Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

La quarantena non è incostituzionale

Corte Costituzionale n. 127 6 aprile – depositata il 26 maggio26 maggio 2022

LA MASSIMA

I «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose». Si è, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

Questa è l’opinione della Corte Costituzionale espressa nella sentenza n. 127 emessa il 6 aprile e depositata il 26 maggio scorso.

La rimessione prese spunto da una causa penale. incardinata presso il Tribunale di Reggio Calabria. dove all’imputato fu contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

LE NORME CENSURATE

La sentenza ha respinto le questioni di incostituzionalità degli artt.  2. 1, comma 6° e 2, comma 3° del decreto-legge 16/05/2020, n. 33, convertito, con modificazioni, nella legge 14/07/2020, n. 74.  (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19).

L’art. 1, comma 6, stabilisce che «è fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, aggiunge che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

SENTENZA N. 127 ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, promosso dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, nel procedimento penale a carico di M. A., con ordinanza del 15 aprile 2021, iscritta al n. 141 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2022 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021), il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

L’art. 1, comma 6, censurato stabilisce che «[è] fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, censurato aggiunge che «[s]alvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

Il giudice rimettente riferisce di dover giudicare un imputato tratto a giudizio direttissimo, tra l’altro, in relazione alla contravvenzione così punita, perché tale persona «non avrebbe osservato un ordine legalmente dato per impedire la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo».

Sarebbe perciò palese la rilevanza della questione, che investe la legittimità costituzionale della norma incriminatrice.

In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che il divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora avrebbe un contenuto «assolutamente identico» alla restrizione imposta mediante gli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 del codice di procedura penale, ovvero mediante la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Gli istituti di diritto penale appena citati inciderebbero senza dubbio sulla libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost.

Il rimettente ne deduce che analoga conclusione debba essere formulata quanto al divieto di mobilità oggetto di causa.

Infatti, la quarantena obbligatoria implicherebbe una limitazione positiva legata alla persona, anziché negativa in relazione ai luoghi: ovvero, essa «non impone un divieto di recarsi in determinati luoghi», ma «un divieto di muoversi a determinati soggetti».

Il giudice a quo ne conclude che il provvedimento di adozione del divieto comporti una restrizione della libertà personale, anziché della libertà di circolazione tutelata dall’art. 16 Cost., e che quindi esso debba essere adottato dall’autorità giudiziaria, o soggetto a convalida di quest’ultima.

Il giudice a quo, escluso che la lettera delle disposizioni impugnate permetta in via interpretativa di ritenere che il provvedimento sia soggetto a convalida dell’autorità giudiziaria, dubita perciò della legittimità costituzionale del divieto di mobilità e del regime penale che ne accompagna la violazione, per lesione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

L’Avvocatura ritiene che la misura alla quale è sottoposto chi si ammala vada ricondotta alla sfera della libertà di circolazione, anziché all’art. 13 Cost., deducendone l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

Ciò sulla base, sia del criterio cosiddetto quantitativo, sia del criterio cosiddetto qualitativo, che sarebbero stati elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte e che determinerebbero, altresì, la non fondatezza della questione.

Infatti, secondo la difesa statale, la restrizione, nel caso di specie, avrebbe carattere lieve e non comprometterebbe la dignità della persona, sottoponendola ad un trattamento degradante.

Tali considerazioni, che sottraggono al campo proprio dell’art. 13 Cost. i trattamenti sanitari obbligatori, varrebbero anche per i «cordoni sanitari» istituiti per contenere il contagio, anche se con provvedimenti diretti nei confronti di singoli individui.

Il divieto di mobilità per cui è causa sarebbe perciò una misura limitativa della libertà di circolazione, di natura provvisoria, e subordinata al «mero accertamento della positività al virus Covid-19».

L’assenza di ogni carattere coercitivo renderebbe, inoltre, improprio il riferimento operato dal giudice rimettente agli istituti degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare, che invece comportano «forme di coazione fisica», quale l’applicazione del regime carcerario, in caso di inosservanza delle misure.

3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, limitandosi a reiterare gli argomenti già svolti in sede di intervento.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021) il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

Il rimettente giudica un imputato al quale è contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

Il giudice a quo reputa il combinato disposto delle norme censurate difforme dall’art. 13 Cost., perché esse non prevedono che il provvedimento dell’autorità sanitaria, con il quale il malato è sottoposto alla cosiddetta quarantena obbligatoria, sia convalidato entro 48 ore dall’autorità giudiziaria.

2.– Nella fase iniziale della pandemia il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, aveva approntato una risposta penale per ogni violazione delle «misure di contenimento» attuate, sulla base di tale fonte primaria, a mezzo di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Tuttavia, fin dall’entrata in vigore del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35, il legislatore ha preferito riservare la sanzione penale alla trasgressione ritenuta più grave, nell’ottica del contenimento del contagio, ovvero alla violazione del «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, purché risultate positive al virus», a condizione che tale misura fosse stata attivata con gli strumenti di cui all’art. 2 di tale testo normativo, ovvero d.P.C.m. o ordinanze del Ministro della salute (art. 1, comma 2, lettera e, del d.l. n. 19 del 2020).

Con le disposizioni oggi censurate è direttamente la legge, senza la successiva intermediazione di un d.P.C.m., a porre il «divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’ autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata» (art. 1, comma 6, del d.l. n. 33 del 2020, come convertito), nonché a stabilire che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265» (art. 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020).

Tale figura contravvenzionale di reato mantiene analoga forma, quanto agli elementi costitutivi della fattispecie e alla pena comminata, con il sopravvenuto art. 4, comma 1, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza), che «a decorrere dal 1° aprile 2022» introduce l’art. 10-ter nel testo del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52 (Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 giugno 2021, n. 87.

Quest’ultima disposizione, saldandosi all’art. 13, comma 2-bis, del d.l. n. 52 del 2021, come introdotto a propria volta dall’art. 11, comma 1, lettera b), del d.l. n. 24 del 2022, continua a comportare che sia incriminato, con la medesima pena, il fatto descritto dalle disposizioni del d.l. n. 33 del 2020, in forza delle quali l’imputato viene giudicato nel processo principale.

Pertanto, è palese che lo ius superveniens non interferisce con l’attuale questione di legittimità costituzionale.

2.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità della questione, perché il rimettente avrebbe errato nel ricondurre la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria allo statuto giuridico della libertà personale (art. 13 Cost.), anziché a quello della libertà di circolazione (art. 16 Cost.), che non contiene in sé, diversamente dal primo, la riserva di giurisdizione.

L’eccezione non è fondata, posto che essa attiene con ogni evidenza al merito della questione, e non già ai suoi profili preliminari.

3.– Nel merito, la questione non è fondata.

3.1.– Il dubbio del rimettente nasce dalla convinzione che una misura così limitativa della facoltà di libera locomozione, da impedire l’uscita dalla propria abitazione durante la malattia, non possa che ricadere nella sfera giuridica della libertà personale, al pari di misure che il giudice a quo reputa del tutto affini quanto al grado di afflittività, ovvero gli arresti domiciliari, che sono una misura cautelare (art. 284 del codice di procedura penale), e la detenzione domiciliare, ovvero una misura alternativa alla detenzione (art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»).

È evidente che la facoltà di autodeterminarsi quanto alla mobilità della propria persona nello spazio, in linea di principio, costituisce una componente essenziale sia della libertà personale, sia della libertà di circolazione.

Tuttavia, i criteri che il rimettente suggerisce per qualificare la fattispecie ai sensi dell’art. 13 Cost., anziché in base all’art. 16 Cost., non hanno mai trovato corrispondenza nella ormai pluridecennale giurisprudenza maturata da questa Corte sul punto controverso.

Questa Corte, con la sentenza n. 68 del 1964, ha già rilevato che i «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose».

Perciò, in linea di principio, e impregiudicato ogni ulteriore profilo concernente la legittimità costituzionale di tali misure, non si può negare che un cordone sanitario volto a proteggere la salute nell’interesse della collettività (art. 32 Cost) possa stringersi di quanto è necessario, secondo un criterio di proporzionalità e di adeguatezza rispetto alle circostanze del caso concreto, per prevenire la diffusione di malattie contagiose di elevata gravità.

A seconda dei casi, in particolare, e sempre alla luce della evoluzione della pandemia, il legislatore potrà orientarsi, sia nel senso di prescrivere un divieto generalizzato a recarsi in determinati luoghi, per esempio quando il fattore di contagio alberghi solo in questi ultimi (ciò che il rimettente definisce «limitazioni negative» legate al luogo, attribuendole all’art. 16 Cost.), sia nel senso di imporre un divieto di spostarsi a determinate persone, specie quando queste ultime, in ragione della libertà di circolare, siano, a causa della contagiosità, un pericoloso vettore della malattia (ciò che il giudice a quo sostiene erroneamente comportare una «limitazione positiva» prescritta all’individuo, come tale in ogni caso presidiata dall’art. 13 Cost.).

3.2.– Si tratta di stabilire, anzitutto, se le modalità con le quali una simile, gravosa misura siano state adottate non trasmodino, in concreto, in restrizione della libertà personale.

