute -OMISSIS-, nella parte in cui dispone che “solo ed unicamente” per la categoria dei medici c.d. soprannumerari ex. Art. 3 della legge n. 401 del 29.12.2000 “il legislatore non ha previsto l’obbligo di rinuncia preventiva all’esercizio dell’attività libero-professionale al momento dell’inizio del corso” di formazione specifica in Medicina Generale;

j) ove occorra e per quanto di ragione, della nota -OMISSIS-, di contenuto non conosciuto, citata nella circolare del Ministero della Salute -OMISSIS-;

nonché per la questione di costituzionalità

k) in quanto occorra, dell’art. 12, comma 3, della legge 25 giugno 2019, n. 60, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 35, nella parte in cui, nel prevedere l’accesso tramite una graduatoria riservata e senza borsa di studio per il corso triennale di formazione specifica in medicina generale per i medici che siano stati incaricati nell’ambito delle funzioni convenzionali previste dall’accordo collettivo nazionale per almeno ventiquattro mesi, anche non continuativi, nei dieci anni antecedenti alla data di scadenza della presentazione della domanda di partecipazione al concorso, non disciplina quali siano le attività compatibili e quelle incompatibili con il corso;

nonché per l’accertamento

l) del diritto di parte ricorrente a frequentare il corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, tramite graduatoria riservata, e a svolgere attività libero professionale compatibile con gli obblighi formativi.

Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da -OMISSIS-il 7/10/2021:

m) del Decreto del Ministero della Salute del 14 luglio 2021 pubblicato in Gazzetta Ufficiale avente ad oggetto “Disposizioni relative ai medici che si iscrivono al corso di formazione specifica in medicina generale relativo ai trienni 2020 – 2023 e 2021 – 2024”, nella parte in cui – richiamando l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 1 del decreto del Ministero della salute 28 settembre 2020 – inibisce al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private, anche di carattere saltuario o temporaneo;

nonché per l’annullamento

n) della nota contenuta nella mail del 8 luglio 2021 trasmessa agli ammessi al corso dalla Segreteria del Corso in Medicina Generale avente ad oggetto “Documentazione MMG” con i suoi allegati e più specificamente dell’allegato che stabilisce la tabella delle incompatibilità denominato “tabella incompatibilita cfsmg_coord.interreg..doc” e della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la non sussistenza di cause di incompatibilità ovvero dichiarazione di rinuncia ai rapporti incompatibili denominata “1 Modello – dich sost incompatibilitài-.doc” nella parte in cui si inibisce al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private, anche di carattere saltuario o temporaneo, in quanto atti con i quali si chiede a tutti i corsisti di dichiarare la propria accettazione incondizionata delle norme relative all’organizzazione del corso triennale di formazione specifica in Medicina generale;

o) ove occorra e per quanto di ragione, della nota contenente i medesimi allegati della mail trasmessa il giorno 26 luglio 2021 trasmessa agli ammessi al corso dalla Segreteria del Corso in Medicina Generale avente ad oggetto “Fwd: Incontro Coordinatori” con i suoi allegati e più specificamente l’allegato identico a quello già trasmesso contenente la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da compilare attestante la non sussistenza di cause di incompatibilità ovvero dichiarazione di rinuncia ai rapporti incompatibili denominata “1 Modello – dich sost incompatibilitài-.doc” nella parte in cui si inibisce al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private, anche di carattere saltuario o temporaneo, in quanto atti con i quali si chiede a tutti i corsisti di dichiarare la propria accettazione incondizionata delle norme relative all’organizzazione del corso triennale di formazione specifica in Medicina generale;

p) ove occorra e per quanto di ragione, della nota di sollecito contenuta nella mail del 8 luglio 2021 trasmessa agli ammessi al corso dalla Segreteria del Corso in Medicina Generale avente ad oggetto “Sollecito” nella parte in cui si inibisce al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private, anche di carattere saltuario o temporaneo, trasmessa agli ammessi al corso dalla Segreteria del Corso in Medicina Generale.

nonché per l’accertamento

q) del diritto di parte ricorrente a frequentare il corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, tramite graduatoria riservata, e a svolgere attività libero professionale compatibile con gli obblighi formativi.

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Regione Autonoma della Sardegna e di Ministero della Salute;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 dicembre 2021 la dott.ssa Francesca Ferrazzoli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Questi i fatti di cui è causa.
La dott.ssa -OMISSIS-è un medico in possesso del diploma di laurea in medicina e chirurgia conseguito in data -OMISSIS-presso l’Università degli Studi di Cagliari, nonché del diploma di abilitazione all’esercizio professionale conseguito presso l’Università degli Studi di Cagliari in data -OMISSIS-.

Riferisce di svolgere la libera professione sia come Medico nel servizio di continuità assistenziale (guardia medica) presso il punto guardia di Carloforte ATS/ALS 7 con contratto trimestrale (attualmente per il trimestre maggio; giugno; luglio), sia come medico estetico presso lo studio della dottoressa -OMISSIS-(in autonomia) e per lo studio -OMISSIS- a Cagliari (anche in questo caso come libero professionista, con flessibilità negli orari lavorativi).

Con Determinazione -OMISSIS-del Servizio Programmazione sanitaria, economico finanziaria e controllo di gestione della Direzione Generale Sanità è stato approvato l’avviso pubblico per l’ammissione in soprannumero di n. 10 medici complessivi presso le due sedi didattiche di Cagliari e Sassari, tramite graduatoria riservata, alla frequenza del Corso di formazione specifica in medicina generale relativo al triennio 2020/2023.

L’odierna esponente, in data 22.10.2020, ai sensi dell’art. 12 comma 3 del D.L. 35/2019 convertito con L. 60/2019 e della predetta Determinazione-OMISSIS-, ha presentato domanda di ammissione al corso in esame.

Con Determinazione -OMISSIS-è stata approvata la graduatoria riservata: sono stati dichiarati in possesso dei requisiti 50 candidati ed i primi 10 sono stati ammessi alla partecipazione alla formazione.

Per effetto dello scorrimento della graduatoria si è giunti fino alla posizione della dott.ssa -OMISSIS-, collocatasi -OMISSIS-, alla quale è stata comunicata – mediante pec del 21.06.2021 – l’ammissione. Contestualmente è stata “invitata a far tassativamente pervenire l’accettazione o il rifiuto dall’inserimento al corso entro tre giorni dal ricevimento”. Detta accettazione è stata comunicata in pari data.

Infine, in data 23.06.2021, è stata trasmessa all’odierna esponete una mail contenente una comunicazione, nella quale si rammentava che in data 07.07.2021 si sarebbe dato avvio al corso, che era stato previsto lo scaglionamento degli ingressi su tre turni ripartiti secondo elenchi suddivisi in ordine alfabetico al fine di evitare assembramenti, e che il turno stabilito per la dott.ssa -OMISSIS-era quello delle 11:15.

Con ricorso notificato in data 5 luglio 2021, la dott.ssa -OMISSIS-ha chiesto l’annullamento, previa adozione di idonee misure cautelari degli atti indicati in epigrafe ed in particolare: della predetta nota del 21 giugno 2021 nella parte in cui prevede come parte integrante un documento informativo per il perfezionamento dell’iscrizione al corso recante le condizioni di incompatibilità, coperture assicurative e normativa di riferimento; del “documento informativo per il perfezionamento dell’iscrizione al corso in sovrannumero” nella parte in cui preclude l’assunzione e/o la conservazione di incarichi convenzionali e/o l’esercizio di attività libero professionali compatibili in concreto con gli obblighi formativi; della Determina -OMISSIS-del Servizio Programmazione Sanitaria ed Economico Finanziaria e Controllo di Gestione della Direzione Generale della Sanità di approvazione dell’avviso pubblico per l’ammissione di 10 medici; della circolare -OMISSIS- del Ministero della Salute. Ha inoltre formulato questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 3, della L. 60/2019, di conversione del D.L. 35/2019, per omessa disciplina delle attività compatibili e incompatibili con il corso.

A sostegno della propria domanda ha articolato i motivi di diritto che possono essere sintetizzati come segue:

Violazione di legge ed eccesso di potere per contraddittorietà: non esisterebbero norme di rango primario che precludono l’esercizio dell’attività libero professionale ai tirocinanti dei corsi di formazione specifica in medicina generale;
Violazione di legge ed eccesso di potere per ingiustificata disparità di trattamento tra i medici “Decreto Calabria” e i medici “Soprannumerari”: gli atti impugnati sarebbero irrazionali e ingiusti nella parte in cui equiparano la posizione dei non -“Soprannumerari”, e quindi anche della dott.ssa -OMISSIS-, ai “medici borsisti” (d.lgs. 17 agosto 1999, n. 368, titolo IV, capo I), anziché ai così detti “Soprannumerari” (legge 29 dicembre 2000, n. 401, art. 3, laureati in medicina e chirurgia iscritti al corso universitario di laurea prima del 31 dicembre 1991) che “possono svolgere attività libero-professionale compatibile con gli obblighi formativi”;
Violazione di legge ed eccesso di potere per ingiustificata disparità di trattamento tra i medici “Decreto Calabria” e i medici “Soprannumerari” sotto un ulteriore profilo: a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Calabria è stata introdotta una nuova ed ulteriore modalità di accesso autonoma al corso di Medicina Generale tramite graduatoria riservata senza borsa di studio e nei limiti di spesa previsti. Poiché le cause di incompatibilità costituiscono un’eccezione alla generale libertà di iniziativa economica ed occorre accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle relative disposizioni, l’Amministrazione avrebbe dovuto diffusamente motivare l’esito della verifica di compatibilità o meno.
Con decreto monocratico n. -OMISSIS-è stata accolta la domanda cautelare urgente e, per l’effetto, disposta l’ammissione della ricorrente al corso di formazione “considerata la sussistenza dei presupposti ex art.56 cpa”.

Si sono costituite la Regione Autonoma della Sardegna ed il Ministero della Salute, contestando tutto quanto ex adverso dedotto perché infondato in fatto ed in diritto e concludendo per la reiezione del ricorso.

In estrema sintesi, hanno assunto che l’incompatibilità dell’esercizio di attività lavorativa per i partecipanti ai corsi di formazione specifica in medicina generale sarebbe prevista, in via generale ed assoluta, dall’art. 24 del D.Lgs. 368/1999 che ha stabilito che la “partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettua la formazione, comprese le guardie, in modo che il medico in formazione dedichi a tale formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l’intera durata della normale settimana lavorativa e per la durata dell’anno”. Nessuna deroga sarebbe stata disposta dal legislatore per la categoria cui appartiene la ricorrente, potendo svolgere attività libero-professionale compatibile con gli obblighi formativi solamente i “Soprannumerari” (legge 29 dicembre 2000, n. 401, art. 3, laureati in medicina e chirurgia iscritti al corso universitario di laurea prima del 31 dicembre 1991).

La Regione ha altresì eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità dell’odierno mezzo di gravame attesa la mancata impugnazione nei termini di legge dell’Avviso pubblico e l’inidoneità lesiva della nota di cui alla pec del 26 giugno 2021.

Con ordinanza cautelare n.-OMISSIS-(confermata dal Consiglio di Stato con propria ordinanza -OMISSIS-) questa Sezione ha accolto la domanda cautelare proposta da parte ricorrente, ritenendo che “debba essere valutata in concreto l’effettiva compatibilità delle attività lavorative ulteriori svolte dalla dott.ssa -OMISSIS-rispetto agli obblighi formativi derivanti dalla partecipazione al corso”.

Ciò in quanto:

“le cause di incompatibilità costituiscono un’eccezione alla generale libertà di iniziativa economica ed occorre accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle relative disposizioni, tenendo altresì conto del legittimo affidamento ingenerato nei ricorrenti circa la possibilità di svolgere le attività lavorative compatibili (in questo senso cfr. TAR Campania n. 473/2021; TAR Veneto n. 613, 614 e 617/ 2020)”;
“dalle disposizioni di cui alla legge n. 401 del 2000 e dagli ulteriori decreti emergenziali può desumersi che non vi sia assoluta incompatibilità tra la partecipazione al corso e lo svolgimento di ulteriori attività lavorative che possano essere in concreto svolte senza pregiudicare l’adempimento degli imposti obblighi formativi”;
“il D.L. 35/2019 (c.d. Decreto Calabria) convertito con modificazioni dalla L. n. 60/2019, sembra introdurre una modalità di accesso autonoma al corso di medicina generale riguardante i medici che hanno già avviato una propria attività lavorativa”;
“dall’attuazione dei provvedimenti impugnati deriverebbe un danno grave ed irreparabile alla ricorrente la quale frequenta il corso in soprannumero e senza beneficiare di una borsa di studio”.
Con motivi aggiunti notificati il 6 ottobre 2021, la dott.ssa -OMISSIS- ha chiesto l’annullamento degli atti indicati in epigrafe ed in particolare: del Decreto del Ministero della Salute del 14 luglio 2021 pubblicato in Gazzetta Ufficiale avente ad oggetto “Disposizioni relative ai medici che si iscrivono al corso di formazione specifica in medicina generale relativo ai trienni 2020 – 2023 e 2021 – 2024”, nella parte in cui – richiamando l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 1 del decreto del Ministero della salute 28 settembre 2020 – inibisce al Medico in formazione l’esercizio di attività libero professionali ed ogni rapporto convenzionale, precario o di consulenza con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private, anche di carattere saltuario o temporaneo; nonché per l’annullamento della nota contenuta nella mail del 8 luglio 2021 trasmessa agli ammessi al corso dalla Segreteria del Corso in Medicina Generale avente ad oggetto “Documentazione MMG” con i suoi allegati e più specificamente dell’allegato che stabilisce la tabella delle incompatibilità.

A sostegno della domanda, ha riprodotto gli stessi motivi di cui all’atto introduttivo del giudizio.

In vista dell’udienza di discussione del ricorso le parti hanno depositato memorie e repliche in cui hanno sviluppato ulteriormente le proprie difese.

All’udienza del 20 dicembre 2021 la causa è stata trattenuta in decisione.

Preliminarmente deve essere scrutinata l’eccezione di inammissibilità del gravame in esame formulata dalla Regione.
Osserva il Collegio che l’interesse diretto, concreto ed attuale richiesto dalla legge per l’impugnazione delle clausole dell’Avviso di gara de qua è sorto al momento in cui (a seguito dello scorrimento della graduatoria) si è giunti alla posizione dott.ssa -OMISSIS-.

Invero, dette clausole non hanno carattere immediatamente escludente, atteso che solo con lo scorrimento della graduatoria la dott.ssa -OMISSIS- avrebbe potuto avere interesse a introdurre in giudizio la controversia in esame.

In tal senso si è espressa univocamente la giurisprudenza, affermando che “L’onere di immediata impugnazione del bando di concorso è circoscritto al caso di contestazione di clausole escludenti, ovverosia di clausole riguardanti i requisiti di ammissione che sono ex se ostativi alla partecipazione dell’interessato. Al di fuori di tale ipotesi, opera la regola secondo cui i bandi di gara, di concorso e le lettere di invito devono essere impugnati unitamente agli atti che ne costituiscono concreta applicazione, dal momento che a questi ultimi deve ascriversi l’individuazione del soggetto leso dal provvedimento e, di conseguenza, l’attualità e la concretezza della lesione arrecata alla situazione giuridica dell’interessato. Invero, a fronte della clausola illegittima del bando di gara o di concorso, il partecipante alla procedura concorsuale non può dirsi ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, poiché egli non può avere ancora consapevolezza se l’astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà o meno in un esito negativo per la sua partecipazione alla procedura concorsuale, pertanto, in una effettiva lesione della situazione soggettiva che soltanto da tale esito può derivare” (in tal senso, ex plurimis, da ultimo: TAR. Napoli n. 2295/2021).

Ritenuto ammissibile il presente gravame, si procede con l’esame del merito congiuntamente sia del ricorso introduttivo del giudizio che dei motivi aggiunti, attesa l’identicità dei motivi ivi formulati, fondati per le ragioni e nei limiti che si vengono ad illustrare.
Innanzitutto, deve essere sinteticamente riprodotto il quadro normativo che regola la fattispecie.
Con la Direttiva 86/457/CEE, il Consiglio delle Comunità europee, al fine di garantire la libera circolazione dei professionisti dell’area sanitaria all’interno dell’Unione europea mediante reciproco riconoscimento dei titoli di formazione, ha individuato i requisiti minimi di formazione che ogni Stato doveva garantire.

Il legislatore italiano ha dato attuazione alla predetta Direttiva con il D.Lgs. n. 256/1991, che ha introdotto l’obbligo, a decorrere dal 1° gennaio 1995, del conseguimento dell’attestato di formazione per l’esercizio dell’attività di medico di medicina generale nei regimi di sicurezza sociale degli Stati membri, attraverso la frequenza di un corso biennale.

Successivamente, è stata adottata la Direttiva 93/I6/CEE, costituente un Testo Unico delle direttive in materia di disciplina dell’attività medica, che ha permesso agli Stati membri di autorizzare una formazione specifica in medicina generale a tempo ridotto a condizione che venga garantito un livello qualitativo equivalente a quello della formazione a tempo pieno (art. 35).

Lo Stato italiano, quindi, in adeguamento alla nuova normativa, ha approvato il D.Lgs. 368/1999 che ha subordinato l‘esercizio dell’attività di medico di medicina generale al conseguimento del diploma di formazione specifica in medicina generale, conseguibile esclusivamente all’esito della frequenza di un corso triennale (dal 2003) e che implica una impegno dei partecipanti a tempo pieno mediante “partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettua la formazione, comprese le guardie, in modo che il medico in formazione dedichi a tale formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l’intera durata della normale settimana lavorativa e per la durata dell’anno” (art. 24).

Ha previsto, inoltre, che le regioni, entro il 28 febbraio di ogni anno, emanino i bandi di concorso per l’ammissione al corso di formazione “in conformità ai principi fondamentali definiti dal Ministero della salute, per la disciplina unitaria del sistema” (art. 25) e che la formazione si articoli in un minimo di 4.800 ore, 2/3 delle quali rivolte all’attività formativa di natura pratica (art. 26).

Poiché l’introduzione dell’obbligo di un diploma da conseguire dopo il superamento con esito positivo di un corso di formazione triennale andava a mutare radicalmente le prospettive di chi si era iscritto alla facoltà di medicina confidando nel fatto che per l’esercizio dell’attività di medico di medicina generale fosse sufficiente l’abilitazione professionale, con l’art. 3 della L. 401/2000, il legislatore ha stabilito che gli iscritti al corso di laurea prima del 31 dicembre 1991 e abilitati all’esercizio della professione, fossero ammessi a domanda al corso in soprannumero, senza borsa di studio, ma con la possibilità di svolgere attività libero professionale compatibile con gli obblighi formativi.

Con l’art. 19 della L. 448/2001, è stata prevista una prima deroga all’obbligo per i corsisti di dedicare alla formazione tutta la loro attività professionale (art. 24 del D.Lgs. 368/1999), consentendo loro, esclusivamente “in caso di carente disponibilità di medici già iscritti negli elenchi della guardia medica notturna e festiva e della guardia medica turistica”, di sostituire a tempo determinato medici di medicina generale convenzionati con il SSN e di essere iscritti nei citati elenchi.

Con il D.M. 7 marzo 2006, in attuazione dell’art. 25, comma 2, del D.Lgs. 368/1998, il Ministero della Salute ha definito i “Principi fondamentali per la disciplina unitaria in materia di formazione specifica in medicina generale”.

In particolare, all’art. 11 del citato provvedimento, è stato precisato che i medici in formazione non possono svolgere né attività libero professionale né attività in rapporto convenzionale con il SSN o enti e istituzioni pubbliche o private. E’ stato quindi previsto che, prima dell’inizio dei corsi, le regioni provvedessero a far sottoscrivere a tutti i tirocinanti dichiarazioni sostitutive di atto notorio attestanti la non sussistenza di cause di incompatibilità ovvero di rinuncia ai rapporti incompatibili.

Una prima deroga è stata posta dall’art. 19, comma 11, della L. 448/2001, con la precisazione che avendo carattere eccezionale non poteva essere estesa a rapporti di lavoro diversi da quelli in essa specificamente indicati. All’accertamento dell’incompatibilità sarebbe conseguita l’espulsione del tirocinante dal corso.

Successivamente è stato adottato il D.L. 135/2018 (convertito dalla L. 12/2019) che, all’art. 9, ha previsto una ulteriore deroga al regime delle incompatibilità, determinata sempre dalla cronica carenza di medici di medicina generale, in relazione all’assegnazione degli incarichi convenzionali rimessi all’Accordo collettivo nazionale nell’ambito della disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale.

Anche in questo caso l’unica attività consentita è quella di pubblico interesse e di rilevanza costituzionale in favore degli assistiti del SSN e solo ove non vi siano aventi titolo.

A seguito dell’aggravamento della situazione di carenza di medici di medicina generale il legislatore, con il c.d. Decreto Calabria (D.L. 35/2019, come convertito dalla L. 60/2019), ha previsto un’ulteriore modalità di accesso al corso di formazione in medicina generale.

In base all’art. 12, comma 3, del predetto Decreto Calabria: “Fino al 31 dicembre 2021 i laureati in medicina e chirurgia abilitati all’esercizio professionale e già risultati idonei al concorso per l’ammissione al corso triennale di formazione specifica in medicina generale, che siano stati incaricati, nell’ambito delle funzioni convenzionali previste dall’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale per almeno ventiquattro mesi, anche non continuativi, nei dieci anni antecedenti alla data di scadenza della presentazione della domanda di partecipazione al concorso per l’accesso al corso di formazione specifica in medicina generale, accedono al predetto corso, tramite graduatoria riservata, senza borsa di studio”.

Il termine è stato poi prorogato al 31.12.2022 dall’art. 1, comma 426, della L.178/2020.

L’ulteriore necessità di reclutare celermente medici che potessero supportare il SSN nel corso dell’emergenza epidemiologia scoppiata nel 2020, ha poi portato all’approvazione dell’art. 2-quinquies del D.L. 18/2020, inserito dalla legge di conversione 27/2020, che, per la durata dell’emergenza, ha stabilito che gli iscritti ai corsi di formazione in medicina generale potessero instaurare rapporti convenzionali a tempo determinato con il SSN e che tutti i laureati in medicina abilitati all’esercizio della professione, anche durante l’iscrizione ai corsi suddetti, potessero assumere incarichi provvisori o di sostituzione di medici di medicina generale convenzionati con il SSN ed essere iscritti negli elenchi della guardia medica e della guardia medica turistica e occupati fino alla fine della durata dello stato di emergenza. In entrambi i casi le ore di attività svolte sarebbero state considerate a tutti gli effetti quali attività pratiche da computare nel monte ore complessivo di cui all’art. 26, comma 1, del D.Lgs. 368/1999.