3.3.– Inoltre, una volta che si sia giunti alla conclusione che la limitazione introdotta dal legislatore appartenga, a buon titolo, al campo governato dall’art. 16 Cost., e si sia quindi potuto escludere ogni rilievo all’art. 13 Cost., ugualmente occorrerebbe valutare la conformità della misura adottata ai limiti costituzionali che il legislatore incontra in tema di compressione della libertà di circolazione.

Quest’ultima, pur priva della riserva di giurisdizione, resta assistita da garanzie consone al fondamentale rilievo costituzionale che connota la facoltà di locomozione, anche quale base fattuale per l’esercizio di numerosi altri diritti di primaria importanza.

Tuttavia, tale secondo aspetto del problema non è stato sottoposto all’attenzione di questa Corte dal giudice rimettente, che ha invece circoscritto il dubbio di costituzionalità alla violazione dell’art. 13 Cost., sicché è solo a quest’ultima che deve riservarsi ora l’attenzione, restando invece impregiudicato ogni profilo afferente all’osservanza dell’art. 16 Cost.

4.– Nella giurisprudenza costituzionale, il nucleo irriducibile dell’habeas corpus, tutelato dall’art. 13 Cost. e ricavabile per induzione dal novero di atti espressamente menzionati dallo stesso articolo (detenzione, ispezione, perquisizione personale), comporta che il legislatore non possa assoggettare a coercizione fisica una persona, se non in forza di atto motivato dell’autorità giudiziaria, o convalidato da quest’ultima entro quarantotto ore, qualora alla coercizione abbia invece provveduto l’autorità di pubblica sicurezza.

L’impiego della forza per restringere la capacità di disporre del proprio corpo, purché ciò avvenga in misura non del tutto trascurabile e momentanea (sentenze n. 30 del 1962 e n. 13 del 1972), è quindi precluso alla legge dalla lettera stessa dell’art. 13 Cost., se non interviene il giudice, la cui posizione di indipendenza e imparzialità assicura che non siano commessi arbitri in danno delle persone.

Qualora, pertanto, il legislatore intervenga sulla libertà di locomozione, indice certo per assegnare tale misura all’ambito applicativo dell’art. 13 Cost. (e non dell’art. 16 Cost.) è che essa sia non soltanto obbligatoria (tale, vale a dire, da comportare una sanzione per chi vi si sottragga), ma anche tale da richiedere una coercizione fisica.

Per detta ragione, questa Corte ha ritenuto che un mero ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, la cui esecuzione sia affidata alla collaborazione spontanea di chi lo riceve, afferisca alla libertà di circolazione, ma che, diversamente, ove l’ordine comporti la traduzione fisica della persona, esso debba essere assistito dalle garanzie di cui all’art. 13 Cost. (sentenze n. 2 del 1956 e n. 45 del 1960). Parimenti, il respingimento dello straniero con accompagnamento coattivo alla frontiera, a differenza dell’ordine di espulsione, restringe la libertà personale in ragione di tale «modalità esecutiva» (sentenza n. 275 del 2017; in precedenza, sentenza n. 222 del 2004).

L’«assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale» contraddistingue anche il trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza, in quanto l’autorità competente, «avvalendosi della forza pubblica» adotta misure che impediscono di abbandonare il luogo (sentenze n. 105 del 2001; si veda, inoltre, la sentenza n. 23 del 1975).

Sempre in osservanza del fondamentale criterio che attiene alla coercizione fisica, questa Corte ha ricondotto all’art. 13 Cost. l’esecuzione di un prelievo ematico nel corso di un procedimento penale «quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva» (sentenza n. 238 del 1996), ma ha invece escluso l’applicabilità di tale disposizione costituzionale al test alcolemico, ove proposto a chi sia sospettato di aver guidato in stato di ebbrezza, considerato che la persona, pur commettendo reato in caso di rifiuto ingiustificato, «non subisce coartazione alcuna, potendosi rifiutare in caso di ritenuto abuso di potere da parte dell’agente» di pubblica sicurezza (sentenza n. 194 del 1996).

Ed è bene precisare che qualora sia previsto il ricorso alla forza fisica al fine di instaurare o mantenere in essere, con apprezzabile durata, una misura restrittiva della facoltà di libera locomozione, allora la circostanza che la legge abbia introdotto tale misura in via generale per motivi di sanità non comporta che essa vada assegnata alla garanzia costituzionale offerta dall’art. 16 Cost., e sfugga così alla riserva di giurisdizione, posto che detto elemento coercitivo implica necessariamente che sia l’autorità giudiziaria ad applicare la restrizione, o a convalidarne l’esecuzione provvisoria.

Così, in particolare, la garanzia di cui all’art. 13 Cost. raggiunge certamente misure disposte o protratte coattivamente, anche se sorrette da finalità di cura, perché «quanto meno allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come “obbligatorio” – con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso, ma anche come “coattivo” – potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana – le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona» (sentenza n. 22 del 2022).

4.1.– Ciò premesso, l’obbligo, per chi è sottoposto a quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria, in quanto risultato positivo al virus COVID-19, di non uscire dalla propria abitazione o dimora, non restringe la libertà personale, anzitutto perché esso non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia.

Il destinatario del provvedimento è infatti senza dubbio obbligato ad osservare l’isolamento, a pena di incorrere nella sanzione penale, ma non vi è costretto ricorrendo ad una coercizione fisica, al punto che la normativa non prevede neppure alcuna forma di sorveglianza in grado di prevenire la violazione. In definitiva, chiunque sia sottoposto alla “quarantena” e si allontani dalla propria dimora incorrerà nella sanzione prevista dalla disposizione censurata, ma non gli si potrà impedire fisicamente di lasciare la dimora stessa, né potrà essere arrestato in conseguenza di tale violazione.

Non può a tale proposito sfuggire la marcata differenza che separa tale fattispecie dalle ipotesi normative evocate dal rimettente per giustificare l’applicazione dell’art. 13 Cost.

Sia la misura cautelare degli arresti domiciliari (art. 284 cod. proc. pen.), sia la misura alternativa alla detenzione costituita dalla detenzione domiciliare (art. 47-ter della legge n. 354 del 1975) sono, infatti, coattivamente imposte e mantenute in vigore, al punto che l’art. 3 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e di buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, consente l’arresto di chi sia evaso anche al di fuori dei casi di flagranza.

Non vi è quindi, su questo piano, alcun paragone possibile tra l’introduzione, da parte delle norme censurate e a pena di commettere una contravvenzione, del solo obbligo di non uscire di casa se malati, al fine di scongiurare ulteriori contagi, e l’esecuzione di provvedimenti tipici del diritto penale, ai quali è connaturata la coercibilità, perlomeno per i casi di inosservanza.

5.– Fin dagli esordi della sua giurisprudenza, questa Corte ha riconosciuto che l’art. 13 Cost. deve trovare spazio non soltanto a fronte di restrizioni mediate dall’impiego della forza fisica, ma anche a quelle che comportino l’«assoggettamento totale della persona all’altrui potere», con le quali, vale a dire, viene compromessa la «libertà morale» degli individui (sentenza n. 30 del 1962), imponendo loro «una sorta di degradazione giuridica» (sentenza n. 11 del 1956).

Tale criterio di lettura ha trovato ripetutamente applicazione, ove si è trattato di qualificare sul piano costituzionale i limiti imposti alla facoltà di libera locomozione, che non fossero accompagnati da forme di coercizione (sentenze n. 144 del 1997; n. 193 e n. 143 del 1996; n. 210 del 1995; n. 419 del 1994; n. 68 del 1964; n. 45 del 1960), e che, di conseguenza, si prestavano, in linea astratta, a convergere verso il campo di applicazione dell’art. 16 Cost.

Questa Corte ha tenuto ferma, al contrario, la necessità che simili restrizioni, ove implicanti «degradazione giuridica», fossero assistite dalle piene garanzie dell’habeas corpus offerte dallo statuto della libertà personale.

Specie a fronte di un vasto apparato di misure di prevenzione, che la legislazione dei tempi affidava alla gestione della sola autorità di pubblica sicurezza, si è infatti ritenuto che la medesima esigenza costituzionale di preservare la libertà dell’individuo, comprimibile solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge, dovesse essere avvertita non soltanto innanzi allo spiegamento di forme coercitive (il cui esercizio segna la più icastica manifestazione del monopolio statale della forza), ma anche per quei casi nei quali la legge assoggetta l’individuo a specifiche prescrizioni che si riflettono sulla facoltà di disporre di sé e del proprio corpo, compresa quella di locomozione, recando al contempo «una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona» (sentenze n. 419 del 1994 e n. 68 del 1964).

Si tratta, è appena il caso di precisarlo, di un criterio che è stato utilizzato nella giurisprudenza di questa Corte solo per allargare lo scudo protettivo dell’art. 13 Cost., e in nessun caso per ridimensionarlo: in altri termini, ove la restrizione sia ottenuta mediante coercizione fisica, essa continua ad afferire alla libertà personale, quand’anche non rechi degradazione giuridica.

Nel caso opposto, prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l’individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità.

5.1.– Naturalmente, può essere complicato, talvolta, distinguere, tra le incisioni della facoltà di locomozione, quelle che convergono, in quanto degradanti, verso la libertà personale, e quindi di competenza dell’autorità giudiziaria, e quelle che, invece, afferiscono alla libertà di circolazione.