Tale facoltà è esplicitamente dichiarata integrativa, per la durata dell’emergenza Covid, degli artt. 11 e 12 del D.M. 7 marzo 2006.

Successivamente con decreto del 28 settembre 2020 il Ministero della Salute ha stabilito che “limitatamente ai medici che si iscrivono al corso di formazione specifica in medicina generale relativo al triennio 2019-2022, è consentito mantenere gli incarichi convenzionali di cui all’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, ivi inclusi gli incarichi nell’ambito della medicina penitenziaria, in essere al momento dell’iscrizione, in deroga alle disposizioni di cui all’art. 11 del decreto del Ministro della Salute 7 marzo 2006. Le ore di attività svolte dai suddetti medici sono considerate a tutti gli effetti quali attività pratiche, ai sensi dell’art. 2-quinquies del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27”.

Ciò in quanto per “la cronica carenza dei medici impegnati nelle attività afferenti alla medicina generale, aggravata dall’emergenza Covid-19, al fine di scongiurare gravi disservizi nelle diverse aree della medicina generale e garantire la continuità assistenziale primaria e territoriale, si rende necessario derogare per i medici che si iscrivono al corso di formazione specifica in medicina generale relativo al triennio 2019-2022, alle disposizioni di cui all’articolo 11 del decreto del Ministro della Salute 7 marzo 2006”.

Le disposizioni del D.M. 28 settembre 2020 sono poi state estese ai medici dei corsi di formazione relativi al triennio 2020-2023 e 2021-2021 dal D.M. 14.07.2021.

Individuate le norme che trovano applicazione nel caso di specie, e venendo all’esame del merito di entrambi i ricorsi, ritiene il Collegio che le censure proposte – che per ragioni di connessione possono essere esaminate congiuntamente – sono fondate nei limiti e per le ragioni che si vengono ad illustrare.
In base alla Direttiva 1993/16/CE del 5 aprile 1993 è consentito agli Stati membri autorizzare una formazione specifica in medicina generale a tempo ridotto a condizione che venga garantito un livello qualitativo equivalente a quello della formazione a tempo pieno (art. 35).
E’ stato puntualmente chiarito che agli specializzandi durante il corso – sia in caso di formazione a tempo pieno, sia in caso di formazione a tempo ridotto – debba essere riconosciuta una “remunerazione adeguata” e tale prescrizione deve ritenersi direttamente esecutiva.

In particolare, la Corte di Giustizia, intervenuta più volte sulla questione (Sentenze C.G.U.E. C-616-16 e C-61716 Pantuso del 24 gennaio 2018), ha affermato i seguenti principi:

“le formazioni che permettono di conseguire un diploma, un certificato o un altro titolo di medico specialista, effettuate a tempo pieno o a tempo ridotto, devono di norma essere oggetto di una remunerazione adeguata”;
“l’obbligo, per gli Stati membri, di garantire una remunerazione adeguata si applica soltanto in riferimento alle specializzazioni mediche comuni a tutti gli Stati membri”;
“tale obbligo di procedere alla remunerazione dei periodi di formazione relativi alle specializzazioni mediche, previsto dall’allegato della direttiva 75/363 come modificata, è, come tale, incondizionato e sufficientemente preciso”;
“il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto interno quanto più possibile alla luce del tenore letterale e della finalità della direttiva medesima allo scopo di raggiungere il risultato perseguito da quest’ultima”.
La normativa nazionale, in linea con quella Eurocomunitaria, tutela il diritto al lavoro, il diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente a soddisfare i bisogni propri e della propria famiglia nonché il diritto allo studio.
Corollario di tali principi è che le norme che prevedono cause di incompatibilità – in quanto introducono un’eccezione rispetto al generale diritto al lavoro e alla libertà di iniziativa economica – sono da considerare di stretta interpretazione.

La giurisprudenza ha precisato sul punto che: “Le cause di incompatibilità costituiscono un’eccezione alla generale libertà di iniziativa economica ed occorre accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle relative disposizioni, tenendo altresì conto del legittimo affidamento ingenerato nei ricorrenti circa la possibilità di svolgere le attività lavorative compatibili; dalle disposizioni di cui alla legge n. 401 del 2000 e dagli ulteriori decreti emergenziali può desumersi che non vi sia assoluta incompatibilità tra la partecipazione al corso e lo svolgimento di ulteriori attività lavorative che possano essere in concreto svolte senza pregiudicare l’adempimento degli imposti obblighi formativi” (TAR Venezia sentenza n. 1163/2021; TAR. Napoli ordinanza n. 473/2021; TAR Veneto ordinanze n. 613, 614 e 617/2020).

I laureati in medicina di cui al predetto art. 12 comma 3 del Decreto Calabria possono essere ammessi al corso triennale di formazione specifica in medicina generale tramite graduatoria riservata, senza tuttavia percepire alcuna borsa di studio.
Conseguentemente, l’assenza di una esplicita disposizione che vieti lo svolgimento di ulteriore attività lavorativa nonché una interpretazione della normativa de quibus conforme ai principi di matrice comunitaria e nazionale sopra brevemente sintetizzati, inducono a ritenere che non possa essere escluso che i predetti laureati – e dunque anche parte ricorrente – possano proseguire il corso e conseguire una remunerazione adeguata attraverso lo svolgimento delle attività lavorative e professionali quando tali attività siano in concreto compatibili con l’assolvimento degli obblighi formativi previsti (in questo senso: TAR. Roma ordinanza n. 391/2021; TAR. Napoli ordinanza n. 473/2021; T.A.R. Toscana ordinanza n. 453/2021; TAR Emilia Romagna n. 434/2021).
Il TAR Venezia, chiamato ad esprimersi su controversia analoga, ha affermato, con la sentenza n. 1163/2021, che: “da un punto di vista letterale non vi è infatti alcuna disposizione che espressamente estenda le cause di incompatibilità di cui all’art. 11 del d.m. 7 marzo 2006 agli specializzandi ammessi in base all’art. 12, comma 3, del d.l. n. 35 del 2019, convertito dalla legge n. 60 del 2019. In relazione ai generali criteri cronologico e di specialità, va rilevato che il legislatore con il Decreto Calabria, in forza di una fonte di rango primario successiva rispetto al d.m. del 7 marzo 2006, ha previsto un’ulteriore differente categoria di medici ammessi al corso e che tale differente categoria di soggetti presenta evidenti profili di specialità. Si tratta in particolare di medici ammessi al corso: – in via eccezionale per sopperire alle croniche carenze di medici di medicina generale; – in sovrannumero sulla base di una graduatoria separata; – in quanto, pur non essendosi classificati in posizione utile al concorso, hanno già avviato e svolto un’attività professionale per un periodo di almeno 24 mesi; – senza la corresponsione di una borsa di studio. La specialità di tale disciplina, impone di valutare in concreto la compatibilità alla fattispecie in esame delle precedenti disposizioni di cui all’art. 11 del d.m. 7 marzo 2006. 2.4. Invero le cause di incompatibilità previste dall’art. 11 del d.m. del 2006 si fondano su due presupposti tra loro correlati: – la necessità di garantire l’adempimento degli obblighi formativi; – il riconoscimento della borsa di studio. Sotto quest’ultimo profilo, al pari degli specializzandi ammessi ai sensi dell’art. 3 della legge n. 401 del 2000, l’attenuazione del regime delle incompatibilità per gli specializzandi ammessi in base al Decreto Calabria trova giustificazione nel mancato riconoscimento di una borsa di studio (T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 13 febbraio 2013, n. 892). L’interpretazione che estende il divieto di cui all’art. 11 del d.m. 7 marzo 2006 anche alle attività lavorative in concreto compatibili con gli obblighi formativi non risulta infatti coerente con la disciplina speciale di cui all’art. 12, comma 3, del Decreto Calabria, che esclude il riconoscimento della borsa di studio. Qualora la mancata assegnazione della borsa di studio fosse accompagnata anche dal divieto di svolgere altre attività lavorative-professionali, l’accesso in base al Decreto Calabria finirebbe per essere irragionevolmente circoscritto ai soli soggetti che già dispongono di altre risorse proprie e che possono studiare senza conseguire alcuna remunerazione. Come si è detto, invece, in base alle prescrizioni unionali e ai valori cardine del nostro ordinamento, deve essere quantomeno riconosciuta agli specializzandi la possibilità di conseguire in via indiretta una remunerazione adeguata/sufficiente e idonea attraverso lo svolgimento di attività lavorative compatibili. Sotto il primo profilo – in merito alla necessità di garantire l’adempimento degli obblighi formativi – dalle disposizioni di cui alla legge n. 401 del 2000 e dai successivi decreti emergenziali può desumersi che non vi sia una assoluta inconciliabilità tra la partecipazione al corso e lo svolgimento di ulteriori attività lavorative che siano in concreto compatibili con l’adempimento degli obblighi formativi previsti. E, come si è visto, ciò risulta conforme anche alle prescrizioni della Direttiva 1993/16/CE che all’art. 35 consente agli Stati membri di autorizzare anche una formazione specifica in medicina generale a tempo ridotto a condizione che venga garantito un livello qualitativo equivalente a quello della formazione a tempo pieno”.
Si osserva ancora che il decreto del 28 settembre 2020 – adottato successivamente all’emanazione della impugnata nota della Direzione Generale della Sanità ed impugnato in parte qua con i motivi aggiunti – ha espressamente riconosciuto agli specializzandi ammessi in base al Decreto Calabria di “mantenere gli incarichi convenzionali di cui all’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, ivi inclusi gli incarichi nell’ambito della medicina penitenziaria, in essere al momento dell’iscrizione”, al fine di sopperire alla cronica mancanza di “medici impegnati nelle attività afferenti alla medicina generale, aggravata dall’emergenza Covid-19”.
Orbene, neppure detto decreto ha espressamente vietato agli specializzandi ammessi in base al Decreto Calabria di svolgere attività libero professionali.

Letto conformemente alla Costituzione ed all’Ordinamento Eurocomunitario, ha invece, confermato la sostanziale necessità di consentire agli specializzandi di conseguire una remunerazione attraverso la prosecuzione delle attività lavorative precedentemente avviate.

Risulta quindi coerente con tale logica di fondo che a parte ricorrente non sia impedito di continuare a svolgere la precedente attività libero professionale in concreto compatibile.

In conclusione, è possibile affermare che il Decreto Calabria ha introdotto una nuova ed ulteriore modalità di accesso al corso di Medicina Generale – riguardante i medici che hanno già avviato una propria attività lavorativa – tramite graduatoria riservata senza borsa di studio. Atteso il diritto all’adeguata retribuzione (tutelato sia dall’Ordinamento Eurocomunitario che dalla Costituzione italiana), rilevato in particolare che l’ammissione al corso non comporta l’attribuzione di alcuna borsa di studio, al medico così ammesso deve essere concesso di continuare a svolgere la precedente attività libero professionale purché in concreto compatibile.
Si precisa che la competenza a verificare nel caso concreto detta compatibilità rispetto agli obblighi formativi derivanti dalla partecipazione al corso spetta all’Amministrazione che, nell’esercizio delle proprie funzioni pubbliche e nei limiti della discrezionalità tecnica, deve effettuare di volta in volta la propria valutazione.

Per le ragioni sopra esposte il ricorso introduttivo del giudizio ed il ricorso per motivi aggiunti devono pertanto essere accolti nei limiti di cui si è detto.
Per l’effetto devono essere annullati l’atto della Direzione Generale della Sanità del Servizio Programmazione Sanitaria e Economico Finanziaria e Controllo di Gestione comunicato con pec del 21 giugno 2021 e gli altri atti impugnati nella parte in cui vietano a parte ricorrente lo svolgimento di attività libero professionale in concreto compatibile con gli obblighi formativi del corso.

In ragione della peculiarità della fattispecie e in particolare della novità delle questioni trattate, sussistono i presupposti per compensare le spese.
P.Q.M.

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Tar lombardia respinge ricorso sanitari novax ma apre alle telemedicina

LA MASSIMA

È legittima l’imposizione  del trattamento sanitario obbligatorio, se questo apporta benefici non solo alla salute dell’obbligato ma anche alla salute collettiva e se le eventuali conseguenze negative per la salute dell’obbligato si assestino nei limiti della normale tollerabilità dei rischi avversi, conseguenti a tutti i trattamenti sanitari (Corte costituzionale, 18 gennaio 2018, n. 5; 14 dicembre 2017, n. 268).

Questa è la posizione espressa dalla prima sezione del  Tar della Lombardia che ha richiamato numerose pronunce della Corte Costituzionale sul tema in tre sentenze consecutive (140141 del 24/01/2022)  ed una leggermente diversa che ha parzialmente accolto una eccezione del sanitario ( 109 del 17/01).

Il Collegio ritiene che, alla luce della giurisprudenza costituzionale sopra citata, l’indifferibile esigenza di affrontare l’emergenza sanitaria in atto e di predisporre idonei ed efficaci strumenti di contenimento dei contagi da Sars-Cov-2 nonché la necessità di consentire a tutti gli individui l’accesso alle cure sanitarie in condizioni di sicurezza e, in applicazione del principio solidaristico, di tutelare la salute individuale dei soggetti più fragili, per età o per pregresse patologie, giustifichino il temporaneo sacrificio dell’autonomia decisionale degli esercenti le professioni sanitarie, in ordine alla somministrazione del vaccino.

All’affidamento che i pazienti ripongono nella somministrazione delle cure in condizioni di sicurezza, che assicurino, oltre alla sicurezza intrinseca della somministrazione della cura, anche la sicurezza dei luoghi nei quali la stessa viene somministrata, consegue necessariamente l’adozione di tutte le precauzioni possibili per evitare che essi incorrano in concreti rischi di contagio.

Esigere che la somministrazione del vaccino al personale sanitario sia condizionata alla manifestazione di un consenso libero ed informato non consentirebbe pertanto di perseguire efficacemente ed in tempi ristretti l’obiettivo di ridurre la diffusività del contagio e di decongestionare il sistema sanitario nazionale.

La previsione di un obbligo vaccinale settoriale e non generalizzato, esteso a tutti gli operatori del settore sanitario, si rivela pertanto coerente con la tutela della salute dei pazienti e con l’affidamento che gli stessi ripongono nella somministrazione delle cure in condizioni di massima sicurezza, proprio negli ambienti sanitari che, secondo l’id quod plerumque accidit, comportano un maggior rischio di trasmissione virale.

La sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportino comunque il rischio di diffusione del contagio non può però coincidere con la sospensione dall’iscrizione all’albo professionale, ancorché la vaccinazione sia stata elevata a <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati>> ( Tar lombardia 109/2022).

L’OBBLIGO VACCINALE NON CONTRASTA CON LA NORMATIVA EUROPEA

I ricorrenti tuti  esercenti le professioni sanitarie od operatori di interesse sanitario,  domandavano, previa sospensione della loro efficacia, l’annullamento degli inviti, comunicati dalle competenti Agenzie di tutela della salute (ATS), a sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria nonché il risarcimento dei danni conseguenti alla lesione delle libertà di autodeterminazione e di esercizio dell’attività lavorativa.

Eccepirono,  in  particolare, il contrasto della norma impositiva dell’obbligo vaccinale con il diritto euro-unitario e convenzionale, in particolare con gli articoli 3 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nonché con il principio di proporzionalità, per cui la stessa, in ossequio al principio di primazia del diritto dell’Unione europea.

Il Collegio ha ritenuto insussistenti i presupposti dell’obbligo di disapplicazione della norma interna confliggente con il diritto euro-unitario, in particolare con l’articolo 3, comma 2, della Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella parte in cui prevede che, nell’ambito della medicina e della biologia, devono essere rispettati <<il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge>>, e con l’articolo 52, comma 2, della stessa, nella parte in cui prevede che le eventuali limitazioni all’integrità fisica e psichica degli individui devono corrispondere effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui, sempre che venga rispettato il contenuto essenziale dei diritti e delle libertà tutelati dalla Carta.

Ai sensi dell’articolo 51 della CDFUE, l’obbligo di promuovere l’applicazione delle disposizioni della Carta è infatti limitato all’attuazione delle competenze dell’Unione, tra le quali non rientra l’intervento sanitario in tema di vaccinazioni obbligatorie, il quale è regolato esclusivamente dalla normativa interna degli Stati membri.

SOSPESA LA DETERMINA ATS CHE SOSPENDE ANCHE LE MANSIONI NON A RISCHIO

Il tema è stato trattato dalla stessa sezione nella sentenza  109/2022, forse più importante ed intrigante per le questioni trattate,  che ha accolto il punto del ricorso che riguardava i limiti della normativa rispetto al diritto al lavoro dando una interpretazione costituzionalmente orientata per definire lo stretto spartiacque tra diritto alla salute collettiva e diritto al lavoro. Tema già trattato dal Tribunale del lavoro di Viterbo (Sole24ore sanità 24/01/2022).

Il Tar ha accolto l’eccezione del sanitario ed  annullato l’atto di accertamento adottato dall’ATS nella parte in cui estende la sospensione dal diritto di svolgere le prestazioni professionali anche a quelle prestazioni che, per loro natura o per le modalità di svolgimento, non implicano contatti interpersonali o non sono rischiose per la diffusione del contagio da Sars-CoV-2.

Un’apertura importante in quanto legittima i datori di lavoro ad utilizzare comunque il sanitario in lavori, magari demansionati o diversi, che possono essere svolti a distanza. Indicazione non da poco se si considera la pressione in cui versa il sistema sanitario dove ogni competenza può essere utile.

Al comma 1 dell’articolo 4, il legislatore ha qualificato la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da Sars-CoV-2 come <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati>>.

Nella direttiva quadro del Consiglio 2000/78/CE del 27 novembre 2000, all’articolo 4, paragrafo 1, è previsto che gli Stati membri, <<per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui viene espletata>> possono stabilire <<un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato>>.

Il Collegio ritiene, pertanto, che l’unica interpretazione della norma che consenta di perseguire il fine primario della tutela precauzionale della salute collettiva e della sicurezza nell’erogazione delle prestazioni sanitarie in una situazione emergenziale, senza comprimere in modo irragionevole – sia pure temporaneamente – l’interesse del sanitario a svolgere un’attività lavorativa, sia quella di limitare, come espressamente enunciato dall’articolo 4, comma 6, gli effetti dell’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale allo svolgimento delle prestazioni e delle mansioni che comportano contatti interpersonali e di quelle che, pur non svolgendosi mediante un contatto interpersonale, comportino un rischio di diffusione del contagio da Sars-CoV-2.

La locuzione <<in qualsiasi altra forma>>, che il legislatore ha utilizzato per colorare il divieto di svolgimento di prestazioni o mansioni diverse da quelle che implicano contatti interpersonali, postula comunque che l’attività lavorativa si risolva in un rischio concreto << di diffusione del contagio da SARS-CoV-2>>. Osserva il Collegio che, nell’ambito delle professioni sanitarie, esistono delle attività, praticabili grazie alla tecnologia sanitaria, che il personale sanitario può svolgere senza necessità di instaurare contatti interpersonali fisici, quali ad esempio l’attività di telemedicina, di consulenza, di formazione e di educazione sanitaria, di consultazione a distanza mediante gli strumenti telematici o telefonici, particolarmente utili per effettuare una prima diagnosi sulla base di referti disponibili nel fascicolo sanitario telematico e per fornire un’immediata e qualificata risposta alla crescente domanda di informazione sanitaria, le quali non potrebbero essere svolte in caso di sospensione dall’esercizio della professione sanitaria.

L’ordinamento ricollega, prosegue la sentenza,  allo svolgimento di attività per le quali è richiesta l’iscrizione in un albo professionale, nell’ipotesi in cui questa sia stata temporaneamente sospesa, conseguenze di notevole rilievo sotto il profilo disciplinare, civile (ai sensi dell’articolo 2231 del codice civile, il contratto stipulato con il professionista che non sia iscritto all’albo è nullo e non conferisce alcuna azione, neppure quella sussidiaria di cui all’articolo 2041 del codice civile, per il pagamento della retribuzione) e penale (la giurisprudenza ritiene che soggetto attivo del delitto di esercizio abusivo della professione, previsto e punito dall’articolo 348 del codice penale, sia anche il professionista sospeso dall’albo).

La sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportino comunque il rischio di diffusione del contagio non può dunque coincidere con la sospensione dall’iscrizione all’albo professionale, ancorché la vaccinazione sia stata elevata a <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati>>.

IL DIRITTO DEL PAZIENTE DI SAPERE SE IL SANITARIO NON È VACCINATO

Il Collegio non ignora che un interesse di notevole rilievo, coinvolto nel procedimento disciplinato dall’articolo 4, sia anche quello dei pazienti di essere informati dell’avvenuto adempimento dell’obbligo vaccinale da parte dei professionisti ai quali si rivolgono, specialmente ove la domanda di prestazioni sanitarie avvenga per scelta diretta del professionista e non tramite il filtro dell’accesso ad una struttura sanitaria – pubblica o privata – che si faccia garante delle condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Il diritto dei pazienti ad essere informati è infatti un corollario del diritto alla sicurezza delle cure, che l’articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 2017, n. 24, individua come parte costitutiva del diritto alla salute.

Orbene, se è vero che la sospensione dall’albo professionale è idonea a realizzare la funzione notiziale della inidoneità temporanea del sanitario a svolgere le prestazioni professionali, tale funzione ben può essere garantita mediante specifiche e adeguate forme di pubblicità, la cui individuazione rientra nella competenza degli Ordini professionali.

Saranno in ogni caso demandate all’autonomia ed all’autogoverno dei singoli Ordini professionali, ai quali è riservato in via esclusiva il compito di tenere aggiornato l’albo degli iscritti, sia la predisposizione delle modalità di annotazione dell’atto di accertamento di cui all’articolo 4, comma 6, che l’esercizio della fondamentale funzione di vigilanza sul rispetto della misura interdittiva di natura preventiva.

Resta fermo, tuttavia, che l’esercizio della professione al di fuori degli stretti limiti sopra evidenziati è idoneo ad integrare un comportamento illecito, rilevante a tutti gli effetti di legge.

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Sanitario non vaccinato. L’impugnazione della decisione clinica dell’Azienda Sanitaria si propone al giudice ordinario

Tar Veneto Sezione terza 20/01/2022 n. 142

Sull'insussistenza della giurisdizione del g.a. in merito alla controversia inerente l'atto di accertamento dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale emesso da un'azienda sanitaria nei confronti di un esercente la professione sanitaria

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 1456 del 2021, proposto da
-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avv. Mauro Sandri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Azienda Ulss n. -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa
dall’avv. Maria Luisa Miazzi, dall’avv. Chiara Tomiola e dall’avv. Angela Rampazzo, con domicilio eletto presso il loro studio in Padova, Corso Garibaldi, 5;

per l’annullamento, previa sospensiva:

  • dell’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale emesso da AULSS -OMISSIS- in data 15.09.2021 (prot. n. -OMISSIS-), e di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale lesivo degli interessi della parte ricorrente.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Vista la costituzione di Azienda Ulss -OMISSIS-;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 il dott. Paolo Nasini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con ricorso depositato in data 6 dicembre 2021 la ricorrente, biologa nutrizionista libera professionista, ha impugnato gli atti indicati in epigrafe, chiedendone l’annullamento sulla scorta dei seguenti motivi, in sintesi:

  1. violazione dell’art. 4, comma 9, l. n. 76/2021, sotto il profilo del verificarsi della condizione di inefficacia della norma, per esaurimento del c.d. Piano vaccinale;
  2. violazione di legge (in particolare art. 4, comma 5), per mancato rispetto del primo avviso, finalizzato a consentire l’acquisizione della documentazione di esenzione e/o differimento, con conseguente impossibilità di deposito della documentazione di cui all’art. 4, comma 2;
  3. la parte ricorrente presenterebbe una pluralità di gravi patologie e familiarità che necessitano da un lato di ulteriori approfondimenti diagnostici e dall’altra sussisterebbe, comunque, il perfezionamento formale richiesto dall’art. 4, comma 2, attraverso l’attestazione del Medico di Medicina Generale; tale norma, poi, risulterebbe incostituzionale e, comunque, violativa delle normative europee perchè determinerebbe un onere probatorio a carico della parte ricorrente; inoltre, sussisterebbe una grave violazione del principio di precauzione, tenuto conto della ristrettezza dei termini temporali di accertamento di eventuali patologie incompatibili con la vaccinazione;
  4. il medico di medicina generale deve meramente “attestare” il quadro anamnestico alla luce della documentazione prodotta dalla paziente, nessun terzo soggetto avendo la facoltà di accedere alla visione dei referti specialistici stante il necessario rispetto dei principi di tutela assoluta di riservatezza di dati personali sensibile; per il principio di precauzione, non sarebbe legittimo un obbligo vaccinale rispetto ad un vaccino non sperimentato in ordine alle interazioni con patologie come quelle di cui sarebbe portatrice parte ricorrente, non “testate” dai produttori del vaccino medesimo; le patologie sofferte dalla parte ricorrente si porrebbero quali limite della prevalenza della salute pubblica rispetto a quella individuale;
  5. secondo parte ricorrente la possibilità di limitare l’esercizio della professione per motivi estranei all’idoneità conseguita, nonché avulsi dal concreto riferimento allo svolgimento dell’attività, deve ritenersi illegittima se non preceduta dal vaglio dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, con conseguente violazione del diritto unionale;
  6. il provvedimento impugnato, così come la disciplina normativa “a monte”, si fonda sull’equivoco che i vaccini non sono stati testati in relazione alla loro capacità di prevenire il contagio, non sussistendo alcuna certezza in relazione al fatto che i vaccinati si possano infettare (secondo le case produttrici: in modo asintomatico) e contagiare altre persone, mentre le norme in materia di autorizzazioni e di utilizzo di farmaci impongono che ciascuno di essi debba essere utilizzato per la specifica finalità per cui è stato sperimentato ed autorizzato, e che non possa essere utilizzato al di fuori di questo perimetro;
  7. violazione, da parte dell’art. 4, l. n.76 del 2021, dell’art. 32 Cost. e del principio di precauzione ex art. 191 tfue, in quanto i vaccini non sarebbero in grado di tutelare la salute pubblica e di raggiungere gli obiettivi dichiarati dalla L. 76/2021;
  8. l’art. 4, D.L. n. 44/2021, come convertito da l. 76/2021, nell’imporre l’obbligo vaccinale ai sanitari si porrebbe in illegittimo contrasto con fonti superiori di origine europea e internazionale che devono trovare immediata applicazione nel diritto interno;
  9. violazione dell’art. 117 Cost. sotto il profilo della contrarietà alla normativa dell’unione europea e al Regolamento (UE) n. 2021/953 del 14 giugno 2021;
  10. violazione dell’art. 3 Cost. e violazione dell’art. 191 tfue: illegittima disparità di trattamento nel diritto al lavoro tra la parte ricorrente e gli altri sanitari europei nonché gli altri cittadini italiani non giustificata da alcuna esigenza di tutela della sanità pubblica;

Si è costituita in giudizio l’Ulss -OMISSIS- contestando l’ammissibilità e fondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.

All’esito dell’udienza del 12 gennaio 2022 la causa è stata trattenuta in decisione e viene decisa in forma semplificata sussistendone i presupposti.

  1. In via pregiudiziale: in punto giurisdizione.

Il Collegio, all’udienza che precede, ha rilevato d’ufficio un profilo di possibile difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo in relazione alla controversia oggetto causa, e, in via generale, in ordine alle controversie derivanti dall’applicazione dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, mod. da l. 28 maggio 2021, n. 76.

1.1. In termini generali, si rammenta che, in forza del combinato disposto degli artt. 24, 103, 113 Cost. e 7 c.p.a., il criterio generale di riparto della giurisdizione è fondato sulla natura della situazione giuridica dedotta (c.d. causa petendi o petitum sostanziale), il Giudice amministrativo potendo essere adito esclusivamente laddove la posizione giuridica fatta valere in giudizio sia qualificabile in termini di interesse legittimo (c.d. giurisdizione di legittimità), salvi i casi, specificamente previsti dalla legge, nei quali, essendo stabilita la giurisdizione esclusiva del G.A., quest’ultimo possa anche eccezionalmente conoscere di situazioni di diritto soggettivo.

Tanto la giurisdizione di legittimità, quanto anche la giurisdizione esclusiva, d’altronde, presuppongono che nell’agire della Pubblica Amministrazione – che nei casi di giurisdizione esclusiva comprende anche “i comportamenti” – vi sia sempre un collegamento, più o meno stringente, con un potere pubblico esercitato dalla Pubblica Amministrazione (si veda in tal senso, Corte Cost., 06 luglio 2004, n. 204 e, poi, Corte Cost. 11 maggio 2006, n. 191; id., 27 aprile 2007, n. 140).

In tal senso, l’art. 7, comma 1, c.p.a. indica, quale criterio di corretta individuazione delle controversie che ricadono nella giurisdizione generale del g.a., l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo che si manifesta attraverso provvedimenti, atti o omissioni.

L’agire della P.a., cioè, deve assumere un carattere autoritativo, l’Amministrazione esercitando il potere di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del privato, ancorché siano ammessi, ma solo in via sostitutiva, modificativa e integrativa, moduli convenzionali ex art. 11, l. n. 241 del 1990.

L’art. 7, comma 3, c.p.a., prevede, come detto, la giurisdizione esclusiva anche in relazione ai comportamenti, purché, però, abbiano un collegamento anche solo mediato con il potere pubblico.

Quindi, in ogni caso, deve sussistere un collegamento tra il comportamento della P.a. e una manifestazione autoritativa pubblica, in mancanza non potendo configurarsi nemmeno la giurisdizione esclusiva.

Il comma 1 bis, l. n. 241 del 1990, significativamente, prevede che <>: possono, infatti, sussistere atti, cioè manifestazioni anche di volontà dell’Amministrazione, non a carattere provvedimentale e, comunque, non costituenti esercizio di potere autoritativo.

Si tratta di atti che si possono porre al di fuori della giurisdizione del g.a., nonostante siano, comunque, necessariamente funzionalizzati al perseguimento di interessi pubblici, in conformità all’art. 97 Cost.

Affinché, quindi, possa configurarsi una situazione di interesse legittimo, in relazione alla tutela tanto di un interesse pretensivo quanto oppositivo, è necessaria l’interposizione di un potere autoritativo della Pubblica Amministrazione.

Deve essere configurabile una situazione giuridica di preminenza, dispositiva della sfera giuridica del privato, che si manifesta, quindi, come una vera situazione giuridica attiva cui corrisponde la diversa situazione giuridica, anch’essa attiva, del privato titolare dell’interesse legittimo (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7).

Per contro, ogni qual volta l’ordinamento, pur approntando una disciplina orientata alla tutela di uno o più interessi pubblici, non attribuisce concretamente alla P.a. un potere-dovere nel senso sopra esposto tale da conformare in via immediata e diretta la sfera giuridica del privato, non può configurarsi nemmeno correlativamente la giurisdizione del Giudice amministrativo.

A tale riguardo, con riferimento all’attività di certificazione medica, è rilevante rammentare come tanto la disciplina dell’art. 41, d.lgs. 81 del 2008, quanto quella di cui all’art. 55 octies, d.lgs. n. 165 del 2001, prevedono l’adozione da parte dei medici competenti di atti certificativi che, pur essendo finalizzati a tutelare interessi anche pubblici come quello della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro (non solo cioè a beneficio del singolo lavoratore eventualmente inidoneo alla prestazione lavorativa), assumono specifica rilevanza nell’ambito del singolo rapporto lavorativo e non solo non hanno forza vincolante per il giudice di merito (in tal senso si vedano Cass. civ., sez. lav., 10 ottobre 2013, n. 23068; id., 02 agosto 2018, n. 20468), ma, a monte, non costituiscono manifestazione di potere autoritativo, così come non assumono autonoma rilevanza, dovendo formare oggetto di contestazione, avanti al Giudice ordinario, unitamente all’eventuale provvedimento adottato dal datore di lavoro.

1.2. L’art. 4, comma 1, d.l. 1 aprile 2021, n. 44, conv . con mod. da l. 28 maggio 2021, n. 76, ha introdotto l’obbligo vaccinale per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, l. 1 febbraio 2006, n. 43: questi ultimi in

Sebbene l’imposizione dell’obbligo vaccinale nei confronti dei sanitari sia dichiaratamente strumentale alla soddisfazione di due interessi pubblici, quello alla tutela della salute collettiva, da un lato, e quello al mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’esercizio delle prestazioni “sanitarie” (che contemplano cura e assistenza), dall’altro, il legislatore non ha inteso declinare le conseguenze di tale imposizione mediante la previsione di “sanzioni” (amministrative, disciplinari, penali) con attribuzione del relativo potere autoritativo di irrogazione in capo ad un’Amministrazione pubblica (anche, eventualmente, sanitaria), ma ha orientato tutta la disciplina correlata all’adempimento del suddetto obbligo in funzione della possibilità, per il professionista o l’operatore sanitario, di svolgere la sua attività lavorativa, sia essa autonoma o subordinata.

Lo stesso comma 1, infatti, prosegue precisando che la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati.

In questo senso, quindi, pur avendo l’obbligo vaccinale la sua genesi in una finalità spiccatamente di interesse pubblico, l’intera disciplina approntata dal legislatore con l’art. 4 in esame, si rivolge al lato strettamente “privatistico – lavorativo” dell’idoneità dell’operatore sanitario, in quanto lavoratore, sia esso autonomo o subordinato, di svolgere l’attività sanitaria.

La vaccinazione, cioè, viene ad essere declinata, dai commi 2 e seguenti, quale requisito imprescindibile per svolgere l’attività professionale, che deve sussistere inizialmente, ai fini dell’iscrizione nell’albo e deve permanere nel tempo pena la sospensione della professione, conseguenza quest’ultima ex lege, non intermediata dall’esercizio di un potere autoritativo dell’Amministrazione sanitaria.

In questo modo, il legislatore ha sostanzialmente introdotto una fattispecie ex lege di inidoneità del “lavoratore della sanità” incidendo, quindi, a monte e senza l’intermediazione dell’esercizio di potere da parte di alcuna Pubblica Amministrazione, sullo “statuto lavorativo” del sanitario conformando alla tutela dell’interesse pubblico il diritto allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Non solo, ma è lo stesso legislatore che, conformata negativamente la sfera giuridica del sanitario con l’obbligo vaccinale, operando un bilanciamento tra i contrapposti interessi, ha previsto al comma 2 gli unici casi nei quali è possibile differire o omettere il vaccino senza incorrere nell’inadempimento all’obbligo e, quindi, all’inidoneità lavorativa tout court: in particolare, si tratta dell’accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale.

Più avanti verrà approfondita la specifica problematica che, in punto giurisdizione, può condurre la previsione in esame in uno con quelle successive relative ai compiti attribuiti alle Aziende Sanitarie.

1.3 Coerentemente a quanto sopra esposto, quindi, il legislatore ha “tratteggiato” l’intera disciplina successiva ai commi 1 e 2, proprio ed esclusivamente in relazione al profilo “privatistico-lavorativo” dell’idoneità del sanitario allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Viene, infatti, descritta una serie di atti e termini, peraltro non particolarmente complessa, tutta finalizzata, da un lato e in prima battuta, a consentire al sanitario l’adempimento all’obbligo, così assolvendo all’onere di munirsi della speciale idoneità all’esercizio della prestazione lavorativa, dall’altro lato e in seconda battuta, a far emergere con una apposita “fotografia” della situazione di fatto, l’eventuale inadempimento del sanitario all’obbligo medesimo.

In particolare, nella prima fase:

  • in via preparatoria, entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, è stato imposto, da un lato, a ciascun Ordine professionale territoriale competente di trasmettere l’elenco degli iscritti, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma in cui ha sede; dall’altro lato, ai datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali, di trasmettere l’elenco dei propri dipendenti con tale qualifica, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio operano i medesimi dipendenti;
  • sempre in via preparatoria, entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi predetti, le regioni e le province autonome, per il tramite dei servizi informativi vaccinali, verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi; quando dai sistemi informativi vaccinali a disposizione della regione e della provincia autonoma non risulta l’effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell’ambito della campagna vaccinale in atto, la regione o la provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all’azienda sanitaria locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati;
  • quindi, ricevuta la segnalazione di cui al comma 4, l’azienda sanitaria locale di residenza si limita ad invitare l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell’invito, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione (perché potrebbe avervi già provveduto autonomamente) o l’omissione o il differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1;
  • in caso di mancata presentazione della documentazione di cui al primo periodo, l’azienda sanitaria locale, successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo di cui al comma 1;
  • in caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’azienda sanitaria locale invita l’interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.

Nella seconda fase, invece, il comma 6, prima parte, prevede che, decorsi i termini sopra detti per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale, l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza.

La seconda parte del comma 6, precisa che l’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Quindi, con l’adozione dell’atto di accertamento e la notizia dello stesso data ai soggetti sopra ricordati, terminano i compiti ascritti alle Aziende sanitarie.

A fronte dell’effetto sospensivo previsto dal legislatore, da un lato, viene imposto all’Ordine professionale di appartenenza esclusivamente l’obbligo di comunicazione dello stesso all’interessato (così il comma 7); dall’altro lato, ricevuta la comunicazione di cui al comma 6, il datore di lavoro (sia esso pubblico che privato), avendo specifici poteri organizzativi e di gestione del lavoro e, quindi, delle mansioni dei singoli lavoratori, viene obbligato, ove possibile, ad adibire il sanitario sospeso a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.

Pur operando la sospensione immediatamente e ipso iure, in conseguenza dell’inadempimento all’obbligo e, quindi, al verificarsi dell’inidoneità certificata dall’Amministrazione sanitaria, (non avendo il datore di lavoro alcun potere in ordine all’adozione di tale misura, a differenza di quanto previsto dagli artt. 41, d.lgs. n. 81 del 2008 e 55 octies, d.lgs. n. 165 del 2001), il datore di lavoro è comunque chiamato a cercare di “superare” tale effetto attraverso l’assegnazione a mansioni diverse non “pericolose”, soluzione che, quando non è possibile, comporta che per il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione, né altro compenso o emolumento, comunque denominato.

Dalla lettura del comma 9 della disposizione si comprende che, come si preciserà anche nel prosieguo, la sospensione quale conseguenza dell’inadempimento all’obbligo vaccinale non è una sanzione, ma è semplicemente l’inevitabile effetto dell’impossibilità temporanea all’esecuzione della prestazione lavorativa, derivante dal verificarsi di un’ipotesi di inidoneità lavorativa parimenti temporanea: la sospensione di cui al comma 6, infatti, mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021.

Vanno sottolineate, infine, anche le previsioni di cui ai commi 10 e 11.

Il comma 10, per i sanitari “dipendenti”, infatti, prevede che, salvo in ogni caso il disposto dell’art. 26, commi 2 e 2 bis, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv., con mod., da l. 24 aprile 2020, n. 27, per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Il comma 11, per i lavoratori autonomi, stabilisce che per il medesimo periodo di cui al comma 10, al fine di contenere il rischio di contagio, nell’esercizio dell’attività libero-professionale, i soggetti di cui al comma 2 adottano le misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

1.4. Da quanto precede, emerge chiaramente, come accennato, che la previsione della sospensione, quale conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, non è stata strutturata dal legislatore in termini di “sanzione” (amministrativa, penale, disciplinare; pecuniaria o personale), ma esclusivamente in termini di inidoneità temporanea alla prestazione lavorativa, categoria tipicamente riconducibile alle fattispecie tanto del lavoro privato (art. 41, d.lgs. n. 81 del 2008) che del pubblico impiego (art. 55 octies, d.lgs. n. 165 del 2001), e che, nella specie, viene valorizzata dal legislatore anche, in termini più generali, ai fini del corretto esercizio della professione regolamentata in albi.

Coerentemente, infatti, il legislatore si rivolge al datore di lavoro precisando che egli ha l’obbligo, ove possibile, di assegnare il sanitario a diverse mansioni non inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, comunque, con forme che non comportino rischi di diffusione del contagio da Sars – CoV-2, quindi, non implichino contatti interpersonali o facciano sorgere, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Risulta evidente, quindi, l’intento del legislatore nel disciplinare un’ipotesi di sospensione obbligatoria preventivamente determinata ex lege: “sottrarre” il potere discrezionale di sospensione al datore di lavoro e agli ordini professionali di riferimento, senza, al contempo attribuire ad alcun altro soggetto, né pubblico, né privato, tale potere, in modo da rendere certa, effettiva e uguale per tutti, l’impossibilità per il sanitario non vaccinato di svolgere l’attività, essendo inidoneo, sia pure temporaneamente, allo svolgimento dell’attività lavorativa.

La sospensione non è intermediata da alcun provvedimento irrogativo da parte di soggetto privato o pubblico (sull’atto di accertamento dell’Amministrazione sanitaria, infatti, si dirà a breve), tanto che lo stesso legislatore si è limitato a prevedere in via automatica la cessazione della predetta misura cautelare nel caso di ottemperanza dell’obbligo vaccinale, senza la previsione di un “contrarius actus” anche solo in termini di “revoca”.

Poiché, d’altronde, non si tratta di una sanzione, ma di una necessaria conseguenza legata all’inidoneità del sanitario allo svolgimento della prestazione lavorativa del sanitario, il legislatore, come visto, non ha potuto, né voluto, esautorare del tutto i datori di lavori.

La sospensione, quindi, non appartiene alla sfera del diritto pubblico, ma assume anch’essa – così come la declinazione dell’obbligo vaccinale in funzione di idoneità alla prestazione lavorativa – un rilievo, in via diretta, strettamente privatistico perché incide direttamente sul rapporto di lavoro o sullo svolgimento della prestazione lavorativa autonoma, quale effetto della sopravvenuta impossibilità temporanea per inidoneità a svolgere l’attività sanitaria; ciò, si ripete, nonostante che la finalità ultima, ma mediata, del legislatore sia quella di tutela della salute pubblica.

1.5. Quanto precede consente di meglio definire la questione pregiudiziale di giurisdizione.

In primo luogo, deve escludersi che, con riferimento alle contestazioni e censure conseguenti all’applicazione dell’art. 4 in esame, si verta in una delle fattispecie di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133 c.p.a.

In particolare, non sussistono i presupposti per affermare la sussunzione della tipologia di azioni esperibili nelle ipotesi relativa a controversie inerenti “servizi pubblici”.

La fattispecie disciplinata dall’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, infatti, pur avendo certamente un riflesso mediato sul corretto ed efficiente espletamento del servizio pubblico sanitario, riflesso discendente dal fatto che, a monte, l’obbligo vaccinale è stato giustificato proprio per consentire tale funzionalità, in realtà è strettamente correlata e finalizzata, in via immediata, alla conformazione del rapporto di lavoro ovvero dello statuto della prestazione professionale, venendo, quindi, in gioco, il diritto del sanitario all’esercizio della prestazione lavorativa, e mediatamente, il diritto dello stesso, eventualmente, a non vaccinarsi.

La causa petendi, quindi, in nessun caso, può inerire, in via diretta, il servizio pubblico sanitario in sé considerato.

Non vengono in gioco, infatti, diritti sociali o il diritto ad ottenere una determinata prestazione del servizio sanitario o, comunque, un provvedimento amministrativo inerente specificamente l’espletamento verso l’utenza di tale servizio e nemmeno un atto di organizzazione generale dello stesso, ma solo atti ed istituti che si inseriscono nell’ambito di singoli e specifici rapporti di lavoro o di singole prestazioni di lavoro autonomo.

1.6. Posto che, pertanto, si verte in un’ipotesi di giurisdizione di legittimità, occorre approfondire il ruolo attribuito dal legislatore all’Amministrazione sanitaria (le Aziende sanitarie incaricate).

Come emerge chiaramente dal dettato normativo, il legislatore ha conformato “a monte” (con l’obbligo vaccinale) e “a valle” (con la sospensione), la sfera giuridica del sanitario-lavoratore/professionista, al contempo incidendo sulla sfera decisionale tanto dei datori di lavoro (parzialmente) quanto degli ordini professionali: per altro verso, per garantire il necessario raccordo tra gli “ordinari” “strumenti” previsti dall’ordinamento per la verifica delle idoneità lavorative nell’ambito del lavoro subordinato privato e nel pubblico impiego (attraverso i c.d. medici del lavoro) e lo svolgimento del c.d. piano vaccinale, ha inteso, attribuire all’Amministrazione sanitaria (l’Azienda sanitaria locale di residenza dei sanitari) il doppio compito, materiale, da un lato, di attuazione dell’obbligo vaccinale, e, dall’altro, quello esclusivamente ricognitivo dell’inadempimento all’obbligo medesimo, e, quindi, dell’inidoneità allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Il legislatore, sotto il secondo dei due profili appena indicati, ha in sostanza attribuito all’Amministrazione sanitaria quegli stessi compiti normalmente previsti per il medico del lavoro, solo limitati al caso particolare dell’inadempimento vaccinale e non solo in funzione dei lavoratori subordinati, ma anche dei professionisti lavoratori autonomi del settore sanitario: il fatto che un tale incombente sia stato attribuito all’Azienda sanitaria deve ritenersi esclusivamente giustificato dal fatto, come detto, che si tratta di Ente già preposto in via autonoma e a prescindere dalla fattispecie in esame, all’attuazione del c.d. piano vaccinale, come ricordato dallo stesso comma 1 dell’art. 4, ma che, ai fini dell’accertamento dell’inadempimento, rileva solo come organo tecnico ausiliario e strumentale per l’espletamento di attività ricognitiva, strettamente funzionale al corretto svolgimento del rapporto lavorativo e della prestazione d’opera.