Basti pensare, a tale proposito, che questa Corte ha ravvisato la pertinenza dell’art. 13 Cost. a fronte dell’obbligo, non coercibile, di comparire presso un ufficio di polizia durante lo svolgimento di manifestazioni sportive (sentenze n. 193 e n. 143 del 1996), ma la ha invece esclusa con riguardo al divieto di accedere agli stadi, perché l’assenza di un contatto con la pubblica autorità, in tal caso, determina una «minore incidenza sulla sfera della libertà del soggetto», ovvero non ne comporta una degradazione giuridica afferente alla dignità della persona (sentenza n. 193 del 1996).

Non vi è in questi casi, e salvo eccezioni, quel sottostante giudizio sulla personalità morale del singolo, e la incidenza sulla pari dignità sociale dello stesso, che reclamano, ove posti a base di una misura restrittiva pur non coercitiva, l’apparato di garanzie predisposto a tutela della libertà personale. Tuttavia, non è detto che questo sia sufficiente sul piano costituzionale, e che non debbano invece aggiungersi a ciò, in casi del tutto particolari, le garanzie offerte dall’art. 13 Cost., alla luce delle peculiarità con cui si è eventualmente manifestato l’intervento legislativo.

6.– Sulla base di questi principi deve ritenersi che, nel caso di specie, è palese che la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria recata dall’art. 1, comma 6, censurato non determina alcuna degradazione giuridica di chi vi sia soggetto e quindi non incide sulla libertà personale.

Si è qui, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

6.1.– Va infine ribadito che il paragone che il giudice rimettente instaura con le misure degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare è insostenibile.

In tali casi si è infatti in presenza di misure proprie del diritto penale, la cui applicazione è inscindibilmente connessa ad una valutazione individuale della condotta e della personalità dell’agente, da parte dell’autorità giudiziaria a ciò costituzionalmente competente.

Sono, questi, elementi che danno pienamente conto delle ragioni per le quali non è dubitabile che simili misure siano soggette alla riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost., ma che, al contempo, servono a chiarire perché non lo debba invece essere la cosiddetta quarantena obbligatoria, che non fa seguito ad alcun tratto di illiceità, anche solo supposta, nella condotta della persona, ma alla sola circostanza, del tutto neutra sul piano della personalità morale e della pari dignità sociale, di essersi ammalata a causa di un agente patogeno diffuso nell’ambiente.

Per tale ragione, sebbene il legislatore abbia costruito la figura di reato sull’inosservanza del provvedimento che sottopone la singola persona alla quarantena a seguito di positività al test del virus Covid-19, non solo non vi è alcun obbligo ai sensi dell’art. 13 Cost. che tale provvedimento sia convalidato dall’autorità giudiziaria, ma di quest’ultimo provvedimento amministrativo non vi sarebbe neppure stata la necessità costituzionale.

Il legislatore ben potrebbe, infatti, configurare come reato la condotta di chi, sapendosi malato, lasci la propria abitazione o dimora, esponendo gli altri al rischio del contagio, senza la necessità della sopravvenienza di un provvedimento dell’autorità sanitaria. Ciò infatti è accaduto durante la vigenza del d.l. n. 19 del 2020, il cui art. 4, comma 6, aveva provveduto proprio in tal senso.

Del resto, la natura del virus, la larghissima diffusione di esso, l’affidabilità degli esami diagnostici per rilevarne la presenza, sulla base di test scientifici obiettivi, fugano ogni pericolo di «arbitrarietà e di ingiusta discriminazione» (sentenza n. 68 del 1964), tale da chiamare in causa il giudice, affinché la misura dell’isolamento sia disposta, o convalidata tempestivamente; fermo restando che il malato non solo, come si è visto, può sottrarsi alla misura obbligatoria, ma non coercitiva (pur sostenendone le conseguenze penali), ma può altresì far valere le proprie ragioni, in via di urgenza, innanzi al giudice comune, perché ne sia accertato il diritto di circolare, qualora difettino i presupposti per l’isolamento.

7.– In definitiva, la questione di legittimità degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020 non è fondata, in riferimento all’art. 13 Cost., perché la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione, anziché restringere la libertà personale.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, sollevata, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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Suicidio assistito. Le ragioni del no al referendum

Corte Costituzionale Sentenza 50/2022 

   Decisione  del 15/02/2022 Deposito del 02/03/2022;   Pubblicazione in G. U. 02/03/2022  n. 9

SENTENZA N. 50

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’art. 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti:

a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»;

b) comma secondo: integralmente;

c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano», giudizio iscritto al n. 179 del registro referendum.

Vista l’ordinanza del 15 dicembre 2021 con la quale l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta;

udito nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi gli avvocati Tommaso Romano Valerio Politi per l’Associazione PRO VITA E FAMIGLIA Onlus e per il Comitato per il No all’eutanasia legale, Alessandro Benedetti per l’Associazione Scienza & Vita e per l’Unione giuristi cattolici italiani (UGCI), Carmelo Domenico Leotta per il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, Giovanni Doria per l’Associazione Movimento per la Vita, Mario Esposito per il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, Piercarlo Peroni per il Comitato Famiglie per il no al referendum sull’omicidio del consenziente, Siro Centofanti per il Comitato per il NO all’uccisione della persona anche se consenziente, Tullio Padovani per l’Associazione La Società della Ragione APS, per l’Associazione Liberi di Decidere, per l’Associazione Mobilitazione Generale degli Avvocati (MGA), per l’Associazione Walter Piludu Ets Aps e per l’Associazione Chi si cura di te Aps, Marcello Cecchetti per l’Associazione A Buon Diritto Onlus Aps, per l’Associazione Utenti e Consumatori Aps, per l’Associazione Consulta di Bioetica Ets, per la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), per l’Associazione ArciAtea Aps e per l’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti, Alfonso Celotto e Guido Aldo Carlo Camera per l’Associazione +EUROPA, Gianni Baldini e Gian Ettore Gassani per l’Associazione avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI), Filomena Gallo e Massimo Clara per il Comitato promotore Referendum eutanasia legale (Filomena Gallo, Marco Cappato, Wilhelmine Schett e Rocco Berardo, nella qualità di promotori e presentatori, Matteo Mainardi, Mario Staderini, Carlo Troilo, Mario Riccio, Monica Coscioni, Marco Gentili, Valeria Imbrogno, Vincenzo Maraio e Massimiliano Iervolino, nella qualità di presentatori);

deliberato nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2021, depositata il 16 dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1, limitatamente alle seguenti parole “la reclusione da sei a quindici anni”; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole “Si applicano”?».

2.− L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)».

3.− Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.

4.− In data 26 gennaio 2022, i promotori della richiesta di referendum hanno depositato una memoria, nella quale, dopo un’ampia premessa sulla natura e sulle finalità del referendum abrogativo, argomentano a sostegno dell’ammissibilità dell’odierno quesito.

4.1.– L’obiettivo espresso dal quesito referendario sarebbe quello di «eliminare parzialmente dall’ordinamento il rilievo penale della condotta dell’omicidio del consenziente, tranne nei casi specifici già previsti al medesimo art. 579, terzo comma, c.p. e per i quali è già stabilita la sanzione penale di cui all’art. 575 c.p.».

La richiesta sarebbe ancorata a una «matrice razionalmente unitaria», idonea al raggiungimento dello scopo dichiarato e anche esaustiva, essendo incentrata sulla sola e unica fattispecie penale dell’omicidio del consenziente. Il quesito non presenterebbe neppure un asserito taglio manipolativo: la sua formulazione e l’esito cui si intenderebbe pervenire – l’eliminazione della fattispecie dell’omicidio del consenziente – ne confermerebbero, infatti, la natura meramente ablativa, «niente affatto innovativa o tantomeno sostitutiva di norme».

4.2.– Riguardo agli eventuali effetti dell’abrogazione referendaria, la difesa dei promotori, richiamando diversi precedenti di questa Corte, ricorda, da un lato, che eventuali criticità o profili di illegittimità costituzionale delle normativa di risulta non potrebbero condurre, per ciò solo, a una dichiarazione di inammissibilità del quesito e, dall’altro, che questa Corte, pur non potendo compiere in sede di valutazione di ammissibilità del referendum abrogativo un giudizio anticipato di legittimità costituzionale, ben potrebbe rivolgere specifiche indicazioni al legislatore, al fine di superare eventuali profili di criticità conseguenti all’abrogazione referendaria.

4.3.– I promotori precisano, inoltre, che con l’abrogazione referendaria non verrebbe affatto «totalmente depenalizzata» la condotta dell’omicidio del consenziente, perché non verrebbe eliminata la rilevanza penale per le ipotesi, sia di condotte contro persone che si trovino in un particolare stato di vulnerabilità, ossia i minori e le persone inferme di mente o affette da deficienza psichica, sia per le ipotesi di consenso non libero, estorto o carpito con l’inganno, in base a quanto previsto dall’attuale art. 579, terzo comma, cod. pen., il quale non sarebbe inciso dalla odierna richiesta di referendum.

In altri termini, il presidio penale non verrebbe eliminato, bensì perimetrato sulla base di quelle medesime esigenze che questa stessa Corte, fissando le condizioni che renderebbero lecita la condotta dei terzi cooperanti all’attuazione del proposito suicidario, avrebbe individuato con la sentenza n. 242 del 2019.