1.7. Con riferimento all’obbligo vaccinale, il legislatore ha conformato “negativamente” la sfera giuridica del privato ponendo a carico dello stesso una situazione passiva senza per contro attribuire alcun potere conformativo all’Amministrazione sanitaria, che non può modificare o, comunque, incidere sulla titolarità di tale obbligo.

Nessun potere è riconoscibile, quindi, in capo alle Aziende sanitarie, perché esse non possono né obbligare il sanitario a vaccinarsi, (essendo obbligato ex lege, “a monte”), né adottano specifici provvedimenti di esonero o differimento (l’operatore sanitario, infatti, non deve richiedere l’intermediazione delle Aziende sanitarie per ottenere l’esonero o il differimento), il legislatore avendo solo assegnato ad esse il compito di verificare che vi sia un certificato del medico di base che riconosca i presupposti per il differimento o l’esonero dal vaccino e – qualora si ritenga che la normativa attribuisca all’Amministrazione sanitaria tale facoltà – che tale valutazione sia corretta o, comunque, che sussistano in capo al sanitario le condizioni medicalmente accertabili contrarie alla vaccinazione, sia pure solo immediata.

Alle Aziende sanitarie, quindi, non è riconosciuto alcun potere autoritativo, sia esso vincolato o discrezionale, idoneo a disporre della situazione giuridica del privato incidendola unilateralmente.

Parimenti, l’Azienda sanitaria non può nemmeno incidere sulle conseguenze a valle, in parte strettamente predeterminate dalla legge (la sospensione) senza che vi sia un puntuale atto impositivo, in parte demandate, significativamente, ad altro soggetto (il datore di lavoro).

Anche il ruolo degli Ordini è meramente ausiliario e informativo: prima, infatti, devono trasmettere alla Regione o alla Provincia autonoma in cui ha sede, l’elenco integrale di tutti gli iscritti; successivamente ricevono, unitamente al sanitario interessato e al datore di lavoro, dalle Aziende sanitarie la comunicazione scritta dell’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale; infine, devono comunicare all’interessato la sospensione conseguente all’inadempimento così come accertato.

La sospensione non è disposta dagli ordini, così come non è disposta dall’Amministrazione sanitaria, ma è una conseguenza dell’inadempimento meramente “fotografato” da quest’ultima mediante l’atto di accertamento, che gli Ordini si limitano a comunicare al professionista, cioè è un mero obbligo informativo, previa presa d’atto e senza alcuna valutazione di merito, riportando l’annotazione relativa all’albo.

L’atto dell’Amministrazione sanitaria, quindi, non ha alcun effetto dispositivo: l’impiego nel testo dell’art. 4 del verbo “determina”, associato all’accertamento, non va inteso nel senso che la sospensione sia un effetto dell’atto medesimo, ma nel senso che essa è la conseguenza dell’inadempimento e, quindi, dell’inidoneità temporanea all’esercizio della prestazione – che preesiste, ma viene – certificata dall’atto di accertamento, così come il medico del lavoro certifica l’inidoneità allo svolgimento della prestazione lavorativa da parte del singolo lavoratore.

1.8. Appurato che, per le ragioni sopra viste, non risulta essere stato attribuito alcun potere autoritativo all’Amministrazione sanitaria, va esaminata, specularmente. la posizione giuridica azionata in giudizio dal sanitario che si ritiene leso dall’applicazione dell’art. 4.

Al riguardo, va premesso che tutte le possibili contestazioni sollevabili dal sanitario in relazione all’applicazione della suddetta norma, anche quando concernono il profilo più “a monte” dell’asserita incostituzionalità dell’obbligo vaccinale per la ritenuta lesione di uno o più diritti costituzionalmente tutelati – in particolare il diritto alla salute – coinvolgono una fattispecie che, come detto, concerne precipuamente il profilo relativo al diritto allo svolgimento della prestazione lavorativa in quanto finalizzata a garantire che il lavoratore sanitario soddisfi una determinata condizione di idoneità lavorativa.

In ogni caso, elemento comune a tutte le ipotesi di contestazione che possono discendere dall’attuazione della disposizione in esame, è il fatto che, come detto, rispetto alle situazioni giuridiche che il sanitario assume o può assumere essere lese, all’Azienda sanitaria non è stato attribuito alcun potere pubblico autoritativo o comunque dispositivo delle situazioni giuridiche medesime, di modo da poter giustificare la giurisdizione del Giudice Amministrativo.

Ne consegue, che rispetto all’atto di accertamento dell’Azienda sanitaria la situazione giuridica del sanitario non è qualificabile in termini di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo.

La contestazione dell’accertamento di inadempimento, in tal senso, non si risolve nell’impugnativa di un provvedimento o atto amministrativo costituente esercizio di potere, ma nella richiesta di verificare l’effettiva situazione di fatto e diritto sottostante al fine di escludere l’effetto sospensivo ovvero l’insussistenza o la non coercibilità dell’obbligo vaccinale.

In tal senso, quindi, anche con riferimento alle ipotesi in cui l’azione giudiziale venga strutturata nel senso di introdurre anche solo alcuni tra i motivi di ricorso concernenti l’asserita incostituzionalità della previsione di un obbligo vaccinale, per ritenuto contrasto con diritti fondamentali quali il diritto alla salute, non occorre accedere alle categorie, dottrinali e giurisprudenziali, non sempre lineari e oggetto di critica, dei diritti fondamentali “inaffevolibili”, ai fini del riparto di giurisdizione, perché nel caso di specie, a monte, deve ritenersi esclusa in ogni caso, la configurabilità di un potere autoritativo, a prescindere dalla natura fondamentale o meno del diritto fatto valere.

1.9. Quanto precede, quindi, porta inevitabilmente a declinare la giurisdizione del Giudice amministrativo.

In senso contrario, non può essere valorizzato il fatto che l’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, preveda una serie di atti e termini da rispettare: più precisamente, non può ritenersi né che la sequenza più sopra ricordata sia necessariamente qualificabile in termini di procedimento amministrativo, nè che, comunque, il semplice rispetto di una “procedura” da parte dell’Amministrazione costituisca elemento di per sé dirimente per ritenere sussistente l’attribuzione di potere pubblico e, comunque, la giurisdizione del Giudice amministrativo.

In primo luogo, dall’esame dell’art. 4 emerge come quanto previsto dal legislatore sia una mera scansione procedurale funzionale e necessaria affinché il sanitario adempia l’obbligo vaccinale ed eventualmente, in caso di non giustificato inadempimento al suddetto obbligo, questo possa essere certificato unitamente alla correlata inidoneità allo svolgimento della prestazione lavorativa.

In secondo luogo, il rispetto da parte della P.a. di una procedura (intesa quale sequenza di atti e termini) non comporta automaticamente la qualificazione in termini di “procedimento amministrativo” ai sensi della l. n. 241 del 1990 (tanto più che la disposizione non reca alcun rinvio né esplicito, né implicito alla suddetta normativa), e, comunque, non implica necessariamente la giurisdizione del Giudice amministrativo, come comprovato dal fatto che vi sono fattispecie procedimentalizzate e, nonostante questo, sottoposte alla giurisdizione del giudice ordinario (come nel caso delle sanzioni amministrative conseguenti a violazioni del codice della strada, ai sensi degli artt. 203 e 204 D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285).

Più in generale, il procedimento amministrativo può costituire la manifestazione sensibile della funzione, cioè la forma esterna del potere colta nel suo momento dinamico, in tal senso non potendo incidere sul riparto di giurisdizione, in quanto presuppone l’esercizio del potere, ma non ne dimostra necessariamente la sussistenza.

1.10. Non possono, poi, ricavarsi elementi a favore della giurisdizione amministrativa nel fatto che, secondo un’interpretazione dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, sarebbe demandato all’Azienda sanitaria, in via eventuale, non solo il compito di verificare che il sanitario abbia presentato i certificati previsti dalla suddetta norma, ma che quanto certificato dal medico di medicina generale sia corretto, o comunque che sussistano, nei fatti, i presupposti per l’applicazione del differimento o dell’esonero di cui al comma 2.

In termini generali, qualora non vengano presentati dei certificati medici ai sensi dell’art. 4, o non vengano sollevate questioni in ordine alla non applicabilità dell’obbligo vaccinale, il compito dell’Amministrazione si limita ad un accertamento di un dato di fatto, cioè una semplice attività di certazione, che in nessun modo implica, non solo l’esercizio di un potere decisionale, ma nemmeno valutativo, trattandosi di atto meramente ricognitivo, e come tale inidoneo a radicare la giurisdizione del Giudice amministrativo (si veda, ancorché in fattispecie differente da quella in esame, Cass., sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5825).

Laddove, d’altronde, tali certificati siano presentati o comunque siano indicate circostanze ai fini della giustificazione dell’esonero o del differimento e si ritenga che la disposizione normativa in questione attribuisca all’Amministrazione il compito di esaminarli e valutarne la correttezza tecnica, quest’attività valutativa sarebbe comunque qualificabile esclusivamente come atto di verifica sanitaria, con effetti meramente certativi, similmente all’attività di accertamento del medico del lavoro, della Commissione medica, o dello Spisal.

Come sottolineato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione anche recentemente (con sentenza 15 gennaio 2021, n. 618, in relazione al giudizio della Commissione medica dello Spisal in merito all’idoneità fisica di una lavoratrice allo svolgimento dei servizi di guardia notturni e festivi e di reperibilità), tale valutazione è qualificabile in termini di mero atto di verifica sanitaria, sicché non si pone nemmeno un problema di disapplicazione dell’atto amministrativo, ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 1, ma solo la diversa questione della sua efficacia vincolante e dei limiti del controllo in sede giurisdizionale, in ordine al quale, significativamente, la stessa Corte ha precisato che il giudizio della Commissione medica deve ritenersi sindacabile da parte del giudice ordinario del lavoro adito per l’accertamento della illegittimità del licenziamento avendo egli, anche in riferimento ai principi costituzionali di tutela processuale il potere-dovere di controllare l’attendibilità degli accertamenti sanitari effettuati dalle citate Commissioni (Cass. sez. lav. 16 gennaio 2020 n. 822, Cass. sez. lav. 4 settembre 2018, n. 21620, Cass. sez. lav. 25 luglio 2011, n. 16195, Cass. sez. lav. 8 febbraio 2008 n. 3095, Cass. sez. lav.20 maggio 2002, n. 7311).

Peraltro, la Corte di Cassazione, sia pure in fattispecie diverse da quelle in esame, ha avuto modo di sottolineare come non possa riconoscersi la giurisdizione del Giudice amministrativo qualora l’Amministrazione non sia chiamata dal legislatore a esercitare poteri discrezionali, ma a verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti normativamente previsti nello svolgimento di un’attività vincolata, di carattere meramente ricognitivo, della cui natura partecipa anche il giudizio tecnico (Cass., sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5825)

Quindi, l’attività rimessa all’Amministrazione sanitaria è una mera attività ricognitivo-certificativa, l’atto della P.a. essendo esclusivamente dichiarativo e rigidamente connesso a presupposti o di mero fatto (l’avere o no effettuato in concreto il vaccino nella data stabilita) o, al massimo, ad una stretta valutazione medica.

Si tratta, quindi, di un atto che in nulla conforma direttamente la situazione giuridica dell’operatore sanitario, il quale, come detto, è “stretto” da due determinazioni legislative a monte (l’imposizione dell’obbligo di vaccinarsi) e a valle (la sospensione, che non è imposta né dichiarata dall’Amministrazione, ma è prevista dalla legge come conseguenza ex lege), senza che, quindi, in alcun modo sia evincibile dal dettato normativo la previsione di una manifestazione unilaterale impositiva e direttamente produttiva di effetti giuridici conformativi da parte dell’Amministrazione sanitaria.

Peraltro, la discrezionalità tecnica non comporta di per sé l’esercizio di un potere amministrativo autoritativo, ma, al pari dell’accertamento tecnico, soprattutto nel caso di specie, si concreta nell’esame di un fatto, ancorché più complesso.

La Corte di Cassazione, in tal senso, sia pure con riferimento ad altra tipologia di controversie, ha sottolineato che <> (Cass., sez. un., 23 ottobre 2014, n. 22550).

Peraltro, se, in via interpretativa, si volesse riconoscere una discrezionalità tecnica in capo all’Amministrazione sanitaria, allora si dovrebbe concludere che, a fronte di una mera valutazione medica, l’effettiva o meno sussistenza dei presupposti per l’esonero o il differimento dell’obbligo vaccinale dovrebbe essere accertabile mediante CTU; diversamente (ove si sostenesse l’insindacabilità, nel merito, delle conclusioni dell’Amministrazione sanitaria) si determinerebbe un grave vulnus non solo in via immediata e processuale al diritto di difesa in giudizio, ma, in via mediata e sostanziale, al diritto alla salute del sanitario, sul quale si fondano le deduzioni e contestazioni oggetto del presente giudizio.

1.11 Anche sotto il profilo della tutela effettiva in favore del sanitario deve ritenersi che nessun pregiudizio ne può derivare in caso di devoluzione delle controversie alla Giurisdizione ordinaria, potendo il sanitario agire convenendo in giudizio il datore di lavoro e/o l’ordine di appartenenza al fine di far accertare il suo diritto a svolgere l’attività lavorativa, previa dimostrazione dell’insussistenza dell’inadempimento (eventualmente anche contestando la conformità costituzionale dell’obbligo vaccinale), nonché l’Amministrazione sanitaria, a titolo risarcitorio, per i danni eventualmente subiti in caso di errata certificazione dell’inadempimento e, quindi, dell’inidoneità all’esercizio della prestazione lavorativa.

1.12. Infine, occorre sottolineare come quanto fin qui esposto trovi piena conferma nella recente modifica operata dal legislatore all’art. 4 in esame.

Infatti, l’art. 1, comma 1, lett. b), d.l. 26 novembre 2021, n. 172, ha così novellato la norma:

  1. Al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, in attuazione del piano di cui all’articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita, comprensiva, a far data dal 15 dicembre 2021, della somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, nel rispetto delle indicazioni e dei termini previsti con circolare del Ministero della salute. La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati. La vaccinazione è somministrata altresì nel rispetto delle indicazioni fornite dalle regioni e dalle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità alle previsioni contenute nel piano di cui al primo periodo.
  2. Solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2, non sussiste l’obbligo di cui al comma 1 e la vaccinazione può essere omessa o differita.
  3. Gli Ordini degli esercenti le professioni sanitarie, per il tramite delle rispettive Federazioni nazionali, che a tal fine operano in qualità di responsabili del trattamento dei dati personali, avvalendosi della Piattaforma nazionale digital green certificate (Piattaforma nazionale-DGC) eseguono immediatamente la verifica automatizzata del possesso delle certificazioni verdi COVID-19 comprovanti lo stato di avvenuta vaccinazione anti SARS-CoV-2, secondo le modalità definite con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 9, comma 10, del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87. Qualora dalla Piattaforma nazionale-DGC non risulti l’effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2, anche con riferimento alla dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, nelle modalità stabilite nella circolare di cui al comma 1, l’Ordine professionale territorialmente competente invita l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione della richiesta, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione oppure l’attestazione relativa all’omissione o al differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione, da eseguirsi entro un termine non superiore a venti giorni dalla ricezione dell’invito, o comunque l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1. In caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’Ordine invita l’interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.
  4. Decorsi i termini di cui al comma 3, qualora l’Ordine professionale accerti il mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, anche con riguardo alla dose di richiamo, ne dà comunicazione alle Federazioni nazionali competenti e, per il personale che abbia un rapporto di lavoro dipendente, anche al datore di lavoro.

L’inosservanza degli obblighi di comunicazione di cui al primo periodo da parte degli Ordini professionali verso le Federazioni nazionali rileva ai fini e per gli effetti dell’articolo 4 del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233. L’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale è adottato da parte dell’Ordine territoriale competente, all’esito delle verifiche di cui al comma 3, ha natura dichiarativa, non disciplinare, determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie ed è annotato nel relativo Albo professionale.

  1. La sospensione di cui al comma 4 è efficace fino alla comunicazione da parte dell’interessato all’Ordine territoriale competente e, per il personale che abbia un rapporto di lavoro dipendente, anche al datore di lavoro, del completamento del ciclo vaccinale primario e, per i professionisti che hanno completato il ciclo vaccinale primario, della somministrazione della dose di richiamo e comunque non oltre il termine di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021. Per il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato. Il datore di lavoro verifica l’ottemperanza alla sospensione disposta ai sensi del comma 4 e, in caso di omessa verifica, si applicano le sanzioni di cui all’articolo 4-ter, comma 6.
  2. Per i professionisti sanitari che si iscrivono per la prima volta agli albi degli Ordini professionali territoriali l’adempimento dell’obbligo vaccinale è requisito ai fini dell’iscrizione fino alla scadenza del termine di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021.
  3. Per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
  4. Per il medesimo periodo di cui al comma 7, al fine di contenere il rischio di contagio, nell’esercizio dell’attività libero-professionale, i soggetti di cui al comma 2 adottano le misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali, entro il 15 dicembre 2021.
  5. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
  6. Per la verifica dell’adempimento dell’obbligo vaccinale da parte degli operatori di interesse sanitario di cui al comma 1, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 4-ter, commi 2, 3 e 6.

La disposizione che precede, seppure non applicabile alla fattispecie “ratione temporis”, sotto il profilo interpretativo fa emergere una volta di più come il legislatore abbia del tutto inteso escludere l’intermediazione del potere pubblico: se nella precedente versione, infatti, come sopra detto, alle aziende sanitarie è stato attribuito un compito di verifica certativa eventualmente con profili di mera valutazione medica, nell’attuale versione, addirittura, è stato del tutto escluso un ruolo delle amministrazioni sanitarie ai fini dell’accertamento dell’inadempimento che, peraltro, viene effettuato dagli Ordini sulla scorta di un mero rilievo documentale, per mezzo di un atto definito esplicitamente avente natura dichiarativa e non disciplinare.

1.13. Alla luce di quanto precede, deve ritenersi sussistere il difetto di giurisdizione dell’intestato TAR, con giurisdizione del Giudice ordinario.

Ai sensi dell’art. 11, comma 2, c.p.a. <>.

Le spese di lite devono essere compensate attesa la novità delle questioni esaminate e la particolarità della controversia.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo e la giurisdizione del Giudice ordinario.

Compensa integralmente le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Alessandra Farina, Presidente

Mara Bertagnolli, Consigliere

Paolo Nasini, Referendario, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Paolo Nasini Alessandra Farina

IL SEGRETARIO

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Corte Costituzionale sentenza 10/2022 -Gratuito patrocinio spetta anche per la mediazione obbligatoria

Sentenza 10/2022
MASSIMA
In questi termini, tali diritti, che rientrano tra i diritti civili, inviolabili e caratterizzanti lo Stato di diritto, richiamano il compito assegnato alla Repubblica dall’art. 3, secondo comma, Cost. affinché siano predisposti i mezzi necessari per garantire ai non abbienti le giuste chances di successo nelle liti, rimediando a un problema di asimmetrie – derivante dagli ostacoli di ordine economico che impediscono «di fatto» di compensare il difensore – che non può trovare soluzione nell’ambito dell’eguaglianza solo formale.

Norme impugnate: Artt. 74, c. 2°, 75, c. 1°, e 83, c. 2°, del decreto del Presidente della Repubblica del 30/05/2002, n. 115.

Pronuncia
SENTENZA N. 10

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 74, comma 2, 75, comma 1, e 83, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», promossi dal Tribunale ordinario di Oristano con ordinanza dell’8 luglio 2020 e dal Tribunale ordinario di Palermo con ordinanza del 17 marzo 2021, iscritte, rispettivamente, al n. 188 del registro ordinanze 2020 e al n. 115 del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 1 e 34, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 novembre 2021 il Giudice relatore Luca Antonini;

deliberato nella camera di consiglio del 25 novembre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza dell’8 luglio 2020 (reg. ord. n. 188 del 2020), il Tribunale ordinario di Oristano ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale degli artt. 74, comma 2, e 83, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)».

L’art. 74, comma 2, t.u. spese di giustizia prevede che sia «assicurato il patrocinio nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate».

Il successivo art. 83, comma 2, dispone, per quanto qui interessa, che la liquidazione del compenso spettante al difensore «è effettuata al termine di ciascuna fase o grado del processo e, comunque, all’atto della cessazione dell’incarico, dall’autorità giudiziaria che ha proceduto».

La prima norma è censurata nella parte in cui non prevede che il patrocinio a spese dello Stato in favore dei non abbienti sia assicurato anche in relazione all’attività difensiva svolta nell’ambito della mediazione obbligatoria di cui all’art. 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali), quando il successivo giudizio non viene instaurato per l’intervenuta conciliazione delle parti. La seconda è denunciata nella parte in cui non prevede che, in tali fattispecie, alla liquidazione del compenso spettante al difensore provveda il giudice che sarebbe stato competente a conoscere della causa.

1.1.– In punto di rilevanza, il rimettente espone di essere chiamato a decidere sull’istanza di liquidazione presentata dal difensore nominato dall’amministratore di sostegno di P.O., ammessa al patrocinio a spese dello Stato dal Consiglio dell’ordine degli avvocati, per l’attività svolta nel corso di un procedimento di mediazione obbligatoria durante il quale le parti hanno raggiunto un accordo per la composizione bonaria della lite, sicché il processo non è stato poi introdotto.

L’accoglimento dell’istanza sarebbe, pertanto, precluso dalle norme denunciate, dal momento che queste non prevedono la possibilità di liquidare il compenso a carico dello Stato qualora l’attività difensiva sia stata espletata esclusivamente in sede di mediazione, senza dunque che sia stato instaurato il giudizio. D’altra parte, precisa il giudice a quo, nella specie sussisterebbero i requisiti stabiliti dalla legge per il conseguimento del diritto al patrocinio a spese dello Stato, con la conseguenza che, se le norme sospettate fossero dichiarate costituzionalmente illegittime, l’istanza di cui è investito potrebbe essere accolta.