Si sottolinea, infatti, come l’odierno quesito referendario si porrebbe in linea di ideale e concreta continuità rispetto a quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 242 del 2019 per l’aiuto al suicidio e, stante la «perdurante inerzia del legislatore» in materia, mirerebbe a superare la punizione di una condotta che, seppur differente rispetto a quella dell’aiuto al suicidio, risulta certamente a essa contigua, se si considerano le analoghe, se non identiche, condizioni in cui versa la persona che richiede di porre fine alla propria vita.

Il quesito referendario mirerebbe, pertanto, anche ad eliminare la discriminazione oggi in atto verso quei malati che «non sono in condizione di ottenere una morte volontaria attraverso l’autosomministrazione del farmaco» e, in tal modo, i profili di irragionevolezza fra le fattispecie dell’aiuto al suicidio, così come risultante dall’intervento di questa Corte, e dell’omicidio del consenziente. Fattispecie che, sebbene differenziate per taluni elementi, risultano omogenee e analoghe, sia rispetto all’esito cui in entrambi i casi si perverrebbe, sia in ordine al rilievo – che questa Corte avrebbe valorizzato nella sentenza n. 242 del 2019 – della dignità soggettiva personale del paziente. Ferma restando – così si continua – la possibilità per il legislatore di intervenire al fine di introdurre una regolamentazione tesa a sistematizzare complessivamente la materia, seppur nel rispetto di quanto sancito da questa Corte in merito all’aiuto al suicidio e dell’esito della stessa consultazione referendaria.

4.4.– Ciò chiarito, la difesa dei promotori ritiene che in caso di abrogazione per via referendaria, e ancor prima dell’intervento del legislatore, assumerebbe decisiva importanza la funzione interpretativa dei giudici e non vi sarebbe nessun rischio di «allenta[re] per via referendaria» la «“cintura di protezione”» che questa Corte ha configurato nella più volte citata sentenza n. 242 del 2019.

Si sostiene, infatti, che l’analisi della giurisprudenza di merito e di legittimità, chiamata a dare applicazione alla disposizione oggetto del quesito referendario, farebbe emergere un quadro univoco, in forza del quale il consenso di cui all’art. 579 cod. pen. deve presentare alcune peculiari caratteristiche, ossia deve essere serio, esplicito, non equivoco, attuale e perdurante fino al momento della realizzazione della condotta dell’omicida. In linea, poi, con tali requisiti, sarebbero previsti una valutazione e un accertamento estremamente rigorosi in sede processuale. Verrebbe, quindi, certamente esclusa la possibilità di desumere l’esistenza del consenso da semplici ed estemporanee manifestazioni di sofferenza e, in modo del tutto conseguente, sarebbe possibile «intercettare (facendole ricadere nel perimetro della più gravemente punita fattispecie di omicidio volontario) tutte quelle situazioni in cui la formazione della volontà sia stata in qualche modo viziata e condizionata»; con ciò, in definitiva, scongiurando il rischio di una mancata tutela delle persone fragili e vulnerabili.

Proprio rispetto a tali categorie di soggetti, la difesa dei promotori ricorda che, anche «a fronte della richiesta di manipolazione dell’art. 579 c.p.», sarebbero, comunque sia, presidiati a livello penale i casi di coinvolgimento del minore, di persone che versano nelle condizioni di deficienza psichica e di infermità, di consenso estorto con violenza, minaccia, suggestione, o carpito con inganno, ossia le categorie protette dall’art. 579, terzo comma, cod. pen., non interessate dall’odierno quesito referendario. E si precisa che, anche per la seconda e la terza categoria, le quali «sollecitano interrogativi di non marginale portata», sussisterebbe «un contesto – normativo e giurisprudenziale» – idoneo ad offrire «solide sponde per assicurare una tutela piena ed effettiva» alle persone che in esse potrebbero essere ricomprese.

Sui concetti di deficienza psichica, infermità psichica e di suggestione, l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità formatasi attorno alla fattispecie incriminatrice delle condotte di circonvenzione di incapace di cui all’art. 643 cod. pen., offrirebbe, infatti, idonee garanzie al fine di «intercettare» le ipotesi in cui la capacità della persona di esprimere un valido consenso sia stata in qualsiasi forma condizionata ab exeterno (si citano Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 9 novembre 2016-8 febbraio 2017, n. 5791 e 26 maggio-9 settembre 2015, n. 36424).

Inoltre, proprio la giurisprudenza di legittimità che si è formata sull’art. 579 cod. pen. (si cita Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 19 aprile 2018-9 gennaio 2019, n. 747) indurrebbe ad escludere che l’abrogazione parziale dell’omicidio del consenziente possa esplicare «effetti di depenalizzazione» per i fatti commessi contro persone che non abbiano piena coscienza della propria richiesta. Si mette in evidenza, infatti, che, a viziare il consenso, sarebbe sufficiente anche una non totale diminuzione della capacità psichica che renda, sia pure momentaneamente, il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo atto. La giurisprudenza di legittimità, infatti, intenderebbe «l’infermità psichica e la deficienza psichica» quale una minorata capacità psichica, anche con compromissione del potere di critica e minorazione della sfera volitiva ed intellettiva, che agevoli la suggestione della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie. Da ciò, si conclude che «tutti quei casi spesso citati per destare perplessità sulla tenuta del quesito referendario, come la delusione amorosa, la crisi finanziaria dell’imprenditore», sarebbero considerati, in sede processuale, quali circostanze che determinerebbero la contestazione «del comma 3», e quindi indurrebbe ad escludere che il consenso eventualmente prestato possa considerarsi valido, così determinando l’applicazione del reato di omicidio doloso. E, allorché dovessero scaturire delle difficoltà applicative dalla disciplina risultante dall’abrogazione referendaria, difficoltà che i giudici non sarebbero in grado di dirimere con gli ordinari strumenti interpretativi e in specie ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata, rimarrebbe pur sempre la possibilità di sollevare «questione di costituzionalità».

4.5.– Da ultimo, la difesa del comitato promotore prende posizione sulla asserita natura costituzionalmente obbligata, vincolata o necessaria della tutela penale del bene della vita, con particolare riguardo alle persone che versano in condizioni di vulnerabilità o fragilità, secondo una visione che si è sviluppata «nel dibattito che ha recentemente interessato la tematica del fine vita». Si sostiene, infatti, che secondo la tesi contestata, alcune posizioni soggettive reclamerebbero, sempre e incondizionatamente, ossia a prescindere dalla specificità del caso concreto e dalla capacità della persona di esprimere un valido consenso, una protezione di tipo penale, data la «rilevanza sistematica del bene vita». In altri termini, questa tesi sembrerebbe fondarsi sull’idea che l’unico strumento normativo idoneo a proteggere le persone fragili e vulnerabili sia quello penale.

Tuttavia, «un simile ragionamento» – così si continua – si scontrerebbe, sia con la giurisprudenza costituzionale (si citano le sentenze n. 447 del 1998, n. 411 del 1995, n. 49 del 1985 e n. 226 del 1983), sia con «la più autorevole dottrina (costituzionalistica e penalistica)» la quale, invece, avrebbe negato la possibilità di ricavare dal testo costituzionale «degli obblighi positivi di incriminazione». Si ricorda, inoltre, come questa Corte, nella sentenza n. 447 del 1998, abbia affermato che le «esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, […]; ché anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio». Posizione analoga sarebbe stata assunta anche dal Tribunale costituzionale tedesco, in due distinte occasioni in cui è stato chiamato a pronunciarsi in materia di aborto. Il giudice costituzionale tedesco, infatti, seppur «in una prima decisione, del 1975,» avrebbe riscontrato l’incostituzionalità delle disposizioni impugnate, in quanto non tutelavano il diritto alla vita del feto attraverso «il ricorso allo strumento penale», in una «seconda pronuncia, invece, che risale al 1993» avrebbe «imposto al legislatore di considerare l’aborto “illegittimo, ma non penalmente punibile”».

In tale prospettiva, quindi, le riflessioni portate avanti, sia in Italia, sia in Germania, darebbero conferma dell’idea che la norma penale non possa essere strumentalmente piegata alla positiva realizzazione dei diritti fondamentali.

Conclusione, questa, che, secondo i promotori, troverebbe conferma anche nella sentenza n. 242 del 2019 (recte: ordinanza n. 207 del 2018), nella parte in cui questa Corte ha affermato che al «legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite». Si ritiene, infatti, che un conto sarebbe riconoscere uno spazio in cui possa dispiegarsi la discrezionalità del Parlamento, altro sarebbe ipotizzare che, in quello stesso spazio, su quest’ultimo gravi un obbligo di penalizzazione direttamente discendente dalla Costituzione.

In definitiva, alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, sarebbe da escludere la natura costituzionalmente imposta, necessaria o obbligatoria del presidio penale.

5.– In data 27 gennaio 2022, hanno depositato memoria le associazioni La società della ragione Aps, Liberi di decidere, Mobilitazione generale degli avvocati (MGA), Walter Piludu Ets Aps e Chi si cura di te Aps, chiedendo che la richiesta di referendum sia dichiarata ammissibile.

6.– In pari data, hanno presentato memoria A buon diritto Onlus Aps, Associazione utenti e consumatori Aps, Consulta di bioetica – Ets, Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) – Ufficio nuovi diritti, ArciAtea – rete per la laicità Aps e VOX – Osservatorio italiano sui diritti, deducendo anch’esse l’ammissibilità della richiesta referendaria.