1.2.– In merito alla non manifesta infondatezza, il Tribunale di Oristano preliminarmente esclude la possibilità di un’interpretazione secundum Constitutionem delle disposizioni censurate, ponendo in rilievo che queste, nel riconoscere il patrocinio a spese dello Stato e nel disciplinare la competenza ad adottare il decreto di liquidazione del compenso, fanno espresso riferimento al «processo» e all’autorità giudiziaria «che ha proceduto». La «necessità del processo» troverebbe poi conferma sul piano sistematico, avuto riguardo, tra l’altro, al disposto dell’art. 75, comma 1, t.u. spese di giustizia, a mente del quale «[l]’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse» al processo stesso.

In sostanza – conclude il rimettente anche sulla scorta della giurisprudenza di legittimità e di merito – affinché le attività difensive svolte al di fuori del processo possano essere considerate giudiziali, sarebbe pur sempre necessaria l’instaurazione del giudizio.

La liquidazione del compenso a carico dello Stato, pertanto, potrebbe avere ad oggetto l’attività espletata nel corso del procedimento di mediazione obbligatoria soltanto se questo abbia avuto esito negativo, mentre al medesimo risultato non si potrebbe giungere nell’ipotesi opposta, ostandovi la lettera delle disposizioni sospettate.

1.2.1.– Tale esito ermeneutico conduce il giudice a quo a dubitare della compatibilità con il dettato costituzionale degli artt. 74, comma 2, e 83, comma 2, t.u. spese di giustizia.

In proposito, dopo avere rammentato che il legislatore, nell’introdurre forme di giurisdizione condizionata è tenuto a non rendere eccessivamente difficoltosa la tutela giurisdizionale, il rimettente innanzitutto sottolinea come le norme denunciate escludano dall’ambito di applicazione del patrocinio a spese dello Stato il procedimento di mediazione con l’assistenza del difensore, benché il suo esperimento sia imposto, in determinate materie, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Quindi, aggiunge che sarebbe «incongruo» che a impedire la liquidazione dei compensi a carico dello Stato sia l’intervento della conciliazione, ovvero proprio dell’evento che evita la celebrazione del processo e soddisfa così la finalità deflattiva del contenzioso a cui è preordinata la mediazione obbligatoria.

Peraltro, prosegue il giudice a quo, la disciplina normativa denunciata disincentiverebbe il raggiungimento dell’accordo tra le parti, giacché i non abbienti, nella consapevolezza di dovere in tal caso sostenere le spese difensive, potrebbero preferire agire o resistere in giudizio.

Essa, pertanto, produrrebbe effetti opposti rispetto alla suddetta finalità deflattiva e al contempo comporterebbe maggiori oneri per la finanza pubblica, poiché lo Stato, in conseguenza della instaurazione del giudizio, dovrebbe sopportare le spese sia per la mediazione, sia per il successivo processo.

Rileva poi il rimettente che le norme censurate, non tenendo conto delle condizioni economiche dei non abbienti, ne limiterebbero di fatto l’uguaglianza nell’accesso alla mediazione e comprimerebbero l’effettività del loro diritto di difesa. Sotto quest’ultimo aspetto osserva altresì che i non abbienti, non essendo in grado di sostenere le spese per l’attività difensiva, potrebbero finanche essere indotti a rinunciare del tutto a far valere le proprie ragioni oppure a concludere l’accordo conciliativo a condizioni più onerose di quelle che avrebbero ottenuto ove dette spese fossero state poste a carico dello Stato.

Per le ragioni ora esposte, infine, le disposizioni denunciate determinerebbero anche un’ingiustificata disparità di trattamento tra abbienti e non abbienti.

Alla luce delle considerazioni che precedono, risulterebbero in definitiva lesi, secondo il Tribunale di Oristano, gli artt. 3 e 24, terzo comma, Cost.

1.2.2.– Sotto un diverso profilo, peraltro, le disposizioni censurate sarebbero generatrici di un’irragionevole disparità anche all’interno della stessa categoria dei non abbienti, a seconda che questi siano o meno parti di una controversia transfrontaliera.

Soltanto in relazione a tali controversie, infatti, l’art. 10 del decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 116 (Attuazione della direttiva 2003/8/CE intesa a migliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie transfrontaliere attraverso la definizione di norme minime comuni relative al patrocinio a spese dello Stato in tali controversie), estende il patrocinio a spese dello Stato anche ai procedimenti stragiudiziali, qualora, per quanto qui interessa, questi siano obbligatori. Siffatta disposizione, tuttavia, risponderebbe all’esigenza, comune alle controversie domestiche, di garantire l’effettività del diritto di difesa, sicché la sola natura transfrontaliera delle liti non costituirebbe un elemento idoneo a differenziare ragionevolmente i non abbienti che non ne siano parte.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili.

2.1.– Il giudice a quo, infatti, non avrebbe adeguatamente motivato l’asserita impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata.

Interpretazione, questa, che sarebbe invece praticabile alla luce dell’art. 75, comma 1, t.u. spese di giustizia, che contempla il patrocinio a spese dello Stato anche per le procedure «connesse» al processo, quale dovrebbe ritenersi il procedimento di mediazione pure se concluso con successo.

La prospettata soluzione ermeneutica sarebbe del resto conforme ai principi costituzionali perché, tra l’altro: a) risulterebbe coerente con la necessità di individuare un punto di equilibrio tra la garanzia del diritto di difesa e l’esigenza di contenimento della spesa pubblica, comportando minori costi per lo Stato, il quale dovrebbe infatti sostenere soltanto le spese connesse alla mediazione e non anche quelle inerenti al successivo giudizio; b) risponderebbe alla necessità che l’introduzione di forme di giurisdizione condizionata non renda eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto di difesa; c) sarebbe in armonia con lo scopo deflattivo della mediazione.

Osserva, infine, l’Avvocatura generale che tale interpretazione troverebbe conforto nell’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’attività difensiva funzionale al successivo esercizio dell’azione giudiziaria dovrebbe considerarsi giudiziale ai fini della liquidazione del compenso a carico dello Stato (è citata, tra le altre, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 19 aprile 2013, n. 9529).

Né tale conclusione sarebbe smentita dalla sentenza (è citata Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 31 agosto 2020, n. 18123) con la quale i giudici di legittimità hanno disatteso il ricorso avverso la statuizione di rigetto della domanda di liquidazione per l’attività difensiva svolta nella fase della mediazione obbligatoria: si tratterebbe, infatti, di una decisione inerente a una fattispecie «non del tutto sovrapponibile a quella in esame».

3.– Con successiva ordinanza del 17 marzo 2021 (reg. ord. n. 115 del 2021), il Tribunale ordinario di Palermo ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, terzo comma, e 36, primo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale degli artt. 74, comma 2, e 75, comma 1, t.u. spese di giustizia, nella parte in cui non prevedono che il patrocinio a spese dello Stato sia assicurato anche per l’attività difensiva espletata nel corso del procedimento di mediazione obbligatoria di cui all’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, quando il processo non viene poi introdotto per intervenuta conciliazione fra le parti.

3.1.– Riferisce il rimettente di essere investito dell’istanza di liquidazione del compenso avanzata – in relazione alle prestazioni rese nell’ambito di un procedimento di mediazione obbligatoria concluso con un accordo conciliativo – dal difensore di G. D.B. e V. C., nella qualità di esercenti la potestà genitoriale sul minore A. D.B., ammessi al patrocinio a spese dello Stato dal Consiglio dell’ordine degli avvocati.

3.2.– La suddetta istanza non potrebbe, secondo il giudice a quo, trovare accoglimento alla luce del tenore letterale delle norme denunciate e della menzionata sentenza della Corte di cassazione n. 18123 del 2020, nella quale i giudici di legittimità avrebbero affermato che gli artt. 74 e 75 t.u. spese di giustizia escludono dal novero delle attività difensive suscettibili di liquidazione a carico dello Stato quelle svolte nel corso della mediazione non seguita dalla instaurazione del giudizio, precisando poi che tale limitazione non potrebbe essere superata in via interpretativa.

3.2.1.– Su tale premessa, il giudice palermitano ritiene che i citati artt. 74, comma 2, e 75, comma 1, t.u. spese di giustizia ledano, innanzitutto, gli artt. 3 e 24 Cost.

Considerato il favor legislativo per la soluzione stragiudiziale delle controversie, sarebbe del tutto irragionevole precludere l’accesso al patrocinio a spese dello Stato quando la controversia è stata definita in sede di mediazione obbligatoria e consentirlo invece in caso di esito infruttuoso della mediazione stessa, con la conseguente necessità di instaurare il processo.

Le norme denunciate, d’altro canto, minerebbero la funzione deflattiva della mediazione, che sarebbe infatti destinata ad essere affrontata dai difensori «come una mera formalità prodromica all’instaurazione» del giudizio, giacché solo in questa sede essi otterrebbero la liquidazione del compenso a spese dello Stato. Ciò che, peraltro, comporterebbe una lievitazione degli oneri a carico dell’erario, i quali, anziché essere limitati alle spese difensive per la mediazione stessa, sarebbero aggravati dai costi connessi allo svolgimento del processo.

A parere del rimettente, sarebbe vulnerato anche il diritto di agire in giudizio e, con esso, il principio di uguaglianza sostanziale. Il rischio di dover sopportare le spese difensive per il procedimento di mediazione obbligatoria, infatti, risulterebbe «disincentivante (e perciò pregiudizievole nella prospettiva della piena realizzazione del diritto di difesa presidiato anche dall’istituto del patrocinio a spese dello Stato)» per i non abbienti e lederebbe, pertanto, il loro diritto di accedere alla tutela giurisdizionale in condizioni di uguaglianza rispetto a quanti dispongono di mezzi economici adeguati.

3.2.2.– Secondo il Tribunale di Palermo, l’art. 3 Cost. sarebbe altresì violato in riferimento al principio di uguaglianza formale, sotto un duplice aspetto.

Le disposizioni censurate darebbero luogo a una ingiustificata disparità di trattamento, sia tra i non abbienti, in relazione alla disciplina riservata dal citato art. 10 del d.lgs. n. 116 del 2005 alla mediazione obbligatoria concernente le controversie transfrontaliere, sia tra i difensori dei non abbienti, i quali, pur avendo effettuato prestazioni identiche in sede di mediazione, riceverebbero, «sul piano del compenso» dovuto loro per tali attività, un trattamento differenziato a seconda del raggiungimento o meno dell’accordo.

3.2.3.– Il rimettente dubita, infine, della compatibilità delle disposizioni denunciate con l’art. 36, primo comma, Cost., che sarebbe leso in quanto, per effetto della preclusione da esse derivante, i difensori presterebbero «attività lavorativa obbligatoria gratuitamente».

4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità delle questioni sollevate.

Ritiene la difesa dello Stato, sulla scorta di argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle addotte in relazione all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Oristano, che neanche il Tribunale di Palermo abbia compiutamente motivato in merito all’impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme.

4.1.– La dedotta violazione dell’art. 36, primo comma, Cost. sarebbe inoltre insussistente, in quanto l’assunzione della difesa della parte ammessa al patrocinio non sarebbe obbligatoria e, comunque, perché la relativa attività sarebbe svolta dall’avvocato solo occasionalmente.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza dell’8 luglio 2020 (reg. ord. n. 188 del 2020), il Tribunale ordinario di Oristano dubita della legittimità costituzionale degli artt. 74, comma 2, e 83, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», i quali, rispettivamente, dispongono che è «assicurato il patrocinio nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate» e, per quanto qui rileva, che la liquidazione del compenso spettante al difensore della parte non abbiente «è effettuata al termine di ciascuna fase o grado del processo e, comunque, all’atto della cessazione dell’incarico, dall’autorità giudiziaria che ha proceduto».

2.– La prima disposizione è censurata nella parte in cui non prevede che il patrocinio a spese dello Stato in favore dei non abbienti sia assicurato anche in relazione all’attività difensiva svolta nell’ambito della mediazione obbligatoria di cui all’art. 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali), quando il successivo giudizio non viene instaurato per l’intervenuta conciliazione delle parti. La seconda è denunciata laddove non prevede che, in tali fattispecie, alla liquidazione del compenso spettante al difensore provveda il giudice che sarebbe stato competente a conoscere della causa.

2.1.– Sul presupposto che le norme sospettate non consentano di liquidare tale compenso indipendentemente dalla instaurazione del giudizio – e quindi nel caso in cui la mediazione obbligatoria si sia conclusa con successo, in virtù del raggiungimento dell’accordo conciliativo – e che non siano suscettibili di una interpretazione costituzionalmente conforme, il rimettente sostiene che tale preclusione violerebbe, sotto plurimi profili, gli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione.

Il dedotto contrasto sarebbe apprezzabile, innanzitutto, in considerazione del fatto che il procedimento di mediazione è escluso dalla sfera di applicabilità del patrocinio a spese dello Stato benché sia imposto, in determinate materie, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Sarebbe quindi irragionevole che la liquidazione del compenso sia impedita proprio dall’evento che evita la celebrazione del processo e realizza la finalità deflattiva perseguita dal legislatore con l’introduzione della mediazione obbligatoria.

Altro profilo di irragionevolezza risiederebbe nel rilievo che i non abbienti, anziché conciliare, potrebbero essere indotti a privilegiare la scelta di agire o resistere in giudizio, per vedersi riconosciute in questa sede le spese difensive; ciò che finirebbe per frustrare la suddetta finalità e comporterebbe maggiori oneri per lo Stato.

D’altra parte, le norme censurate, non prevedendo il patrocinio nonostante l’obbligatorietà della mediazione al fine di accedere al giudizio e potendo finanche indurre i non abbienti a rinunciare a far valere le proprie ragioni, minerebbero l’effettività del loro diritto di difesa, ledendo altresì il principio di uguaglianza sia in senso sostanziale che in senso formale, tra abbienti e non abbienti.

Il principio di parità sarebbe compromesso anche all’interno della stessa categoria dei non abbienti, poiché l’art. 10 del decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 116 (Attuazione della direttiva 2003/8/CE intesa a migliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie transfrontaliere attraverso la definizione di norme minime comuni relative al patrocinio a spese dello Stato in tali controversie), ingiustificatamente li ammetterebbe a fruire del patrocinio a spese dello Stato in relazione ai procedimenti stragiudiziali obbligatori solo ove, tuttavia, questi siano inerenti a una controversia transfrontaliera.

3.– Con successiva ordinanza del 17 marzo 2021 (reg. ord. n. 115 del 2021), il Tribunale ordinario di Palermo dubita della legittimità costituzionale del già denunciato art. 74, comma 2, nonché dell’art. 75, comma 1, t.u. spese di giustizia, nella parte in cui non prevedono che il patrocinio a spese dello Stato sia assicurato anche per l’attività difensiva espletata nel corso del procedimento di mediazione obbligatoria di cui all’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010 quando il processo non viene poi introdotto per intervenuta conciliazione fra le parti.

Il suddetto art. 75, comma 1, dispone che l’ammissione al patrocinio «è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse».

3.1.– Anche il giudice palermitano esclude la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate, il cui tenore testuale precluderebbe, nella lettura della giurisprudenza di legittimità, la liquidazione del compenso al difensore allorquando al procedimento di mediazione non abbia fatto seguito l’instaurazione del giudizio.

Su questo assunto, egli ritiene che le suddette norme violino, innanzitutto, gli artt. 3 e 24, terzo comma, Cost.

Sarebbe, infatti, contrario al canone della ragionevolezza consentire l’accesso al patrocinio a spese dello Stato in caso di esito infruttuoso della mediazione obbligatoria, con la conseguente introduzione del processo, ed escluderlo invece proprio quando la mediazione stessa ha raggiunto il suo scopo; ciò che, peraltro, comprometterebbe la finalità deflattiva della procedura in parola e causerebbe un aggravio degli oneri a carico dell’erario, in quanto la mediazione sarebbe destinata ad essere affrontata dai difensori dei non abbienti «come una mera formalità prodromica all’instaurazione» del giudizio.

Ritiene, inoltre, il rimettente, sulla scorta di argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle spese dal Tribunale di Oristano, che le norme denunciate rechino un vulnus al diritto di agire in giudizio dei non abbienti e al principio di uguaglianza sostanziale.

L’art. 3 Cost. sarebbe leso anche sul versante della uguaglianza formale, per la ingiustificata disparità che le disposizioni censurate determinerebbero, non soltanto all’interno della stessa categoria dei non abbienti, a seconda che essi siano o meno parte di una controversia transfrontaliera, ma anche tra difensori, i quali, pur avendo effettuato prestazioni identiche nel corso del procedimento di mediazione, avrebbero diritto al compenso a carico dello Stato solo in caso mancato raggiungimento dell’accordo.

A tale ultimo rilievo è, infine, connesso il lamentato contrasto con l’art. 36, primo comma, Cost., che sarebbe violato in quanto i difensori presterebbero «attività lavorativa obbligatoria gratuitamente».

4.– È intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità delle questioni per inadeguato esperimento del tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme.

Nel giudizio che trae origine dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Palermo, inoltre, la difesa dello Stato ha dedotto la non fondatezza della censura formulata in riferimento all’art. 36, primo comma, Cost.

5.– Le questioni sollevate con le due ordinanze di rimessione sono basate su argomenti in larga parte sovrapponibili e sono comunque connesse, per la parziale coincidenza delle norme denunciate e dei parametri evocati.

I relativi giudizi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

6.– Preliminarmente, va rilevato che il giorno stesso della deliberazione della presente sentenza è stata definitivamente approvata la legge 26 novembre 2021, n. 206 (Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata), con la quale viene conferita al Governo una delega legislativa per quanto qui interessa recante, tra i principi e criteri direttivi, quello dell’estensione del patrocinio a spese dello Stato alle procedure di mediazione e di negoziazione assistita (art. 1, comma 4, lettera a).

Tale previsione non spiega, però, effetti negli odierni incidenti, dal momento che la sua entrata in vigore non vale a escludere l’applicazione delle disposizioni censurate.

7.– Ancora in via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale sulla scorta dell’asserita carenza di un’adeguata motivazione in ordine all’impossibilità di interpretare le norme denunciate secundum Constitutionem.

I rimettenti, infatti, hanno escluso la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice alla luce del dato letterale e per ragioni sistematiche, non mancando di confrontarsi con la posizione della giurisprudenza di legittimità.

Da tanto consegue il rigetto dell’eccezione in esame, giacché attiene al merito, e non all’ammissibilità delle questioni, la condivisione o meno del presupposto interpretativo delle norme censurate (ex plurimis, sentenze n. 150 del 2021 e n. 230 del 2020).

8.– Presupposto esegetico che, venendo appunto al merito, questa Corte ritiene condivisibile.

Esso è, infatti, innanzitutto coerente con il tenore testuale delle disposizioni denunciate.

L’art. 74, comma 2, t.u. spese di giustizia, invero, assicura ai non abbienti il beneficio in discussione facendo esclusivo riferimento al «processo». Nella medesima direzione, l’art. 75, comma 1, del citato testo unico delimita poi l’ambito di validità dell’ammissione al patrocinio a ogni grado e fase «del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse» al processo stesso, di cui, pertanto, presuppone l’introduzione. Il successivo art. 83, comma 2, infine, nel suo primo periodo attribuisce la competenza a provvedere in ordine alla liquidazione del compenso all’autorità giudiziaria «che ha proceduto», in tal modo ribadendo, senza possibilità di equivoco, l’esigenza dell’instaurazione di un giudizio di cui l’autorità giudiziaria sia stata, per l’appunto, investita.

Il patrocinio a spese dello Stato è stato quindi contemplato dalle norme censurate in chiave eminentemente processuale: ciò che trova ulteriore conferma nella circostanza che lo stesso legislatore, con la legge delega innanzi citata, ha avvertito l’esigenza di introdurre specifiche disposizioni volte espressamente a estenderlo, a prescindere dal loro esito, anche alle procedure di mediazione.

Va peraltro precisato che la sentenza richiamata dall’Avvocatura generale a sostegno della possibilità di un’interpretazione conforme (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 19 aprile 2013, n. 9529), in realtà, non ha riguardato segnatamente le norme oggetto dell’odierno scrutinio e che invece l’assunto dei rimettenti si pone in linea con l’orientamento recentemente espresso dai giudici di legittimità con specifico riferimento al tema che viene qui considerato. Nella sentenza 31 agosto 2020, n. 18123, infatti, la seconda sezione civile della Corte di cassazione ha affermato che l’art. 74 t.u. spese di giustizia «postula l’intervenuto avvio della lite giudiziale», poiché «limita l’operatività del patrocinio a spese dello Stato all’ambito del procedimento […] civile»; ha poi espressamente precisato che siffatto limite non può essere superato in via interpretativa, pena lo sconfinare «nella produzione normativa», e ha quindi concluso che correttamente il giudice di merito aveva «ritenuto non liquidabile compenso al difensore per la fase della mediazione, cui non e` seguita la proposizione della lite».

8.1.– È dunque alla stregua del presupposto ermeneutico da cui muovono i giudici a quibus che le questioni sollevate dai rimettenti devono essere vagliate, innanzitutto considerando, quanto al tessuto normativo sul quale esse si innestano, che la mediazione civile obbligatoria è stata introdotta dall’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010 con un evidente intento deflattivo del contenzioso (sentenza n. 97 del 2019) ed è strutturata quale condizione di procedibilità delle domande giudiziali.

La parte che intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie ivi specificamente individuate è, infatti, «tenut[a], assistit[a] dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione», al fine di tentarne la composizione stragiudiziale.

Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria. Esso, di conseguenza, condiziona, in determinate materie, l’esercizio del diritto di azione.

È, in definitiva, sull’esclusione del patrocinio a carico dello Stato in ordine a tale procedimento, qualora questo si concluda con esito positivo, precludendo quindi l’introduzione del processo, che si sviluppano le questioni di costituzionalità sollevate dai rimettenti sugli artt. 74, comma 2, 75, comma 1, e 83, comma 2, t.u. spese di giustizia.

9.– Esse sono fondate in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, in relazione, rispettivamente, al principio di ragionevolezza e a quello di eguaglianza sostanziale, e 24, terzo comma, Cost.