7.– In data 2 febbraio 2022, hanno depositato memorie l’associazione +EUROPA, chiedendo che il quesito referendario sia dichiarato ammissibile, e l’associazione Pro Vita & Famiglia Onlus, deducendo, invece, l’inammissibilità del ricorso.

8.– In prossimità della camera di consiglio, hanno depositato memorie, chiedendo che il referendum sia dichiarato inammissibile, il Comitato per il no all’uccisione della persona anche se consenziente, il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, il Comitato Famiglie per il ‘no’ al referendum sull’omicidio del consenziente, l’Associazione movimento per la vita, l’associazione Scienza & Vita, il Comitato per il No all’eutanasia legale e l’Unione giuristi cattolici italiani.

Ha depositato, altresì, memoria l’associazione Avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI).

Considerato in diritto

1.– La richiesta di referendum abrogativo, dichiarata conforme alle disposizioni di legge dall’Ufficio centrale per il referendum con ordinanza del 15 dicembre 2021 e denominata «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)», investe l’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti:

a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»;

b) comma secondo: integralmente;

c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano».

2.− In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte, come già avvenuto più volte in passato, non solo ha consentito l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), ma – prima ancora – ha altresì ammesso gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (da ultimo: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012).

Tale ammissione non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque sia, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrino le rispettive posizioni.

3.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di «verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenza n. 17 del 2016).

Ai fini di tale valutazione, è necessario innanzitutto individuare la portata del quesito.

Come questa Corte ha chiarito, «la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento […] (ex plurimis, sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 37 del 2000, n. 17 del 1997)» (sentenza n. 24 del 2011; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 28 del 2017).

Al riguardo, va altresì ribadito che il giudizio di ammissibilità che questa Corte è chiamata a svolgere si atteggia, per costante giurisprudenza, «con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge» (sentenze n. 26 del 2011, n. 45 del 2005, n. 16 del 1978 e n. 251 del 1975). Non sono pertanto in discussione, in questa sede, profili di illegittimità costituzionale, sia della legge oggetto di referendum, sia della normativa risultante dall’eventuale abrogazione referendaria (sentenze n. 27 del 2017, n. 48, n. 47 e n. 46 del 2005). Quel che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una «valutazione liminare ed inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se […] il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale» (sentenze n. 24 del 2011, n. 16 e n. 15 del 2008 e n. 45 del 2005).

3.1.– Nella specie, il quesito referendario verte sull’art. 579 cod. pen., che configura il delitto di omicidio del consenziente. Si tratta di norma incriminatrice strettamente finitima, nell’ispirazione, a quella del successivo art. 580 cod. pen., che incrimina l’aiuto (oltre che l’istigazione) al suicidio. Le due disposizioni riflettono, nel loro insieme, l’intento del legislatore del codice penale del 1930 di tutelare la vita umana anche nei casi in cui il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi, sia manu alius, sia manu propria, ma con l’ausilio di altri. Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell’atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo), il legislatore erige una “cintura di protezione” indiretta rispetto all’attuazione di decisioni in suo danno, inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale.

In quest’ottica, l’art. 579 cod. pen. punisce segnatamente, al primo comma, con la reclusione da sei a quindici anni «[c]hiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui». In tal modo, la norma esclude implicitamente, ma univocamente, che rispetto al delitto di omicidio possa operare la scriminante del consenso dell’offeso, la quale presuppone la disponibilità del diritto leso (art. 50 cod. pen.), accreditando, con ciò, il bene della vita umana del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare.

L’omicidio del consenziente è configurato, pur tuttavia, come fattispecie autonoma di reato, punita con pena più mite di quella prevista in via generale per il delitto di omicidio (art. 575 cod. pen.), in ragione del ritenuto minor disvalore del fatto.

Nella medesima prospettiva di mitigazione del trattamento sanzionatorio, il secondo comma dell’art. 579 cod. pen. rende, altresì, inapplicabili all’omicidio del consenziente le circostanze aggravanti comuni indicate nell’art. 61 cod. pen.

Il successivo terzo comma dell’art. 579 cod. pen. sottrae, peraltro, al perimetro applicativo della fattispecie meno severamente punita, riportandole nell’alveo della fattispecie comune, le ipotesi nelle quali il consenso sia prestato da un soggetto incapace o risulti affetto da un vizio che lo rende invalido. La disposizione stabilisce, in particolare, che «[s]i applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».

3.2.– Il quesito referendario in esame è costruito con la cosiddetta tecnica del ritaglio, ossia chiedendo l’abrogazione di frammenti lessicali della disposizione attinta, in modo da provocare la saldatura dei brani linguistici che permangono. Agli elettori viene, infatti, chiesto se vogliano una abrogazione parziale della norma incriminatrice che investa il primo comma dell’art. 579 cod. pen., limitatamente alle parole «la reclusione da sei a quindici anni»; l’intero secondo comma; il terzo comma, limitatamente alle parole «Si applicano».

Per effetto del ritaglio e della conseguente saldatura tra l’incipit del primo comma e la parte residua del terzo comma, la disposizione risultante dall’abrogazione stabilirebbe quanto segue: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».

Il risultato oggettivo del successo dell’iniziativa referendaria sarebbe, dunque, quello di rendere penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione. Eliminando la fattispecie meno severamente punita di omicidio consentito e limitando l’applicabilità delle disposizioni sull’omicidio comune alle sole ipotesi di invalidità del consenso dianzi indicate, il testo risultante dall’approvazione del referendum escluderebbe implicitamente, ma univocamente, a contrario sensu, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente in tutte le altre ipotesi: sicché la norma verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo.

L’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili.

Alla luce della normativa di risulta, la “liberalizzazione” del fatto prescinderebbe dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, le quali non dovrebbero risultare necessariamente legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche, potendo connettersi anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui. Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere). Né può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione.

3.3.– Al riguardo, non può essere, infatti, condivisa la tesi sostenuta dai promotori nel presente giudizio, e ripresa anche nelle difese di alcuni degli intervenuti, stando alla quale la normativa di risulta andrebbe reinterpretata alla luce del quadro ordinamentale nel quale si inserisce: porterebbe a ritenere che, ai fini della non punibilità dell’omicidio del consenziente, il consenso dovrebbe essere espresso nelle forme previste dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e in presenza delle condizioni alle quali questa Corte, con la citata sentenza n. 242 del 2019, ha subordinato l’esclusione della punibilità per il finitimo reato di aiuto al suicidio, di cui all’art. 580 cod. pen., non attinto dal quesito referendario (di modo che il consenziente dovrebbe identificarsi in una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche per lei assolutamente intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli).

A fronte della limitazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente alle sole ipotesi espressamente indicate dall’attuale terzo comma dell’art. 579 cod. pen., nulla autorizzerebbe a ritenere che l’esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della “procedura medicalizzata” prefigurata dalla legge n. 219 del 2017 per l’espressione (o la revoca) del consenso a un trattamento terapeutico (o del rifiuto di esso).

Del resto, anche l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, dopo aver proposto, con ordinanza non definitiva del 30 novembre 2021, una denominazione del quesito referendario nella quale non compariva la parola «eutanasia» – in specie, quella di «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice di penale (omicidio del consenziente)» –, non ha poi accolto, con l’ordinanza conclusiva del 15 dicembre 2021, la richiesta dei promotori di aggiungere a tale denominazione la frase «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole, informato». Ha rilevato, infatti, l’Ufficio centrale che l’integrazione proposta prospettava un bilanciamento tra i due diritti che vengono in gioco (diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione) che non trova fondamento nella sentenza n. 242 del 2019 e non «è rispettoso dei limiti di un quesito di natura abrogativa, spingendosi piuttosto sul terreno di scelte eventualmente spettanti agli organi istituzionalmente competenti all’adozione di una disciplina organica della materia».

4.– A quest’ultimo proposito, non è neppure significativo, agli odierni fini, che l’iniziativa referendaria – nata quale reazione all’inerzia del legislatore nel disciplinare la materia delle scelte di fine vita, anche dopo i ripetuti moniti provenienti da questa Corte (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018) – sia destinata, nell’idea dei promotori, a fungere da volano per il varo di una legge che riempia i vuoti lasciati dal referendum.

Come precisato, infatti, da questa Corte, sono irrilevanti in sede di giudizio di ammissibilità del referendum «i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa, quale è quella prevista dall’art. 75 della Costituzione, è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina. Ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare, tra l’altro, se essa abbia per avventura un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione» (sentenza n. 17 del 1997).

5.– Proprio questa, in effetti, è l’ipotesi che ricorre nel caso in esame, venendo il quesito referendario ad incidere su normativa costituzionalmente necessaria.

5.1.– A partire dalla sentenza n. 16 del 1978, questa Corte ha costantemente affermato l’esistenza di «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.». Una delle categorie allora individuate consisteva nei «referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)».

All’interno di questa categoria di norme legislative che non possono essere oggetto di richieste referendarie, la sentenza n. 27 del 1987 ha chiarito che debbono essere enucleate «due distinte ipotesi: innanzitutto le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”».