9.1.– Quanto al canone della ragionevolezza, va evidenziato che il nesso di strumentalità necessaria con il processo e la riconducibilità della mediazione alle forme di giurisdizione condizionata aventi finalità deflattive costituiscono elementi che rendono del tutto distonica e priva di alcuna ragionevole giustificazione l’esclusione del patrocinio a spese dello Stato quando la medesima mediazione si sia conclusa con successo e non sia stata in concreto seguita dalla proposizione giudiziale della domanda.

In tal modo, infatti, il suddetto patrocinio risulta contraddittoriamente escluso proprio nei casi in cui il procedimento de quo ha raggiunto – in ipotesi anche grazie all’impegno dei difensori – lo scopo deflattivo prefissato dal legislatore.

Pertanto, la circostanza che, in virtù del suo esito positivo, alla mediazione obbligatoria non abbia fatto seguito l’instaurazione del giudizio, lungi dal costituire un coerente fondamento della denunciata preclusione, al contrario concorre a disvelarne la palese irrazionalità, peraltro traducendosi anche in una sorta di disincentivo verso quella cultura della mediazione che il legislatore stesso si è fatto carico di promuovere.

Nel descritto contesto, infatti, non implausibilmente i rimettenti rilevano che proprio per effetto dell’esclusione censurata i non abbienti e i loro difensori potrebbero essere indotti a non raggiungere l’accordo e ad adire quindi comunque il giudice, all’unico scopo di ottenere, una volta introdotto il processo, le relative spese difensive.

Tale evenienza porterebbe nocumento non solo alla funzione della mediazione, vanificandone le finalità deflattive, ma anche a quella della giurisdizione che, a dispetto della sua natura sussidiaria rispetto alla mediazione stessa, finirebbe per essere strumentalizzata per obiettivi diversi dallo ius dicere, ciò che determinerebbe ulteriori irragionevoli ricadute di sistema per il sicuro aumento degli oneri a carico dello Stato, chiamato a sostenere anche i costi dello svolgimento del giudizio.

Gli argomenti che precedono rivelano quindi la manifesta irragionevolezza delle disposizioni censurate, peraltro ben precedenti l’introduzione, nell’ordinamento, della disciplina della mediazione obbligatoria e mai coordinate con essa.

9.2.– Parimenti fondate sono le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 24, terzo comma, Cost.

Quest’ultima disposizione, infatti, prevedendo che «[s]ono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione», mira a garantire a coloro che non sono in grado di sopportare il costo di un processo «l’effettività del diritto ad agire e a difendersi in giudizio, che il secondo comma del medesimo art. 24 Cost. espressamente qualifica come diritto inviolabile (sentenze n. 80 del 2020, n. 178 del 2017, n. 101 del 2012 e n. 139 del 2010; ordinanza n. 458 del 2002)» (da ultimo, sentenza n. 157 del 2021).

In questi termini, tali diritti, che rientrano tra i diritti civili, inviolabili e caratterizzanti lo Stato di diritto, richiamano il compito assegnato alla Repubblica dall’art. 3, secondo comma, Cost. affinché siano predisposti i mezzi necessari per garantire ai non abbienti le giuste chances di successo nelle liti, rimediando a un problema di asimmetrie – derivante dagli ostacoli di ordine economico che impediscono «di fatto» di compensare il difensore – che non può trovare soluzione nell’ambito dell’eguaglianza solo formale.

In questa prospettiva va precisato che la questione, sottolineata da questa Corte, della individuazione di un «punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia» (sentenza n. 16 del 2018) rileva quando si tratti di giustificare modulazioni che si concretizzano, ad esempio, in filtri o controlli, come quelli previsti per i processi diversi da quello penale, nei quali il riconoscimento del beneficio in discorso presuppone che le ragioni di chi agisce o resiste in giudizio risultino non manifestamente infondate (sentenza n. 47 del 2020).

Ben diversi si presentano, invece, i termini della questione quando una determinata scelta legislativa giunge sino a impedire a chi versa in una condizione di non abbienza «l’effettività dell’accesso alla giustizia, con conseguente sacrificio del nucleo intangibile del diritto alla tutela giurisdizionale» (sentenza n. 157 del 2021).

In tal caso, infatti, sono nitidamente in gioco il «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, secondo comma, Cost.) e l’intero impianto dell’inviolabile diritto al processo di cui ai primi due commi dell’art. 24 Cost.: è quindi «naturalmente ridotto» il margine di discrezionalità del legislatore – pur, di per sé, particolarmente ampio nella conformazione degli istituti processuali (ex plurimis, sentenza n. 102 del 2021) – poiché si tratta comunque «di spese costituzionalmente necessarie», anch’esse inerenti, in senso lato, «all’erogazione di prestazioni sociali incomprimibili (ex plurimis, sentenze n. 62 del 2020, n. 275 e n. 10 del 2016)» (sentenza n. 152 del 2020).

In siffatte ipotesi l’argomento dell’equilibrio di bilancio recede di fronte alla possibilità, per il legislatore, di intervenire, se del caso, a ridurre quelle spese che non rivestono il medesimo carattere di priorità: è anche in tal senso che questa Corte ha affermato che «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (sentenza n. 169 del 2017; in precedenza, sentenza n. 275 del 2016).

9.2.1.– I principi appena enunciati rilevano nelle odierne questioni, poiché, data l’espressa previsione dell’assistenza dell’avvocato in sede di mediazione obbligatoria (art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010), è evidente che privare i non abbienti del patrocinio a spese dello Stato significa destinarli di fatto, precludendo loro la possibilità della difesa tecnica, a subire l’asimmetria rispetto alla controparte abbiente in relazione a un procedimento che, come si è chiarito, in determinate materie è direttamente imposto dalla legge e rientra nell’esercizio della funzione giudiziaria giacché condiziona l’esercizio del diritto di azione.

Il non abbiente è, peraltro, addirittura esposto al grave rischio di improcedibilità della sua domanda, qualora l’assistenza tecnica sia ritenuta non solo possibile ma anche obbligatoria dal giudice, in conformità a quanto affermato, con riferimento alla mediazione di cui si discute, dalla Corte di cassazione (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 27 marzo 2019, n. 8473) – sia pure nell’esaminare funditus solo lo specifico tema della necessaria presenza personale della parte dinanzi al mediatore – e nella circolare del Ministero della giustizia 27 novembre 2013 (Entrata in vigore dell’art. 84 del d.l. 69/2013 come convertito dalla l. 98/2013 recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, che modifica il d.lgs. 28/2010. Primi chiarimenti).

Non è poi marginale aggiungere che la mediazione presuppone, in ogni caso, sin dalla sua attivazione il possesso di specifiche cognizioni tecniche di cui la parte non abbiente potrebbe essere priva: la relativa istanza richiede, infatti, l’individuazione sia del giudice territorialmente competente a conoscere della controversia, dovendo essere depositata presso un organismo che ha appunto sede nel luogo di tale giudice, sia delle parti, nonché dell’oggetto e delle ragioni della pretesa (art. 4, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 28 del 2010).

L’assenza di difesa tecnica nel procedimento di mediazione può, infine, riflettersi anche sotto ulteriori punti di vista sull’esito del successivo processo, ove si consideri che in caso di rifiuto della proposta conciliativa, se la successiva decisione giudiziale dovesse corrispondere al contenuto della proposta medesima, il giudice potrà escludere la ripetizione delle spese della parte vincitrice che ha opposto il rifiuto e condannarla al pagamento delle spese processuali della controparte, oltre che al versamento di una somma corrispondente all’importo del contributo unificato (art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010).

È in definitiva evidente il radicale vulnus arrecato dalle norme censurate al diritto di difendersi dei non abbienti in un procedimento che, per un verso, è imposto ex lege in specifiche materie e che, per l’altro, è strumentale al giudizio al punto da condizionare l’esercizio del diritto di azione e il relativo esito.

10.– Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 74, comma 2, e 75, comma 1, t.u. spese di giustizia, nella parte in cui non prevedono che il patrocinio a spese dello Stato sia applicabile anche all’attività difensiva svolta nell’ambito dei procedimenti di mediazione di cui all’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, quando nel corso degli stessi è stato raggiunto un accordo, nonché del successivo art. 83, comma 2, del medesimo testo unico sulle spese di giustizia, nella parte in cui non prevede che, in tali ipotesi, alla liquidazione in favore del difensore provveda l’autorità giudiziaria che sarebbe stata competente a decidere la controversia.

11.– Rimane ferma, ovviamente, la facoltà del legislatore di valutare, nella sua discrezionalità, eventualmente anche in sede di attuazione della legge delega prima richiamata, l’opportunità di introdurre, nel rispetto dei suddetti principi costituzionali, una più compiuta e specifica disciplina della fattispecie oggetto dell’odierno scrutinio.

12.– Restano assorbite le ulteriori censure prospettate dai rimettenti.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 74, comma 2, e 75, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», nella parte in cui non prevedono che il patrocinio a spese dello Stato sia applicabile anche all’attività difensiva svolta nell’ambito dei procedimenti di mediazione di cui all’art. 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali), quando nel corso degli stessi è stato raggiunto un accordo, nonché dell’art. 83, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui non prevede che, in tali fattispecie, alla liquidazione in favore del difensore provveda l’autorità giudiziaria che sarebbe stata competente a decidere la controversia.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 novembre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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Vigile attesa. Il Consiglio di Stato smentisce il Tar

19/01/2022 – Consiglio di Stato Sezione Terza

ANNULLA SEZIONE TERZA DEL TAR LAZIO N. 419 PUBBLICATA IL 15/01/2022

IL PUNTO

La sospensione della circolare, lungi da far “riappropriare” i MMG della loro funzione e delle loro inattaccabili e inattaccate prerogative di scelta terapeutica (che l’atto non intacca) determinerebbe semmai il venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, e che i MMG ben potranno, nello spirito costruttivo della circolazione e diffusione delle informazioni scientifico-mediche, considerare come raccomandabili, salvo scelte che motivatamente, appunto in scienza e coscienza, vogliano effettuare, sotto la propria responsabilità (come è la regola), in casi in cui la raccomandazione non sia ritenuta la via ottimale per la cura del paziente

Il Consiglio di Stato con la sentenza della sez. III, dec., 19 gennaio 2022, n. 207 ha immediatamente sospeso la decisione della sezione terza del  Tar Lazio n. 419  pubblicata  il 15/01/2022 che annullò  la  Circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” affermando che la stessa contrastasse  con la deontologia del medico  e “ con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid19 come avviene per ogni attività terapeutica”.

Il Tar, si ricorda, ritenne vincolante ai fini delle scelte terapeutiche dei medici di medicina generale le raccomandazioni della circolare  per la cura domiciliare dei pazienti Covid. Tra le altre raccomandazioni  la Circolare del Ministero della Salute, poneva l’attenzione nei casi lievi del rischio per il paziente sull’uso routinario di alcuni farmaci ritenuti completamente inappropriati nella gestione dei casi lievi come: corticosteroidi, eparina, antibiotici,  idrossiclorochina e benzodiazepine ad alto dosaggio. Indicava anche quando farmaci molto costosi potessero essere utilizzati in modo appropriato indicando, in particolare, le regole prescrittive per gli anticorpi monoclonali.

La decisione del Consiglio di Stato riporta chiarezza sul confine tra prescrizione a carico del servizio sanitario nazionale e libertà prescrittiva del medico.

Non tutti i farmaci possono essere erogati gratuitamente ma solo quelli che lo Stato rende idonei per una serie di patologie. Fuori da queste regole il medico ha a disposizione la c.d “ricetta bianca” in solvenza del paziente.  

L’art. 13 del codice di deontologia medica, infatti,  gli permette di prescrivere secondo scienza e coscienza la prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione è una diretta, specifica, esclusiva e non delegabile competenza del medico, impegna la sua autonomia e responsabilità e deve far seguito a una diagnosi circostanziata o a un fondato sospetto diagnostico. La prescrizione però deve fondarsi sulle evidenze scientifiche disponibili, sull’uso ottimale delle risorse e sul rispetto dei principi di efficacia clinica, di sicurezza e di appropriatezza in particolare quando i farmaci sono prescritti “off label”  cioè al di fuori delle indicazioni cliniche per le quali il farmaco è stato registrato.

a cura Avv. Paola Maddalena Ferrari

IL TESTO DEL DECRETO

sul ricorso numero di registro generale 411 del 2022, proposto dal Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

-OMISSIS-, non costituiti in giudizio;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. –, resa tra le parti, concernente le linee guida per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-Cov-2 (Covid-19);

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista l’istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.;

Considerato che la sintetica motivazione della sentenza appellata afferma la natura vincolante, ai fini delle scelte terapeutiche dei medici di medicina generale, per la cura domiciliare dei pazienti Covid, della circolare ministeriale;

Ritenuto che, in questa sede di delibazione sommaria, laddove non emerge una puntuale motivazione circa il carattere vincolante censurato, appare invece:

– che il documento contiene, spesso con testuali affermazioni, “raccomandazioni” e non “prescrizioni”, cioè indica comportamenti che secondo la vasta letteratura scientifica ivi allegata in bibliografia, sembrano rappresentare le migliori pratiche, pur con l’ammissione della continua evoluzione in atto;

 che di conseguenza non emerge alcun vincolo circa l’esercizio del diritto-dovere del MMG di scegliere in scienza e coscienza la terapia migliore, laddove i dati contenuti nella circolare sono semmai parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello anche internazionale;

– che, dunque, la sospensione della circolare, lungi da far “riappropriare” i MMG della loro funzione e delle loro inattaccabili e inattaccate prerogative di scelta terapeutica (che l’atto non intacca) determinerebbe semmai il venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, e che i MMG ben potranno, nello spirito costruttivo della circolazione e diffusione delle informazioni scientifico-mediche, considerare come raccomandabili, salvo scelte che motivatamente, appunto in scienza e coscienza, vogliano effettuare, sotto la propria responsabilità (come è la regola), in casi in cui la raccomandazione non sia ritenuta la via ottimale per la cura del paziente;

P.Q.M.

accoglie l’istanza e, per l’effetto, sospende l’esecutività della sentenza appellata fino alla discussione collegiale che fissa alla camera di consiglio del 3 febbraio 2022.

Il presente decreto sarà eseguito dall’Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti appellate.

Così deciso in Roma il giorno 19 gennaio 2022Edit

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Parafarmacie escluse dai tamponi antigenici. Il Tar Marche invia alla Corte Costituzionale

Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche – Sezione prima – Sentenza 11/01/2022 n. 7

Consiglio di Stato Sezione terza n. 7294/2021

LA MASSIMA

La limitazione in parola si pone anche in conflitto logico con la ratio sottesa alla normativa emergenziale, ossia quella di incrementare il numero dei tamponi. Al riguardo va infatti osservato che, rispetto all’esigenza in parola, non vengono in rilievo i profili valorizzati dalla CGUE nella sentenza Venturini e altri, perché la decisione dei cittadini di eseguire i tamponi in questione non discende necessariamente dall’insorgenza di sintomi della malattia, ma anche dal principio di precauzione (è noto, ad esempio, che nell’estate 2021 molti italiani si sono sottoposti al tampone prima di intraprendere viaggi all’estero o di partecipare a cerimonie religiose, a feste, etc., e questo anche in assenza di sintomi e anche nei casi in cui ciò non fosse imposto da alcuna norma o provvedimento amministrativo). Ne consegue che, in quest’ottica, la presenza (soprattutto all’interno dei centri commerciali) di una parafarmacia in cui fosse stato possibile effettuare il test avrebbe aumentato lo screening di massa, senza peraltro incidere sul tradizionale bacino di utenza delle farmacie.

IL TESTO

1. I ricorrenti persone fisiche sono titolari di c.d. parafarmacie ubicate nel territorio marchigiano, i quali, spalleggiati da tre associazioni di categoria (Movimento Nazionale Liberi Farmacisti, Federazione Nazionale Parafarmacie Italiane – FNPI – e Unione Nazionale dei Farmacisti Titolari di Sola Parafarmacia – UNAFTISP) impugnano la deliberazione della Giunta Regionale delle Marche n. 663 del 24 maggio 2021, successivamente conosciuta, avente ad oggetto l’annullamento in autotutela della precedente D.G.R. n. 465 del 19 aprile 2021 (concernente: “schema di accordo tra la Regione Marche ed esercizi commerciali ex art. 5, D.L. n. 223/2006, convertito con modificazioni dalla L. n. 248/2006 (c.d. Parafarmacie) per effettuare test rapidi basati sulla ricerca dell’antigene e i test diagnostici rapidi per la ricerca di anticorpi anti SARS-CoV-2”), nonché tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenti indicati in epigrafe.

I ricorrenti titolari delle parafarmacie chiedono altresì la condanna della Regione al risarcimento dei danni subiti per effetto del provvedimento di autotutela impugnato e, al riguardo, in data 4 novembre 2021 hanno depositato perizie di parte da cui emerge il danno asseritamente subito da ciascuno di essi.

2. In punto di fatto, nel ricorso si espone quanto segue.

2.1. Come detto, i ricorrenti persone fisiche sono tutti farmacisti titolari di parafarmacie ubicate nel territorio regionale, i quali, per il tramite delle associazioni di categoria (fra cui le tre che ricorrono nel presente giudizio), hanno aderito all’accordo approvato con la summenzionata D.G.R. n. 465/2021, avente ad oggetto “Schema di accordo tra la Regione Marche ed esercizi commerciali ex art. 5, D.L. n. 223/2006, convertito con modificazioni dalla L. n. 248/2006 (c.d. Parafarmacie) per effettuare test rapidi basati sulla ricerca dell’antigene e i test diagnostici rapidi per la ricerca di anticorpi anti SARS-CoV-2”.

E’ noto che le c.d. parafarmacie, istituite dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248, sono nate per incrementare l’offerta del servizio farmaceutico in favore dell’utenza e per aumentare il tasso di concorrenza all’interno del mercato di riferimento. Dal punto di vista tecnico è inoltre importante sottolineare che:

– ai sensi dell’art. 5, comma 2, del D.L. n. 223/2006, in ciascuna parafarmacia debbono essere presenti uno o più farmacisti abilitati;

– ai sensi dell’art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 502/1992 e s.m.i., le Regioni stipulano con le associazioni di farmacisti maggiormente rappresentative accordi volti, tra l’altro, ad individuare “…modalità differenziate di erogazione delle prestazioni”.

2.2. In ragione dell’evoluzione della nota emergenza sanitaria e della impellente necessità di svolgere screening di massa, la Regione Marche, con D.G.R. n. 1547 del 1° dicembre 2020, aveva approvato l’accordo con le OO.SS. rappresentative delle farmacie convenzionate – Federfarma Marche per le farmacie private e Confservizi Assofarm Marche per le farmacie pubbliche – finalizzato all’effettuazione dei test diagnostici sierologici rapidi per la ricerca degli anticorpi per il virus SARS-CoV-2.

Successivamente, è stato sottoscritto tra la Regione Marche, Federfarma Marche e Confservizi Assofarm Marche l’accordo per l’effettuazione di tamponi antigenici rapidi in farmacia, approvato con D.G.R. n. 145 del 15 febbraio 2021. Con successiva D.G.R. n. 146/2021 è stato ampliato il novero delle strutture che possono somministrare il test antigenico rapido (laboratori, strutture e professionisti privati accreditati dalla Regione Marche, ai sensi della L.R. n. 21/2016, come previsto dalla circolare del Ministero della Salute n. 705 dell’8 gennaio 2021, recante “Aggiornamento della definizione di caso COVID-19 e strategie di testing”).

In considerazione dell’andamento della curva pandemica e della necessità di implementare ulteriormente le misure di prevenzione, la Regione ha inteso potenziare i servizi di screening e, a seguito dell’approvazione disposta con D.G.R. n. 465/2021, in data 22 aprile 2021 la Giunta Regionale sottoscriveva con le associazioni più rappresentative delle parafarmacie delle Marche un accordo per l’effettuazione presso i locali delle medesime parafarmacie di test rapidi per la ricerca dell’antigene e i test diagnostici rapidi per la ricerca di anticorpi del virus SARS-CoV-2.

Le finalità dell’accordo, indicate nelle sue premesse, erano appunto quelle di:

– facilitare l’accesso dei cittadini alle prestazioni sanitarie, in quanto “…le parafarmacie propongono al cittadino – tramite approcci proattivi e innovativi – l’erogazione di servizi di assistenza sanitaria volti ad un fine ultimo di prevenzione in riferimento al virus SARS-CoV-2…”;

– aumentare l’efficienza e la capillarità delle attività di prevenzione, in quanto “…l’attuale curva epidemica dei casi di COVID-19 impone di dedicare particolare attenzione nell’adozione di ulteriori misure aggiuntive oltre a quelle già messe in atto, utili a contrastare la diffusione del virus SARS-CoV-2…”;

– mettere in atto un controllo più accurato dell’evoluzione della pandemia, aumentando “…il numero dei tamponi antigenici rapidi per la rilevazione di antigene SARS-CoV-2 grazie al coinvolgimento delle parafarmacie aperte al pubblico…”.

Erano quindi stabilite le modalità di adesione e gli obblighi delle parafarmacie, precisandosi al riguardo che allo svolgimento del test avrebbe dovuto presidiare un farmacista e che l’esito di ciascun tampone avrebbe dovuto essere comunicato all’amministrazione regionale ai fini dell’inserimento in un’apposita banca dati.

Nel documento istruttorio allegato alla D.G.R. n. 465/2021 si operano:

– uno specifico riferimento al D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, nella L. 5 marzo 2020, n. 13, il cui art. 2, poi abrogato dal D.L. 25 marzo 2020, n. 19, prevedeva che “…le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all’articolo 1, comma 1…”, concedendo in questo modo alle Regioni una sfera di autonomia d’azione ritenuta utile al fine di implementare a livello locale le misure adottate su scala nazionale;

– un riferimento al D.P.C.M. dell’11 marzo 2020, che ha esteso le misure sino a quel momento adottate a tutto il territorio nazionale, prevedendo la temporanea chiusura di una serie di attività, con esclusione di quelle ritenute essenziali, fra cui, appunto, le farmacie e le parafarmacie (art. 2, comma 1).

Nel contesto emergenziale, le parafarmacie sono dunque ritenute attività essenziali e peraltro esse avevano già da alcuni anni un rapporto convenzionale con la Regione Marche per la fornitura di alimenti a fini medici speciali.

L’accordo relativo allo svolgimento dei test rapidi per la ricerca dell’antigene e i test diagnostici rapidi per la ricerca di anticorpi anti SARS-CoV-2 costituisce ulteriore misura, ai sensi della normativa vigente, per il contenimento e la prevenzione della pandemia, dove riveste un ruolo fondamentale il tracciamento dei nuovi positivi.