Successivamente, la sentenza n. 35 del 1997 ha riferito quest’ultima ipotesi anche a quelle «leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione», e la sentenza n. 49 del 2000 ha puntualizzato che le leggi «costituzionalmente necessarie», poiché sono «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento».

Con la sentenza n. 45 del 2005, infine, si è ulteriormente precisato, per un verso, che la natura di legge costituzionalmente necessaria può anche essere determinata dal fatto che una certa disciplina «coinvolg[a] una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa», e per l’altro, che «il vincolo costituzionale può anche riferirsi solo a parti della normativa oggetto del quesito referendario o anche al fatto che una disciplina legislativa comunque sussista».

5.2.– Nel caso oggi in esame viene in considerazione un valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona.

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire in più occasioni, il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., è «da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”» (sentenza n. 35 del 1997). Esso «concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona» (sentenza n. 238 del 1996).

Posizione, questa, confermata da ultimo, proprio per la tematica delle scelte di fine vita, nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, ove si è ribadito che il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, è il «“primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri», ponendo altresì in evidenza come da esso discenda «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».

5.3.– Rispetto al reato di omicidio del consenziente, può, d’altro canto, ripetersi quanto già osservato da questa Corte in rapporto alla figura finitima dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018). Se è ben vero, cioè, che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice di cui all’art. 579 cod. pen., intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini, non è però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma «alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi».

Vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente assolve, in effetti, come quella dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018), allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.

A questo riguardo, non può non essere ribadito il «cardinale rilievo del valore della vita», il quale, se non può tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure consente una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite» (ordinanza n. 207 del 2018). Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima.

Discipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale.

La norma incriminatrice vigente annette a quest’ultima una incidenza limitata, che si risolve nella mitigazione della risposta sanzionatoria, in capo all’autore del fatto di omicidio, in ragione del consenso prestato dalla vittima. Non si tratta di una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, non essendo quella ora indicata l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana. Discipline come quella considerata possono essere modificate o sostituite dallo stesso legislatore con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano.

Già in occasione di uno dei referendum sull’interruzione della gravidanza, questa Corte ha del resto dichiarato inammissibile la richiesta referendaria, richiamando la necessità di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, con specifico riferimento al diritto alla vita (sentenza n. 35 del 1997).

5.4.– Non gioverebbe opporre – come fanno i promotori e alcuni degli intervenienti – che l’abrogazione dell’art. 579 cod. pen. richiesta dal quesito referendario, non essendo totale, ma solo parziale, garantirebbe i soggetti vulnerabili, in quanto resterebbero ancora puniti gli omicidi perpetrati in danno dei soggetti indicati dall’attuale terzo comma: e ciò tanto più alla luce del rigore con il quale la giurisprudenza ha mostrato sinora di valutare la ricorrenza dei presupposti di operatività della fattispecie meno gravemente punita dell’omicidio del consenziente.

Le ipotesi alle quali rimarrebbe circoscritta la punibilità attengono, infatti, a casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza alle quali hanno fatto riferimento le richiamate pronunce di questa Corte non si esauriscono, in ogni caso, nella sola minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici); senza considerare che l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili.

In tutte queste ipotesi, l’approvazione della proposta referendaria – che, come rilevato, renderebbe indiscriminatamente lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito senza incorrere nei vizi indicati, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata – comporterebbe il venir meno di ogni tutela.

6.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve quindi concludersi per la natura costituzionalmente necessaria della normativa oggetto del quesito, che, per tale motivo, è sottratta all’abrogazione referendaria, con conseguente inammissibilità del quesito stesso.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe, dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 15 dicembre 2021.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 febbraio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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Vigile attesa significa controllo non abbandono

CONSIGLIO DI STATO – sezione terza – 09/02/2022 n. 946

Emerge con tutta evidenza come la circolare impugnata non violi in alcun modo il principio di precauzione, ma anzi ne costituisca applicazione, fondandosi sulla valutazione in sede istruttoria di tutti i dati scientifici disponibili, mentre gli odierni appellati non sono riusciti a dimostrare, sulla base di evidenze scientifiche attendibili e, dunque, di studi clinici randomizzati e controllati, che la circolare raccomandi trattamenti terapeutici inutili o dannosi o, al contrario, sconsigli farmaci appropriati per la cura domiciliare della malattia in contrasto con dette evidenze.

SENTENZA

ai sensi degli artt. 38 e 60 c.p.a. sul ricorso numero di registro generale 411 del 2022, proposto dal Ministero della Salute, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

Omissis , rappresentati e difesi dall’Avvocato Erich Grimaldi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Valentina Piraino in Roma, via Rodolfo Lanciani, n. 69;

per la riforma

della sentenza n. 419 del 15 gennaio 2022 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. III, resa tra le parti, che ha annullato le linee guida per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2 (Covid-19).

visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio degli appellati, ricorrenti in prime cure, Fabrizio Salvucci, di Riccardo Szumski e di Luca Poretti;

visti tutti gli atti della causa;

uditi i difensori e viste le conclusioni delle parti come da verbale;

relatore nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2022 il Consigliere Massimiliano Noccelli;

sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;

1. Il 30 novembre 2020 il Ministero della Salute (di qui in avanti, per brevità, il Ministero), odierno appellante, ha adottato una circolare intitolata “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2”, 2 al fine di fornire indicazioni operative, tenuto conto dell’attuale evoluzione della situazione epidemiologica sul territorio nazionale.

1.1. Tale circolare conteneva un espresso rinvio alla nota dell’Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA (di qui in avanti, per brevità, l’AIFA), recante “Principi di gestione dei casi covid 19 nel setting domiciliare” e comprendente «raccomandazioni sul trattamento farmacologico domiciliare dei casi lievi e una panoramica generale delle linee di indirizzo AIFA sulle principali categorie di farmaci utilizzabili in questo setting».

1.2. Avverso questa circolare nonché avverso la nota dell’AIFA in essa recepita, gli stessi odierni appellati hanno proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (di qui in avanti, per brevità, solo il Tribunale), iscritto al R.G. n. 1557/2020.

1.3. Questo giudizio è stato definito dalla sentenza n. 8995 del 2021 del medesimo Tribunale, che ne ha statuito l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, motivata dalla sopravvenienza della successiva circolare del 26 Aprile 2021.

1.4. Con la circolare del 26 Aprile 2021, infatti, il Ministero ha provveduto all’aggiornamento della circolare del 30 novembre 2020, «tenuto conto dell’evoluzione della situazione epidemiologica sul territorio nazionale e delle emergenti conoscenze scientifiche».

1.5. Tale aggiornamento è stato curato da un Gruppo di Lavoro (tra i cui componenti figurano rappresentanti istituzionali, professionali e del mondo scientifico e, in particolare, anche un rappresentante dei Medici di Medicina generale – MMG), appositamente costituito dalla Direzione Generale della Programmazione Sanitaria e dalla Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria del Ministero.

1.6. Su tale aggiornamento ha espresso peraltro parere favorevole il Consiglio superiore di sanità.

1.7. La circolare fornisce una panoramica generale delle linee di indirizzo dell’AIFA sulle principali categorie di farmaci, precisando che le raccomandazioni fornite sui farmaci per la gestione domiciliare di COVID-19 riflettono la letteratura e le indicazioni esistenti e si basano anche sulle Schede Informative AIFA, aggiornate in relazione alla rapida evoluzione delle evidenze scientifiche (https://www.aifa.gov.it/aggiornamento-sui-farmaciutilizzabili-per-il-trattamento-della-malattia-covid19 ).

1.8. Dopo aver dato indicazioni in merito all’avvio del paziente alla terapia con anticorpi monoclonali, alle indicazioni relative alla gestione domiciliare del COVID-19 in età pediatrica ed evolutiva, ed alle prestazioni in telemedicina, la suddetta circolare riporta espressamente le aggiornate raccomandazioni dell’AIFA sui farmaci per la gestione domiciliare di COVID-19.

2. Per l’annullamento della suddetta circolare del 26 aprile 2021, unitamente ad ogni altro atto connesso, presupposto ovvero consequenziale, hanno proposto ricorso al Tribunale i dottori Fabrizio Salvucci, Riccardo Szumski e Luca Poretti, odierni appellati, censurandola nella parte in cui «nei primi giorni di malattia da Sars-Cov-2, prevede unicamente una “vigilante attesa” e la somministrazione di fans e paracetamolo, nonché nella parte in cui pone indicazioni di non utilizzo di tutti i farmaci generalmente utilizzati dai medici di medicina generale per i pazienti affetti da covid».

2.1. A sostegno delle proprie tesi gli appellati hanno esposto di essere medici di medicina generale e specialisti che, durante la pandemia da COVID-19, si sono occupati dei pazienti, affetti da tale patologia, esercitando la loro attività sull’intero territorio nazionale e di essere, pertanto, destinatari della nota, oggetto di impugnazione, che stabilisce i criteri di trattamento dei pazienti affetti da COVID-19 in ambito domiciliare.

2.2. I ricorrenti in prime cure, odierni appellati, hanno contestato le Linee guida da AIFA e recepite dal Ministero, sulla gestione domiciliare del paziente, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, fanno un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti stessi.

2.3. La comunicazione oggetto di impugnativa, infatti, disporrebbe quali unici criteri confermati e definiti per il trattamento dei pazienti affetti da Sars-CoV-2 una vigilante attesa e la somministrazione successiva di FANS e paracetamolo.