La Regione Marche ha ritenuto dunque le parafarmacie strutture in grado di aumentare l’efficienza delle attività di prevenzione utili a contrastare la diffusione del virus.

2.3. A seguito della stipula dell’accordo, le parafarmacie, opportunamente istruite dalle associazioni di categoria firmatarie, si sono adeguate ai protocolli stabiliti, investendo notevoli risorse nell’acquisto dei test, dei dispositivi di protezione individuale, degli strumenti atti alla disinfezione degli oggetti e degli ambienti adibiti all’esecuzione dei test, nonché al fine di separare l’utenza che ha normale accesso ai locali di vendita da coloro che accedono all’esercizio per effettuare il test. In alcuni casi, quando i locali non permettevano tale suddivisione, sono stati acquistati gazebo per eseguire i test nelle zone adiacenti all’entrata degli esercizi.

2.4. Sennonché, nelle more dell’attuazione e della implementazione dell’accordo, Federfarma Marche, in data 26 aprile 2021, inviava formale diffida alla Giunta Regionale, chiedendo l’annullamento della D.G.R. n. 465/2021, di cui veniva assunta l’illegittimità per i seguenti profili:

– in primo luogo, perché sarebbe ostativo all’esecuzione di test rapidi presso le parafarmacie il disposto dell’art. 1, comma 418, della L. 30 dicembre 2020, n. 178, in cui si prevede che “I test mirati a rilevare la presenza di anticorpi IgG e IgM e i tamponi antigenici rapidi per la rilevazione di antigene SARS-CoV-2 possono essere eseguiti anche presso le farmacie aperte al pubblico dotate di spazi idonei sotto il profilo igienico-sanitario e atti a garantire la tutela della riservatezza”. Il legislatore avrebbe pertanto inteso riservare alle sole farmacie la possibilità di effettuare test mirati al monitoraggio del virus SARS-CoV-2;

– in secondo luogo, osterebbero all’effettuazione presso le parafarmacie dei suddetti test i principi di diritto affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 21 marzo 2017 n. 66, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della L.R. Piemonte 16 maggio 2016, n. 11, la quale abilitava gli esercizi commerciali (parafarmacie) ad eseguire “…prestazioni analitiche di prima istanza…” (a cui sarebbero ascrivibili, secondo Federfarma, i test oggetto del presente accordo), perché in conflitto con la legislazione statale che permetterebbe alle parafarmacie solo la vendita di talune ristrette categorie di medicinali;

– in terzo luogo, perché i principi stabiliti dal legislatore statale in relazione all’organizzazione del servizio farmaceutico avrebbero natura di principi fondamentali della materia della tutela della salute, che il legislatore regionale è tenuto a rispettare, in ossequio all’art. 117, comma 3, Cost.

L’Avvocatura regionale, nel parere prot. n. 0510423 del 3 maggio 2021, richiesto dal dirigente della P.F. Assistenza Farmaceutica A.R.S. Marche, facendo proprio quanto sostenuto da Federfarma, si è espressa in senso favorevole all’annullamento dell’accordo con le parafarmacie, ritenendo al riguardo irrilevante la recente ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1634/2021 (la quale ha affermato “…che il test da cui derivino effetti giuridici o sanitari di qualsiasi natura non può che essere effettuato direttamente da personale abilitato, nel quale – ad una prima delibazione consentita dalla sede cautelare e ritenuto prevalente l’interesse ad un più ampio screening anti-covid della popolazione – va ricompreso il farmacista…”), poiché la stessa riguarda solo la questione della “valenza” da riconoscere all’autodiagnosi svolta dal cittadino.

I ricorrenti evidenziano che, in modo del tutto inopinato ed erroneo, si è dunque attribuito esclusivo rilievo al luogo menzionato dalla L. n. 178/2020 per l’esecuzione del test (la “farmacia” e non anche la “parafarmacia”), anziché, come si sarebbe dovuto, alla figura professionale del soggetto che, tanto nelle farmacie che nelle parafarmacie, è obbligato ad assistere gli utenti nell’esecuzione del (o anche a effettuare in prima persona il) test per cui è causa, ossia il “farmacista”.

2.5. Con l’impugnata D.G.R. n. 663/2021, la Giunta regionale, omettendo peraltro la comunicazione di avvio del procedimento alle associazioni rappresentative delle parafarmacie che hanno sottoscritto l’accordo, annullava in via di autotutela la D.G.R. n. 465/2021 e l’accordo sottoscritto in esecuzione della stessa.

3. I ricorrenti censurano l’operato della Regione per i seguenti motivi:

3.1. quanto alla D.G.R. n. 663/2021:

a) violazione e falsa applicazione degli artt. 21-octies e 21-nonies della L. 7 agosto 1990 n. 241, in relazione alla violazione degli artt. 7 e ss. della medesima legge. Violazione dei principi in materia di giusto procedimento. Violazione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, per travisamento, sviamento e per contraddittorietà ed illogicità manifeste;

b) violazione e falsa applicazione degli artt. 21-octies e 21-nonies della L. 7 agosto 1990 n. 241, in relazione alla violazione degli artt. 1 e 3 della medesima legge. Violazione dei principi in materia di giusto procedimento. Violazione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. Eccesso di potere difetto assoluto del presupposto, di istruttoria e di motivazione, per travisamento, sviamento e per contraddittorietà ed illogicità manifeste;

c) violazione e falsa applicazione degli artt. 21-octies e 21-nonies della L. 7 agosto 1990 n. 241, in relazione alla violazione degli artt. 1 del D.L. n. 223/2006 e 8, comma 2, del D.Lgs. n. 502/1992. Violazione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. Violazione dell’art. 49 TFUE e del principio di proporzionalità. Violazione dei principi di parità di trattamento, trasparenza e concorrenza di cui agli artt. 101 e segg. TFUE e all’allegato Protocollo n. 27. Eccesso di potere difetto assoluto del presupposto, di istruttoria e di motivazione, per travisamento, sviamento e per contraddittorietà ed illogicità manifeste;

3.2.: quanto all’art. 1, commi 418 e 419, della Legge 30 dicembre 2020 n. 178:

d) contrasto della disciplina nazionale che differenzia i servizi erogati dalle farmacie da quelli erogati dalle parafarmacie con l’art. 49 TFUE e conseguente richiesta di rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia UE ai sensi dell’art. 267 dello stesso Trattato;

e) contrasto della disciplina nazionale che differenzia i servizi erogati dalle farmacie da quelli erogati dalle parafarmacie con i principi di parità di trattamento, trasparenza e concorrenza di cui agli artt. 101 e segg. TFUE e all’allegato Protocollo n. 27 e conseguente richiesta di rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia UE ai sensi dell’art. 267 dello stesso Trattato.

4. Si sono costituite in giudizio l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (la quale si è limitata a depositare una memoria di stile), la Regione Marche, Federfarma e Federfarma Marche (le quali hanno invece chiesto il rigetto del ricorso).

Con ordinanza n. 240/2021 il Tribunale ha respinto la domanda cautelare; la pronuncia è stata oggetto di riforma da parte del Consiglio di Stato (ordinanza n. 5163/2021), nei soli limiti della sollecita fissazione dell’udienza di trattazione del merito (che è stata poi fissata dal Presidente del Tribunale per il 15 dicembre 2021).

5. Tutto ciò premesso, il Tribunale ritiene che la definizione del presente giudizio non possa prescindere dalla previa risoluzione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 418 e 419, della L. 30 dicembre 2020, n. 178, i quali prevedono rispettivamente:

418. I test mirati a rilevare la presenza di anticorpi IgG e IgM e i tamponi antigenici rapidi per la rilevazione di antigene SARSCoV-2 possono essere eseguiti anche presso le farmacie aperte al pubblico dotate di spazi idonei sotto il profilo igienico-sanitario e atti a garantire la tutela della riservatezza”;

419. Le modalità organizzative e le condizioni economiche relative all’esecuzione dei test e dei tamponi di cui al comma 418 del presente articolo nelle farmacie aperte al pubblico sono disciplinate, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, dalle convenzioni di cui all’articolo 8, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, conformi agli accordi collettivi nazionali stipulati ai sensi dell’articolo 4, comma 9, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, e ai correlati accordi regionali, che tengano conto anche delle specificità e dell’importanza del ruolo svolto in tale ambito dalle farmacie rurali”.

Ciò impone al Collegio di dare conto delle ragioni per le quali non si ritiene, invece, di accogliere le istanze dei ricorrenti – che erano state in qualche modo condivise anche dal Consiglio di Stato in sede di appello cautelare (vedasi la citata ordinanza n. 5163/2021) – con cui si è chiesto al Tribunale di investire della questione il giudice comunitario.

5.1. Come le parti resistenti private, e soprattutto Federfarma, hanno vigorosamente sostenuto nei propri scritti difensivi, la Corte di Giustizia UE è stata chiamata nel 2013 a pronunciarsi su questioni che anche in quel caso vedevano contrapposte farmacie e parafarmacie, ed ha stabilito che le limitazioni che la legge nazionale italiana poneva alle prestazioni e alle attività che le parafarmacie possono erogare erano da ritenere compatibili con i Trattati.

La sentenza Venturini e altri, 5 dicembre 2013, in cause riunite da C-159/12 a C-161/12, per quanto di interesse in questa sede, si è così espressa “…la normativa di cui trattasi nei procedimenti principali, che riserva alle sole farmacie, la cui apertura è subordinata a un regime di pianificazione, la distribuzione dei farmaci soggetti a prescrizione medica, compresi quelli che non sono a carico del Servizio sanitario nazionale, bensì vengono pagati interamente dall’acquirente, è atta a garantire la realizzazione dell’obiettivo di assicurare un rifornimento di medicinali alla popolazione sicuro e di qualità nonché, pertanto, la tutela della salute.… Resta da esaminare, in quarto luogo, se la restrizione alla libertà di stabilimento non vada oltre quanto necessario al raggiungimento dell’obiettivo addotto, vale a dire se non esistano misure meno restrittive per realizzarlo.

59 In proposito, si deve anzitutto ricordare che, secondo giurisprudenza costante della Corte, in sede di valutazione dell’osservanza del principio di proporzionalità nell’ambito della sanità pubblica, occorre tenere conto del fatto che lo Stato membro può decidere il livello al quale intende garantire la tutela della sanità pubblica e il modo in cui questo livello deve essere raggiunto. Poiché tale livello può variare da uno Stato membro all’altro, si deve riconoscere agli Stati membri un margine di discrezionalità (v. sentenze dell’11 settembre 2008, Commissione/Germania, C-141/07, Racc. pag. I-6935, punto 51; Apothekerkammer des Saarlandes e a., cit., punto 19, nonché Blanco Pérez e Chao Gómez, cit., punto 44).

60 Del resto, è necessario che, qualora sussistano incertezze sull’esistenza o sulla portata di rischi per la salute delle persone, lo Stato membro possa adottare misure di protezione senza dover attendere che la realtà di tali rischi sia pienamente dimostrata. In particolare, uno Stato membro può adottare le misure che riducono, per quanto possibile, un rischio per la salute, compreso, segnatamente, un rischio per la fornitura di medicinali sicura e di qualità alla popolazione (v. citate sentenze Apothekerkammer des Saarlandes e a., punto 30, nonché Blanco Pérez e Chao Gómez, punto 74).

61 In forza della normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali, è riservata alle farmacie la vendita dei soli medicinali soggetti a prescrizione medica. Orbene, questo tipo di medicinali, la cui assunzione e il cui consumo da parte del paziente sono oggetto di un controllo continuo di un medico e i cui effetti sulla salute sono in genere importanti, deve poter essere rapidamente, facilmente e sicuramente accessibile.

62 Così, il rischio, evocato al punto 53 della presente sentenza, di un’eventuale situazione di penuria delle farmacie, la quale comporti l’assenza di un accesso rapido e facile ai medicinali soggetti a prescrizione medica in determinate parti del territorio, risulta importante. Il fatto che la misura di liberalizzazione del regime di pianificazione delle farmacie si limiterebbe ai soli medicinali prescritti che non sono a carico del Servizio sanitario nazionale, bensì vengono pagati interamente dall’acquirente non può ridurre la portata di un rischio simile.

63 Ciò considerato, il sistema attuato nello Stato membro in causa nei procedimenti principali, che non consente alle parafarmacie di vendere anche farmaci soggetti a prescrizione medica, segnatamente quelli che non sono a carico del Servizio sanitario nazionale, bensì vengono pagati interamente dall’acquirente, poiché riduce sostanzialmente il rischio richiamato nel punto precedente della presente sentenza, non risulta andare oltre quanto necessario per raggiungere l’obiettivo di garantire un rifornimento di medicinali alla popolazione sicuro e di qualità.[…]

65 Dall’insieme delle considerazioni suesposte discende che il sistema attuato dalla normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali è giustificato alla luce dell’obiettivo di assicurare un rifornimento di medicinali alla popolazione sicuro e di qualità, è idoneo a garantire la realizzazione di tale obiettivo e non risulta andare oltre quanto necessario per raggiungerlo.

66 Tutto ciò considerato, si deve rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che non consente a un farmacista, abilitato e iscritto all’ordine professionale, ma non titolare di una farmacia compresa nella pianta organica, di distribuire al dettaglio, nella parafarmacia di cui è titolare, anche quei farmaci soggetti a prescrizione medica che non sono a carico del Servizio sanitario nazionale, bensì vengono pagati interamente dall’acquirente…”.

5.2. I ricorrenti, non si comprende sulla base di quali dati di conoscenza, sostengono che la pronuncia della CGUE andrebbe in realtà letta come un’ultima chanche che il giudice comunitario ha voluto concedere al legislatore italiano per allineare la normativa di settore ai principi di concorrenza, libertà di stabilimento e parità di accesso al mercato, salvando in limine una normativa che, nel suo complesso, è invece confliggente con i citati principi comunitari. Gli stessi ricorrenti evidenziano che le norme nazionali oggi in contestazione, ove fossero da interpretare nel senso patrocinato dalla Regione in sede di autotutela e da Federfarma, aggraverebbero il vulnus già arrecato in passato ai principi di concorrenza e parità di accesso al mercato, per cui la presente controversia costituirebbe l’occasione propizia per far crollare definitivamente il monopolio delle farmacie.

5.3. Il Tribunale non condivide tali prospettazioni, atteso che:

– la citata sentenza della CGUE non può essere letta nel modo patrocinato dai ricorrenti, non essendovi alcun dubbio sul fatto che il giudice comunitario, laddove avesse ritenuto che limitazioni all’attività della parafarmacie previste dalla legge italiana confliggessero con i Trattati, non avrebbe “fatto sconti” allo Stato italiano (come è accaduto nel passato in innumerevoli occasioni);

– ma se così è, ne consegue che le conclusioni rassegnate dalla CGUE nella vicenda del 2012/2013 sono vieppiù attagliate alla odierna controversia. In quel caso, infatti, veniva in rilievo una limitazione permanente e rilevante dell’attività delle parafarmacie, in quanto essa riguardava il divieto di vendita di una intera classe di farmaci. Nella presente controversia viene invece in rilievo una limitazione (che all’epoca in cui è entrata in vigore la L. n. 178/2020 si pensava fosse) transeunte e riguardante peraltro solo una specifica prestazione, il tutto nel pieno di una emergenza sanitaria di livello pandemico. Sotto questo profilo, dunque, non vengono in rilievo i “massimi sistemi” invocati dai ricorrenti.

Va aggiunto che gli accordi di cui si parla in ricorso sono stati poi superati da quelli attuativi dell’art. 5 del D.L. 23 luglio 2021, n. 105, convertito in L. 16 settembre 2021, n. 126, e successivamente ancora modificato (i quali non sono oggetto del presente giudizio – si veda la documentazione depositata in giudizio dalla Regione Marche in data 30 settembre 2021 e quella depositata da Federfarma in data 4 novembre 2021), tanto è vero che con D.G.R. n. 1030 dell’11 agosto 2021 la Giunta Regionale ha sospeso ad tempus l’accordo con le farmacie approvato con la citata D.G.R. n. 145/2021. Tutto questo rende ancora meno rilevante nella presente controversia qualsiasi profilo comunitario.

6. Il Collegio ritiene, invece, che vi siano gli estremi per investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 418 e 419, della L. n. 178/2020, nella parte in cui si prevede che i test in parola possono essere eseguiti solo presso le “…farmacie…”, e ciò alla luce delle seguenti considerazioni.

6.1. In primo luogo va osservato che le norme de quibus, come correttamente rilevano le parti resistenti, non sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva, visto che il legislatore italiano ben conosce la distinzione fra farmacie e parafarmacie (e la vicenda di cui alla citata sentenza della CGUE del 2013 lo conferma ampiamente). Non si può dunque ritenere, sia in base al canone di interpretazione letterale, sia alla luce delle fondate argomentazioni delle parti resistenti, che in parte qua la legge di bilancio per il 2021 contenga un refuso o manchi del fatidico inciso “…e le parafarmacie …” (da inserire dopo le parole “…presso le farmacie…”). Del resto, se si fosse in presenza di un refuso, lo stesso, vista la rilevanza della questione, sarebbe stato prontamente emendato mediante uno dei tanti decreti correttivi c.d. omnibus che ormai seguono a stretto giro la legge di bilancio annuale.

Si deve dunque ritenere che il legislatore statale abbia voluto riservare alle sole farmacie la possibilità di erogare le prestazioni in parola.

6.2. Da ciò consegue l’infondatezza, anche ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990, dei motivi di ricorso tesi ad evidenziare la violazione dei diritti partecipativi dei soggetti privati destinatari degli effetti lesivi del provvedimento di autotutela e l’assenza dei presupposti per il legittimo esercizio del ius poenitendi previsti dall’art. 21-nonies della stessa L. n. 241/1990.

Quanto al primo aspetto, la partecipazione degli interessati al procedimento, stante la chiarezza della norma statale, non avrebbe potuto determinare alcun diverso esito finale, mentre, con riguardo ai presupposti di cui all’art. 21-nonies, gli stessi sussistevano, anche in ragione del brevissimo periodo di vigenza dell’accordo (neanche trenta giorni, a fronte dei dodici mesi attualmente previsti dall’art. 21-nonies), il quale, seppure di per sé non esclude che si sia formato in capo ai titolari di parafarmacie un legittimo affidamento, certamente incide sul consolidamento della posizione giuridica dei ricorrenti. Quanto all’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento, è ovvio che, trattandosi in thesi di prestazioni comunque finalizzate alla tutela della salute, esse debbono essere rese nelle forme previste dalle leggi statali di principio, da cui le Regioni non possono discostarsi. In questo senso, dunque, nella specie il ripristino della legalità formale è anche ripristino della legalità sostanziale.

7. Resta però da verificare se, nella specie, sussistesse il presupposto essenziale che legittimava la Regione ad annullare in autotutela i propri precedenti provvedimenti, ossia l’illegittimità della D.G.R. n. 465/2021, il che conduce il Collegio all’esame della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 418 e 419, della L. n. 178/2020, in relazione alla quale si osserva quanto segue.

7.1. In punto di rilevanza, è sufficiente evidenziare che, in disparte il fatto che l’accordo poi revocato ha avuto comunque vigenza per circa un mese, i ricorrenti, come si è detto in precedenza, hanno proposto la domanda risarcitoria, ergo è necessario in ogni caso stabilire se le disposizioni intorno a cui ruota la presente controversia siano o meno costituzionalmente legittime, perché ciò ha evidenti riflessi sulla delibazione della domanda di condanna della Regione Marche a risarcire i danni che i ricorrenti assumono di aver subito per effetto del provvedimento di autotutela.

A questo riguardo, e in vista del prosieguo del giudizio, va inoltre evidenziato che:

– laddove le norme in parola dovessero essere ritenute costituzionalmente legittime, nella fase che seguirà alla riassunzione del processo il Collegio dovrà valutare solo la complessiva condotta della Regione, onde verificare se, al di là della conformità del provvedimento di autotutela alla normativa statale, il modus operandi dell’amministrazione sia comunque rilevante ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c.;

– laddove, al contrario, le norme de quibus siano dichiarate incostituzionali, dovrà essere evocato in giudizio anche lo Stato, in persona della Presidenza del Consiglio dei Ministri, visto che in quel caso l’eventuale responsabilità aquiliana sarebbe ascrivibile anche e soprattutto al legislatore statale, il quale ha adottato disposizioni incostituzionali che la Regione, salvi gli eventuali profili di autonoma responsabilità indicati nell’alinea precedente, non poteva non applicare.

7.2. Passando invece a trattare della non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale evidenzia che:

le stesse parti resistenti non possono negare che un farmacista abilitato è idoneo ad eseguire tutte le prestazioni connesse all’arte farmaceutica a prescindere dal luogo in cui egli si trovi ad operare (farmacia, parafarmacia, laboratorio di una casa farmaceutica, etc.) ed a prescindere dal formale inquadramento del suo rapporto di lavoro (farmacista titolare, farmacista collaboratore, etc.). Questo è tanto vero che Federfarma e la Regione evidenziano in maniera puntuale e dettagliata tutti i profili per i quali si deve ritenere che, nell’attuale ordinamento di settore, le farmacie rivestano un ruolo diverso e più “istituzionale” rispetto alle parafarmacie, avendo le farmacie assunto nel corso degli anni il ruolo di una sorta di Terzo Settore del Servizio Sanitario Nazionale (per il dettaglio di tali funzioni si vedano le pagine 7-15 della memoria difensiva depositata da Federfarma in data 26 luglio 2021). Questo ruolo si è vieppiù rafforzato, come è noto, durante il periodo pandemico e soprattutto a partire dall’autunno del 2020 (c.d. seconda ondata), per toccare il culmine proprio in questi ultimi mesi (le farmacie sono diventate, ad esempio, sedi vaccinali). Ma tutto ciò, come si è detto, prescinde dalla qualificazione professionale dei soggetti che, tanto nelle farmacie quanto nelle parafarmacie, debbono essere sempre presenti, ossia i farmacisti abilitati;

– si potrebbe però obiettare che la struttura più “istituzionale” delle farmacie fornisca maggiori garanzie in relazione all’erogazione di quelle che sono qualificabili come vere e proprie prestazioni sanitarie (il che la Corte Costituzionale ha avuto modo di affermare ad esempio nella sentenza n. 66 del 2017);

questo argomento, che di per sé potrebbe giustificare l’omessa inclusione delle parafarmacie nel novero delle strutture abilitate ad effettuare i tamponi oggetto del presente giudizio, presuppone però che vi sia una differenza oggettiva fra la prestazione erogata nella farmacia e quella erogata nella parafarmacia, altrimenti si sarebbe di fronte ad una ingiustificata compressione della libertà di iniziativa economica di un soggetto giuridico che il legislatore del D.L. n. 223/2006 ha voluto riconoscere ed affiancare a quello che tradizionalmente aveva il monopolio del mercato di riferimento. E infatti nella più volte citata sentenza del 5 dicembre 2013, la CGUE ha “salvato” la normativa italiana proprio in ragione del diverso ruolo che alle farmacie è attribuito dalla legislazione di settore;

– ma nella specie tale differenza fra le prestazioni non vi è. E’ sufficiente infatti esaminare l’accordo stipulato dalla Regione con i farmacisti (D.G.R. n. 145/2021) e quello stipulato con i parafarmacisti (D.G.R. n. 465/2021) per avvedersi del fatto che, in entrambi i casi, il tampone viene eseguito “…in modalità di auto-somministrazione da parte dell’assistito … sotto la sorveglianza del farmacista…” e che “Il farmacista, nel rispetto delle norme di contenimento della diffusione del virus, verificherà la corretta esecuzione dei passaggi…” di modo che il test fornisca un risultato attendibile (si vedano l’art. 5 dello schema di accordo con le farmacie – doc. allegato n. 2 al deposito della Regione del 26 luglio 2021 – e l’art. 5 dell’accordo stipulato con le parafarmacie – doc. allegato n. 3 al predetto deposito della difesa regionale).

7.3. Ma se così è, ne discende che l’esclusione della parafarmacie dal novero delle strutture abilitate ad effettuare i tamponi in argomento non trova alcuna plausibile giustificazione.

Viene dunque in rilievo la violazione dell’art. 3 e dell’art. 41 Cost., in quanto le norme in commento, senza un giustificato motivo, limitano la libertà di iniziativa economica di determinati soggetti giuridici rispetto alla medesima attività che altri soggetti giuridici operanti nello stesso mercato di riferimento sono invece abilitati a svolgere (attività, peraltro, che richiede una identica qualificazione professionale).

Sono pertanto inconferenti le pur pregevoli argomentazioni che le parti resistenti hanno esposto al fine di giustificare la scelta operata dalla legge di bilancio per il 2021, perché, come si è detto, esse riguardano attività e prestazioni che in tanto possono essere riservate alle sole farmacie in quanto giustificate dal ruolo “istituzionale” delle stesse e dalla differenza tecnica fra tali prestazioni e quelle che, invece, sono erogabili anche dalle parafarmacie.

Non è invece comprovato che le farmacie garantirebbero una maggiore riservatezza, perché la L. n. 178/2020 tiene conto del fatto che esistono numerose farmacie, soprattutto rurali o “storiche”, che non dispongono di spazi adeguati, le quali sono pertanto autorizzate ad avvalersi anche di spazi esterni adiacenti o di strutture allestite ad hoc. Nemmeno sotto questo profilo, dunque, è apprezzabile una sostanziale differenza rispetto alle parafarmacie, le quali pure sono tenute ad attrezzarsi in modo che l’effettuazione dei test avvenga nel rispetto delle misure igienico-sanitarie minime, nonché della riservatezza degli utenti. Va da sé che gli esercizi che non fossero in grado di attrezzarsi in tal modo sarebbero stati esclusi dalla possibilità di effettuare i tamponi, e questo discorso vale sia per le farmacie che per le parafarmacie.

Di nessun rilievo sono invece le problematiche relative ai collegamenti con la banca dati regionale ed al trattamento dei dati sensibili, visto che:

– per quanto concerne il primo profilo, il collegamento presuppone solo la disponibilità di un personal computer e di una connessione internet (attrezzature di cui le parafarmacie sono già dotate);

– per ciò che attiene al secondo profilo, è certamente vero che le farmacie fanno parte del S.S.N. e dunque sono già autorizzate a trattare i dati sensibili, ma analoga abilitazione viene concessa alle parafarmacie nel momento in cui esse agiscono per conto della Regione in forza dell’accordo per cui è causa. Tutto ciò, ovviamente, senza considerare che il farmacista è già di per sé soggetto alle regole deontologiche professionali, fra le quali vi è il divieto di diffondere, al di fuori dei casi consentiti dalla legge, i dati dei propri pazienti o assistiti senza il loro consenso.

Inoltre, come evidenziano i ricorrenti, la limitazione in parola si pone anche in conflitto logico con la ratio sottesa alla normativa emergenziale, ossia quella di incrementare il numero dei tamponi. Al riguardo va infatti osservato che, rispetto all’esigenza in parola, non vengono in rilievo i profili valorizzati dalla CGUE nella sentenza Venturini e altri, perché la decisione dei cittadini di eseguire i tamponi in questione non discende necessariamente dall’insorgenza di sintomi della malattia, ma anche dal principio di precauzione (è noto, ad esempio, che nell’estate 2021 molti italiani si sono sottoposti al tampone prima di intraprendere viaggi all’estero o di partecipare a cerimonie religiose, a feste, etc., e questo anche in assenza di sintomi e anche nei casi in cui ciò non fosse imposto da alcuna norma o provvedimento amministrativo). Ne consegue che, in quest’ottica, la presenza (soprattutto all’interno dei centri commerciali) di una parafarmacia in cui fosse stato possibile effettuare il test avrebbe aumentato lo screening di massa, senza peraltro incidere sul tradizionale bacino di utenza delle farmacie.

7.4. Da ultimo va ribadito che in questa sede si discute solo della scelta operata dalla legge di bilancio n. 178/2020, per cui non vengono in rilievo le misure successive diffusamente richiamate da Federfarma nelle memorie conclusionali del 12 e del 24 novembre 2021, le quali, semmai, confermano quanto detto in precedenza circa l’interpretazione letterale dei commi 418 e 419. Ma il fatto che tutta la legislazione emergenziale successiva abbia riconfermato il ruolo eminente delle farmacie nella gestione della crisi sanitaria, da un lato non significa che tale scelta sia insuscettibile di essere contestata da chi vi abbia interesse, dall’altro lato non incide nella presente controversia (la quale, come si è cercato di spiegare supra, presenta un profilo specifico e non “di sistema”).

8. Per tutto quanto precede, il Tribunale:

– solleva la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., dell’art. 1, commi 418 e 419, della L. 30 dicembre 2020, n. 178, nella parte in cui è riservata alle sole farmacie – e non anche alle parafarmacie – l’effettuazione dei test mirati a rilevare la presenza di anticorpi IgG e IgM e i tamponi antigenici rapidi per la rilevazione di antigene SARSCoV-2;

– di conseguenza, dispone la sospensione del giudizio in attesa della decisione della Corte Costituzionale;

– riserva al definitivo ogni altra pronuncia di rito e di merito, nonché sulle spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

– dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 418 e 419, della L. 30 dicembre 2020, n. 178, per contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost.;

– dispone la sospensione del presente giudizio e ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, secondo le modalità del Processo Costituzionale Telematico, se già operative (circolare del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa prot. n. 40737 del 6 dicembre 2021);

– rinvia al definitivo ogni altra pronuncia di rito e di merito, nonché sulle spese del giudizio;

– ordina che, a cura della Segreteria del Tribunale, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Così deciso in Ancona nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Gianluca Morri, Presidente FF

Tommaso Capitanio, Consigliere, Estensore

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LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO SULLA STESSA QUESTIONE

Consiglio di Stato Sezione terza n. 7294/2021

OMISSIS

contro

Regione Marche, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Paolo Costanzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Federfarma, rappresentata e difesa dagli Avvocati Massimo Luciani, Piermassimo Chirulli, Patrizio Ivo D’Andrea, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Piermassimo Chirulli in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio, n. 9;
nei confronti

Autorità Garante Concorrenza e Mercato – AGCM, Agenzia Regionale Sanitaria Ars Marche non costituiti in giudizio;
Federfarma Marche – Unione Regionale dei Titolari di Farmacia delle Marche, rappresentata e difesa dall’Avvocato Andrea Galvani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Salaria, n. 95;
per la riforma

dell’ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) n. 240/2021, resa tra le parti, concernente l’annullamento della Deliberazione della Giunta regionale delle Marche n. 663 del 24 maggio 2021, avente ad oggetto l’annullamento del DGR n. 465/2021 concernente: “schema di accordo tra la Regione Marche ed esercizi commerciali ex art. 5, D.L. n. 223/2006, convertito con modificazioni dalla L. n. 248/2006 (c.d. Parafarmacie) per effettuare test rapidi basati sulla ricerca dell’antigene e i test diagnostici rapidi per la ricerca di anticorpi anti SARS-CoV-2”;

Visto l’art. 62 cod. proc. amm;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Marche, di Federfarma e di Federfarma Marche – Unione Regionale dei Titolari di Farmacia delle Marche;

Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 settembre 2021 il Cons. Paola Alba Aurora Puliatti e viste le conclusioni delle parti come da verbale;

Ritenuto che l’interesse cautelare degli appellanti, peraltro correlato alla lesione patrimoniale derivante dal mancato esercizio di una specifica attività, può trovare adeguata tutela attraverso la sollecita trattazione del merito dinanzi al TAR, ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a., tenuto conto della complessità delle questioni di principio rilevanti nella presente controversia, attinenti alla definizione degli ambiti entro cui può svolgersi l’attività delle parafarmacie, e della necessità di approfondimento, eventualmente anche attraverso la sottoposizione alla Corte di Giustizia UE della questione interpretativa, prospettata dagli appellanti, se l’esecuzione dei “tamponi antigenici rapidi per la rilevazione di antigene SARS-CoV-2” che l’art. 1, comma 418, della legge 30.12.2020, n. 178, ha consentito anche presso le farmacie dotate di locali idonei possa estendersi anche alle parafarmacie, considerato che queste ultime, ai sensi dell’art. 5, comma, 1del D.L. 223 del 4.7. 2005, convertito in L. 248/2006, sono autorizzate alla vendita di farmaci da banco e di “automedicazione” in presenza “di uno o più farmacisti abilitati all’esercizio della professione ed iscritti al relativo ordine”, ex comma 2 dello stesso art. 5 cit.;

Considerato che, nel bilanciamento tra gli interessi pubblici e privati in rilievo nella presente vicenda, sino alla decisione del merito, risulta prevalente l’esigenza, evidenziata dall’amministrazione regionale, di riservare l’effettuazione dei test antigienici alle sole farmacie inserite nel sistema sanitario nazionale;

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), accoglie l’appello (Ricorso numero: 7294/2021) e, per l’effetto, in riforma dell’ordinanza impugnata, accoglie l’istanza cautelare in primo grado ai soli fini della sollecita fissazione dell’udienza di merito dinanzi al TAR, ai sensi dell’art. 55, comma 10, cod. proc. amm.

Compensa le spese della presente fase cautelare.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 settembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Marco Lipari, Presidente

Massimiliano Noccelli, Consigliere

Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere, Estensore

Stefania Santoleri, Consigliere

Raffaello Sestini, Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Paola Alba Aurora Puliatti Marco Lipari

IL SEGRETARIO

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Tar Lazio sospende circolare sulla vigile attesa

La Circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021 contrasta con la deontologia del medico  e “ con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid19 come avviene per ogni attività terapeutica”.

Quindi, il contenuto della nota ministeriale, affermano i giudici, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale

Questa è la massima contenuta della sentenza della sezione terza del  Tar Lazio n. 419  pubblicata  il 15/01/2022 annullando il provvedimento che, com’è facilmente immaginabile, sarà impugnata dal Ministero.

Alcuni medici e specialisti  contestarono le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti.

In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

Il termine vietato non è utilizzato neppure una volta nella circolare che si limitava a raccomandare e sconsigliare terapie ritenute inutili e/o inefficaci.

A pagina 10, infatti, si legge chiaramente “le presenti raccomandazioni si riferiscono alla gestione farmacologica in ambito domiciliare dei casi lievi di COVID-19” intendendosi per tali: presenza di sintomi come febbre (>37.5°C), malessere, tosse, faringodinia, congestione nasale, cefalea, mialgie, diarrea, anosmia, disgeusia, in assenza di dispnea, disidratazione, alterazione dello stato di coscienza.

In linea generale, si afferma,  per soggetti con queste caratteristiche cliniche non è indicata alcuna terapia al di fuori di una eventuale terapia sintomatica di supporto.

Per vigile attesa, la circolare intendeva un costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente con misurazione periodica della saturazione ed ossigeno attraverso pulsossimetria nonché norme igieniche di vita.

Mentre dal punto di vista farmacologico, consigliava trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso). Altri farmaci sintomatici potranno essere utilizzati su giudizio clinico.

Raccomandava e sconsigliava, inoltre, di  non utilizzare routinariamente corticosteroidi per le forme lievi da considerare solo  in pazienti con fattori di rischio di progressione di malattia verso forme severe, in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici che richieda l’ossigenoterapia ove non sia possibile nell’immediato il ricovero per sovraccarico delle strutture ospedaliere.

Raccomandava e sconsigliava, inoltre, di  non utilizzare eparina. L’uso di tale farmaco, si afferma nella raccomandazione,  è indicato, solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto ed evitare l’uso empirico di antibiotici. La mancanza di un solido razionale e l’assenza di prove di efficacia nel trattamento di pazienti con la sola infezione virale da SARS-CoV2 non consentono di raccomandare l’utilizzo degli antibiotici, da soli o associati ad altri farmaci.

Un ingiustificato utilizzo degli antibiotici può, inoltre, determinare l’insorgenza e il propagarsi di resistenze batteriche che potrebbero compromettere la risposta a terapie antibiotiche future. Il loro eventuale utilizzo è da riservare esclusivamente ai casi nei quali l’infezione batterica sia stata dimostrata da un esame  microbiologico e a quelli in cui il quadro clinico ponga il fondato sospetto di una sovrapposizione batterica.

Sconsigliava di utilizzare idrossiclorochina la cui efficacia era ritenuta dal Ministero non confermata in nessuno degli studi clinici randomizzati fino ad ora condotti.

Ad avviso di chi scrive, il Tar dimentica che la libertà prescrittiva a carico del servizio sanitario nazionale è limitata ai farmaci ritenuti idonei a curare specifiche situazioni cliniche. Il medico ha sempre la possibilità di adattare la terapia scegliendo tra i farmaci che sono indicati come efficaci e prescrivibili su “ricetta rossa”.

La libertà prescrittiva del medico non è limitata in quanto gli è sempre permesso di prescrivere, anche off label, su “ricetta bianca” a carico del cittadino.

È appena opportuno ricordare che un uso inappropriato di farmaci come l’eparina e gli antibiotici  puo’ determinare, soprattutto in una situazione pandemica, rischi di mancati approvvigionamenti del ciclo farmaceutico con rischio di farli mancare  ai  pazienti più fragili.

Avv. Paola M. Ferrari

LA SENTENZA

FATTO e DIRITTO

I ricorrenti sono medici di medicina generale e specialisti.

Con il ricorso oggetto del presente scrutinio, i predetti hanno contestato le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti.

Alla camera di consiglio del giorno 4 agosto 2021, il Collegio ha disposto, a mente dell’art. 55, comma 10 cpa, la fissazione della discussione del presente ricorso alla udienza di merito del giorno 7 dicembre 2021.

Alla udienza del giorno 7 dicembre 2021 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

In primo luogo deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla resistente perché, a suo dire, la nota AIFA, recepita nella circolare ministeriale, ha una sua autonomia giuridica e non è stata autonomamente impugnata.

E’ necessario rappresentare che nel momento in cui l’indicata raccomandazione è stata pedissequamente mutuata nella circolare ministeriale essa ha perso ogni singolare valenza, compresa una sua autonoma esistenza giuridica ed ha costituito, pertanto, la sola motivazione del provvedimento contestato.

Conseguentemente l’eccezione deve essere respinta.

Le censurate linee guida, come peraltro ammesso dalla stessa resistente, costituiscono mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli.

In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

La prescrizione dell’AIFA, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia COVI 19 come avviene per ogni attività terapeutica.

In merito è opportuno rappresentare che il giudice di appello nello scrutinare una analoga vicenda giudiziaria ( la censura afferente alla sola determinazione dell’AIFA) ha precisato che :”… la nota AIFA non pregiudica l’autonomia dei medici nella prescrizione, in scienza e coscienza, della terapia ritenuta più opportuna, laddove la sua sospensione fino alla definizione del giudizio di merito determina al contrario il venir meno di linee guida, fondate su evidenze scientifiche documentate in giudizio, tali da fornire un ausilio (ancorché non vincolante) a tale spazio di autonomia prescrittiva, comunque garantito”.

Quindi, il contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale.

Per tali ragioni il ricorso deve essere accolto.

La peculiarità della vicenda convince il Collegio a compensare le spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento in epigrafe indicato.

Compensa le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Savoia, Presidente

Paolo Marotta, Consigliere

Roberto Vitanza, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberto Vitanza Riccardo Savoia

IL SEGRETARIO

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Infermiere impugna provvedimento sospensione dell’Ordine Professionale. Il diritto alla salute di tutti vale più dello stipendio.

13/01/2022 n. 7 – Tar Calabria sezione Catanzaro

LA MASSIMA

Richiamata, in proposito, la giurisprudenza secondo cui “il diritto soggettivo individuale al lavoro ed alla conseguente retribuzione è sì meritevole di protezione, ma solo fino all’estremo limite in cui la sua tutela non sia suscettibile di arrecare un pregiudizio all’interesse generale (nella specie, la salute pubblica), di fronte al quale è destinato inesorabilmente a soccombere, sicché, ove il singolo intenda consapevolmente tenere comportamenti potenzialmente dannosi per la collettività, violando una disposizione di legge che quell’interesse miri specificamente a proteggere, deve sopportarne le inevitabili conseguenze” (Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G).
Non deve essere sospesa la delibera del Consiglio Direttivo dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche che ha sospeso dall’Albo degli infermieri un infermiere che si è sottratto dall’obbligo vaccinale senza accampare un elemento ostativo alla vaccinazione ma la mancanza di un atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda Sanitaria e l’impossibilità, da parte dell’Ordine professionale, di surrogarsi a detta azienda nel compito di accertare un fatto (la mancata sottoposizione a vaccinazione) le cui conseguenze sono vincolativamente determinate dal legislatore.

sul ricorso numero di registro generale 1899 del 2021, proposto da

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Elisa Lupis, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ordine delle Professioni Infermieristiche di Catanzaro, non costituito in giudizio;

per l’annullamento

previa sospensione dell’efficacia,

– della delibera del Consiglio Direttivo dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Catanzaro del -OMISSIS-, avente ad oggetto la “-OMISSIS–OMISSIS-”;

– di tutti gli atti presupposti, consequenziali o comunque connessi;

e per il risarcimento del danno ingiusto subito.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l’art. 55 c.p.a.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 il dott. Francesco Tallaro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Osservato che l’odierno ricorso non riguarda un atto di gestione del rapporto di lavoro intercorrente tra il ricorrente e l’Azienda Ospedaliera -OMISSIS-, ma ha ad oggetto il provvedimento, di carattere autoritativo benché vincolato, di sospensione dall’Albo degli Infermieri, sicché, alla cognizione sommaria tipica della presente fase, appare correttamente individuata la giurisdizione di questo plesso di giustizia amministrativa (Cons. Stato, Sez. III, ord. 23 dicembre 2021, n. 6796; TAR Friuli Venezia Giulia, 13 settembre 2021, n. 276);

Osservato che è fuori discussione l’inosservanza, da parte del ricorrente, dell’obbligo, sancito dall’art. 4 d.l. 1 aprile 2021, n. 44, conv. con mod.con l. 28 maggio 2021, n. 76, di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19, obbligo della cui conformità a Costituzione questo Tribunale (così come la più autorevole giurisprudenza sin qui pronunciatasi: cfr. Cons. Stato, Sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) non dubita, essendo coerente con i migliori approdi conoscitivi cui è pervenuta la comunità scientifica e costituendo espressione del principio di solidarietà sociale;

Osservato che il ricorrente non ha dedotto, in questa sede giurisdizionale, la sussistenza di elementi ostativi alla sottoposizione, da parte sua, alla vaccinazione obbligatoria;

Osservato che, di contro, il ricorso si incentra solo sulla mancanza di un atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda Sanitaria Provinciale e sull’impossibilità, da parte dell’Ordine professionale, di surrogarsi a detta azienda nel compito di accertare un fatto (la mancata sottoposizione a vaccinazione) le cui conseguenze sono vincolativamente determinate dal legislatore;

Ritenuto, alla stregua di tali rilievi, che la domanda cautelare non possa trovare accoglimento; non sussiste, infatti, per il ricorrente il pericolo di un danno grave e irreparabile: egli, infatti, potrà agevolmente rimuovere gli effetti negativi dell’atto impugnato sottoponendosi alla vaccinazione anti Covid-19, così adempiendo a un preciso obbligo derivante dalla legge e, ancor prima (cfr. Cons. Stato, Sez. III, decr. 1 dicembre 2021, n. 6401), dal giuramento professionale (cfr. anche Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G., che parla di “una sorta di condizione risolutiva potestativa” (…) “il cui accadimento rientra nella disponibilità del lavoratore il quale in qualunque momento, con un comportamento volontario – che, anzi, sarebbe doveroso atteso lo specifico obbligo vigente a suo carico – può far cessare gli effetti della sua sospensione dal lavoro e dalla conseguente retribuzione”);

Osservato, d’altra parte, che nel bilanciamento tra gli interessi in gioco, quello del ricorrente all’esercizio dell’attività sanitaria e alla correlativa percezione della remunerazione in violazione dell’obbligo vaccinale è destinato a soccombere a fronte delle pressanti esigenze di tutela della salute pubblica e, soprattutto della salute di chi si rivolga al personale sanitario;

Richiamata, in proposito, la giurisprudenza secondo cui “il diritto soggettivo individuale al lavoro ed alla conseguente retribuzione è sì meritevole di protezione, ma solo fino all’estremo limite in cui la sua tutela non sia suscettibile di arrecare un pregiudizio all’interesse generale (nella specie, la salute pubblica), di fronte al quale è destinato inesorabilmente a soccombere, sicché, ove il singolo intenda consapevolmente tenere comportamenti potenzialmente dannosi per la collettività, violando una disposizione di legge che quell’interesse miri specificamente a proteggere, deve sopportarne le inevitabili conseguenze” (Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G,);

Ritenuto, quanto alle spese, che non vi sia luogo a provvedere, stante la mancata costituzione dell’amministrazione intimata;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) rigetta l’istanza di tutela cautelare.

Nulla sulle spese.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’amministrazione ed è depositata presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Giovanni Iannini, Presidente

Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore

Manuela Bucca, Referendario

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