2.4. Il provvedimento impugnato porrebbe invero alle pp. 11 e 12, in particolare, importanti limitazioni all’utilizzo degli altri farmaci generalmente utilizzati dai territori con la conseguenza che rende inutile e dagli esiti nefasti la gestione del paziente a domicilio. 2.5. Nella terapia del COVID-19, hanno sostenuto in sintesi i ricorrenti in prime cure allegando anche documentazione scientifica, evidenze cliniche riscontrate in molti Paesi, non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti dal Prof. H. Risch di Yale University o dal Prof. P. McCullough di Texas University, come da molte pubblicazioni scientifiche, dimostrano come sia palmare che, per trattare efficacemente il paziente affetto da Sars-CoV-2, il timing, la precocità di intervento terapeutico, sia tutto.

2.5. Nelle more del giudizio così introdotto, l’AIFA ha provveduto a pubblicare due successivi aggiornamenti delle raccomandazioni, segnatamente il 4 ottobre 2021 e il 14 dicembre 2021.

2.6. Tali aggiornamenti non hanno peraltro formato oggetto di cognizione da parte del Tribunale nell’ambito del giudizio R.G. n. 6949/2021.

2.7. Piuttosto, solo il primo di tali aggiornamenti ha formato oggetto di autonomo ricorso al Tribunale, iscritto al R.G. n. 13510/21, allo stato non definito.

2.8. Nel giudizio definito dalla sentenza oggi impugnata si è costituito il Ministero della Salute, eccependo:

– l’inammissibilità del ricorso, per le ragioni che qui di seguito si riassumono:

a) l’omessa impugnazione della Raccomandazione AIFA, recepita nella circolare ministeriale come sua parte integrante, e dei relativi aggiornamenti medio tempore intervenuti;

b) l’inidoneità della circolare impugnata a ledere gli interessi dei ricorrenti, in quanto recante indicazioni orientative, insuscettibili di incidere sull’autonomia prescrittiva del medico;

c) la natura della situazione soggettiva azionata, adombrandosi nel ricorso la lesione di interessi diffusi, azionati dai ricorrenti per conto anche di altri medici o, comunque, quali portatori di interessi della categoria dei medici di medicina generale, ovvero finanche dei pazienti, in un’inedita quanto non consentita forma di sostituzione processuale;

– l’infondatezza del ricorso, per le ragioni qui di seguito sempre compendiate:

a) nella misura in cui lo stesso è diretto a sostenere che la circolare realizzerebbe un’illegittima limitazione dell’autonomia prescrittiva dei medici, imponendo loro il rispetto di una serie di divieti: in breve, secondo il Ministero, le linee di indirizzo fornite – lungi dall’integrare una lista dei “farmaci da non usare” e, quindi, un elenco di divieti rivolti ai medici – recano semplicemente la definizione delle condizioni in cui le evidenze di letteratura consentono di stimare l’efficacia di un farmaco raccomandandone, o meno, l’utilizzo;

b) nella misura in cui si incentra sulla contestazione nel merito delle valutazioni tecnico-discrezionali dell’AIFA richiamate nella circolare, si è contestata in particolare, da parte delle amministrazioni resistenti, la mancanza di attendibilità scientifica delle esperienze cliniche dei ricorrenti, non potendosi legittimamente accordare preferenza al dato empirico rispetto a quello scientifico posto a base della valutazione tecnico-discrezionale dell’Autorità regolatoria.

2.9. Il Ministero ha, inoltre, invocato i noti limiti del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica, in mancanza di vizi macroscopici quali il travisamento dei fatti e l’assoluta abnormità/illogicità del relativo esercizio.

3. Con la sentenza n. 419 del 15 gennaio 2022, all’esito del giudizio così instaurato dagli odierni appellati, il Tribunale ha accolto il ricorso.

3.1. Segnatamente, il primo giudice ha rigettato l’eccezione di inammissibilità per omessa impugnativa della nota AIFA del 26 aprile 2021 richiamata nella circolare, ritenendo che «nel momento in cui l’indicata raccomandazione è stata pedissequamente mutuata nella circolare ministeriale essa ha perso ogni singolare valenza, compresa una sua autonoma esistenza giuridica ed ha costituito, pertanto, la sola motivazione del provvedimento contestato».

3.2. Ciò posto, il Tribunale ha statuito che «le censurate linee guida, come peraltro ammesso dalla stessa resistente, costituiscono mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli» e che «in disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito».

3.3. La prescrizione dell’AIFA, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasterebbe, pertanto, «con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione [sic, n.d.r.], imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi [sic, n.d.r] eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia COVI 19 [sic, n.d.r.] come avviene per ogni attività terapeutica».

4. Avverso tale sentenza il Ministero ha proposto appello avanti a questo Consiglio di Stato, deducendone l’erroneità con un unico articolato motivo, di cui meglio si dirà in seguito, con il quale ha dedotto la violazione o la falsa applicazione di legge in relazione all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 23 del 1998, conv con mod. in l. n. 94 del 1998, degli artt. 47-bis, comma 2, 47-ter, comma 1, lett. a), del d. lgs. n. 300 del 1999 nonché dell’art. 48, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003, e ne ha chiesto, previa sospensione dell’esecutività, la riforma, con la conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso, proposto in primo grado dagli odierni appellati.

4.1. Con il decreto n. 207 del 19 gennaio 2022 il Presidente della III Sezione ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata e ha fissato, per la trattazione collegiale della domanda cautelare proposta dal Ministero, la camera di consiglio del 3 febbraio 2022.

4. Gli odierni appellati si sono costituiti, con la memoria difensiva tardivamente depositata il 2 febbraio 2022, per chiedere la reiezione dell’appello e della domanda incidentale di sospensione della esecutività della sentenza impugnata.

4.1. Nella camera di consiglio del 3 febbraio 2022 il Collegio ha di poter eventualmente decidere la controversia ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ne ha dato rituale avviso alle parti e, sentiti i difensori delle parti e sulle conclusioni dagli stessi rassegnate come da verbale, dopo ampia discussione orale ha trattenuto la causa in decisione.

5. L’appello proposto dal Ministero è fondato per le ragioni che seguono.

5.1. In via preliminare deve essere dichiarata la tardività della memoria difensiva depositata dagli odierni appellati solo il 2 febbraio 2022, il giorno precedente la camera di consiglio fissata alla data del 3 febbraio 2022 per la trattazione collegiale della domanda cautelare proposta dal Ministero appellante, con la conseguente inammissibilità delle argomentazioni difensive svolte in detta memoria e della documentazione allegata alla stessa per la violazione del termine previsto dall’art. 55, comma 5, c.p.a., secondo cui le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio.

5.2. Rimane ferma, e valida, la costituzione a mezzo di tale memoria degli appellati, che del resto, per il tramite del loro difensore, hanno svolto ampie e argomentate deduzioni difensive nel corso della discussione orale tenutasi nell’udienza camerale, nella quale il Collegio ha dato avviso orale alle parti della possibilità di definire la controversia in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a.

6. La risoluzione delle questioni controverse, relative alla legittimità delle Linee guida adottate dal Ministero sulla base delle raccomandazioni dell’AIFA in ordine alla gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2, impone di definire, e circoscrivere precisamente, l’oggetto del giudizio.

6.1. La circolare ministeriale del 26 aprile 2021 si limita a raccogliere le indicazioni degli organismi internazionali, i pronunciamenti delle autorità regolatorie e gli orientamenti di buona pratica clinica asseverati dagli studi nazionali ed internazionali, al fine di fornire a tutti gli operatori interessati un quadro sinottico, aggiornato ed autorevole, di riferimento.

6.2. Le raccomandazioni così fornite sono, dunque, in primo luogo espressione della funzione regolatoria dell’AIFA, ai sensill’art. 48, commi 3 e 5, del d. lgs. n. 269 del 2003, e il loro contenuto è stato poi arricchito con ulteriori indicazioni terapeutiche fornite dal Gruppo di lavoro a tal fine costituito, ed il testo conclusivo, acquisito il parere del Consiglio superiore di sanità, è stato infine pubblicizzato e diramato con la circolare qui contestata.

6.3. Come rileva il Ministero appellante, che si tratti di mere indicazioni/raccomandazioni è reso evidente, prima di tutto, dal tenore testuale della circolare, posto che non vi si istituiscono divieti e precetti e si fa riferimento, piuttosto, a «indicazioni di gestione clinica», richiamando le linee di indirizzo dell’AIFA.

6.4. La tesi degli odierni appellati, accolta invece dal primo giudice, è che la circolare conterrebbe una lista dei “farmaci da non usare”.

6.5. Al contrario, essa reca solo la definizione di condizioni per le quali le evidenze di letteratura consentono di stimare l’efficacia di un farmaco raccomandandone o meno l’utilizzo, così da non realizzare alcuna interferenza con l’autonomia prescrittiva del medico.

6.6. Al riguardo è bene rammentare – v, sul punto, già l’ordinanza n. 7097 dell’11 dicembre 2020 di questa Sezione, ai §§ 23-23.4. – che l’art. 3, comma 2, del d.l. n. 23 del 1998, conv. in l. n. 94 del 1998, dispone, quanto all’utilizzo off label di farmaci autorizzati per determinate indicazioni terapeutiche, che «in singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di 9 somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536 , convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale».

6.7. Nel caso di specie, l’atto annullato non impone divieti o limitazioni all’utilizzo di farmaci, bensì si limita ad indicare, con raccomandazioni e linee di indirizzo basate sulle migliori evidenze di letteratura disponibili, i vari percorsi terapeutici, a seconda del ricorrere di specifiche condizioni.

6.8. Più precisamente, le raccomandazioni si riferiscono alla gestione farmacologica dei casi lievi di COVID-19.

7. In linea generale, per le persone con queste caratteristiche cliniche non è indicata alcuna terapia, al di fuori di un eventuale trattamento sintomatico di supporto.

7.1. Tra le indicazioni si introduce la valutazione sui pazienti da indirizzare nelle strutture di riferimento per il trattamento con anticorpi monoclonali, vengono date indicazioni più accurate sull’utilizzo dei cortisonici, specificati gli usi inappropriati dell’eparina, indicati i farmaci che è raccomandato non utilizzare.

7.2. Infine, nei soggetti a domicilio asintomatici o paucisintomatici, viene esplicitato il concetto di “vigile attesa”, intesa – lo si vedrà meglio anche in seguito – come sorveglianza clinica attiva, costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente.

7.3. In particolare, la circolare consiglia – ma, si ribadisce, di certo non impone – di:

– non modificare, a meno di stringente ragione clinica, le terapie croniche in atto per altre patologie (es. terapie antiipertensive, ipolipemizzanti, ipoglicemizzanti, anticoagulanti o antiaggreganti, terapie psicotrope);

– utilizzare un trattamento di tipo sintomatico con paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso, o altri farmaci sintomatici su giudizio clinico;

– non utilizzare routinariamente corticosteroidi, perché un utilizzo precoce di questi farmaci si è rivelato inutile, se non dannoso, in quanto in grado di inficiare lo sviluppo di un’adeguata risposta immunitaria;

– utilizzare l’eparina solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto;

– evitare l’uso empirico di antibiotici, in quanto il loro eventuale utilizzo è da riservare esclusivamente ai casi in cui l’infezione batterica sia stata dimostrata da un esame microbiologico e a quelli in cui il quadro clinico ponga il fondato sospetto di una sovrapposizione batterica;

– non utilizzare l’idrossiclorochina, la cui efficacia non è stata confermata in nessuno degli studi clinici randomizzati fino ad ora condotti;

– valutare, nei pazienti a rischio di progressione di malattia, la possibilità di trattamento precoce con anticorpi monoclonali da parte delle strutture abilitate alla prescrizione.

7.4. La circolare segnala, inoltre, che, a oggi, non esistono evidenze solide e incontrovertibili – ovvero derivanti da studi clinici controllati – di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (come vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercitina), il cui utilizzo per questa indicazione non è, quindi, raccomandato (ma, si noti, lo stesso non è certo vietato).

7.5. Inoltre, come detto, in considerazione della costante evoluzione delle conoscenze sull’infezione, sul decorso della malattia da COVID-19 e sulle possibilità terapeutiche, il documento è periodicamente aggiornato, al fine di rendere le indicazioni conformi alla pratica clinica internazionale, sulla base delle emergenti conoscenze scientifiche, secondo quel modello di amministrazione adattiva e flessibile, già posto in rilievo dalla sentenza n. 7045 del 20 ottobre 2021 di questa Sezione.

8. Così definito l’oggetto del giudizio, dunque, occorre inquadrare anzitutto la questione sul piano giuridico e, poi, esaminare in modo più approfondito, a livello scientifico, i risvolti terapeutici.

9. Quanto al primo aspetto, anzitutto, bene rileva il Ministero appellante come la sentenza impugnata abbia travisato la reale portata della circolare ministeriale e delle richiamate raccomandazioni dell’AIFA, che non contengono prescrizioni vincolanti per i medici e non hanno un effetto precettivo cogente.

9.1. Questo Consiglio di Stato, nell’ordinanza n. 2221 del 23 aprile 2021, richiamata dallo stesso Tribunale all’esito dell’appello cautelare contro l’ordinanza n. 1421 del 2021 nel giudizio R.G. 1557/2020, ha già chiarito che le Linee guida, fondate su evidenze scientifiche documentate in giudizio, forniscono all’autonomia prescrittiva del medito un ausilio senza vincolarlo all’obbligatoria osservanza delle loro raccomandazioni.

9.2. La sentenza impugnata, pur richiamando e citando a fondamento del proprio giudizio le motivazioni di tale ordinanza che, si ribadisce, ha negato espressamente la vincolatività di dette indicazioni, è invece pervenuta – in modo illogico e contraddittorio rispetto alla premessa del proprio ragionamento – all’opposta conclusione secondo cui il contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti prescrizioni scelte terapeutiche, si porrebbe in contrasto con l’attività professionale, così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale.

9.3. In questo modo, però, il Tribunale ha trascurato di considerare ancora una volta che le Linee guida contengano mere raccomandazioni e non prescrizioni cogenti e si collocano, sul piano giuridico, a livello di semplici indicazioni orientative, per i medici di medicina generale, in quanto parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello internazionale.

9.4. Sul piano sistematico, esse si inscrivono dunque a pieno titolo in quella più complessa fenomenologia, ben nota all’esperienza giuridica contemporanea in diversi settori dell’ordinamento, del c.d. soft law che, in ambito medico, assume una connotazione peculiare, per le specifiche ragioni che ora si diranno.

9.5. La Circolare contestata in questo giudizio costituisce, dunque, un documento riassuntivo ed indicativo delle migliori pratiche che la scienza e l’esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, come bene ha messo in rilievo anche il decreto monocratico n. 207 del 19 gennaio 2022 di questo Consiglio di Stato.

10. Non si può pertanto condividere, perché erronea, la conclusione che le Linee guida contenute nella circolare ministeriale – al di là dello stesso strumento formale, la circolare stessa che, come noto, per costante giurisprudenza di questo Consiglio non ha valore normativo o provvedimentale e non ha efficacia vincolante per i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse (v. ex plurimis, sul punto, Cons. St., sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 313) – incidano sostanzialmente sull’autonomia prescrittiva del medico e gli impediscano di prescrivere ai pazienti i farmaci che egli ritenga più idonei a curare l’infezione da Sars-CoV-2 nella gestione domiciliare della malattia.

10.1. Ben è libero il singolo medico, nell’esercizio della propria autonomia professionale, ma anche nella consapevolezza della propria responsabilità, di prescrivere i farmaci che ritenga più appropriati alla specificità del caso, in rapporto al singolo paziente, sulla base delle evidenze scientifiche acquisite.

10.2. La già richiamata disposizione dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 23 del 1998, che riconosce la possibilità di prescrivere, seppure – non va dimenticato – a certe tassative condizioni, il farmaco off label da parte del medico curante, è il portato dell’autonomia decisionale del medico nella propria sfera di competenza, che è uno dei cardini intorno ai quali ruota il diritto sanitario, ed è un principio che si trae non solo dall’art. 33, comma primo, Cost., per il quale la scienza è libera, ma anche dall’art. 9, comma primo, Cost., per il quale la Repubblica promuove la ricerca scientifica.

10.3. Ed è appena il caso di ricordare, come già sottolineato nella già citata ordinanza n. 7097 del 2020 di questo Consiglio, che la Corte costituzionale, in numerose pronunce anche recenti, ha chiaramente affermato questo principio con l’osservazione che la regola di fondo di uno Stato democratico, in questa materia, è costituita dall’autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso informato del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione, sicché «autonomia del medico nelle sue scelte professionali e obbligo di tener conto dello stato delle evidenze scientifiche e sperimentali, sotto la propria responsabilità, configurano dunque un altro punto di incontro dei principi in questa materia» (v., per tutte, Corte cost., 26 giugno 2002, n. 282, ma v. anche Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151 e, più di recente, Corte cost., 12 luglio 2017, n. 169).

10.4. Si può e si deve aggiungere, in questa sede, anche di più, non potendosi prescindere da quanto questa stessa Sezione ha precisato nella recente sentenza n. 7045 del 20 ottobre 2021, con richiamo, peraltro, ai principî generali già affermati, anni or sono, dalla sentenza del 2 settembre 2014, n. 4460.

10.5. Nella relazione di cura e fiducia che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della l. n. 219 del 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), si instaura tra il singolo medico e il singolo paziente, si badi, viene in rilievo ed è centrale un concetto, e un impiego, della cura intesa non come astratto e indifferenziato protocollo, applicabile comunque e a chiunque, ma come scelta terapeutica concreta, costruita sulla base del consenso informato e, dunque, di una scelta condivisa da parte del singolo paziente per il suo benessere psicofisico, secondo la visione che della propria dignità personale e conseguentemente secondo la percezione, unica ed esclusiva, che egli ha del proprio corpo, della propria salute e, per converso, della propria malattia.

10.6. La cura non è una entità astratta, metafisica, calata dall’alto e imposta al singolo paziente, anche a mezzo di raccomandazioni e Linee guida, dallo Stato o dalle istituzioni sanitarie, salvo il caso eccezionale – che qui non ricorre – delle prestazioni sanitarie obbligatorie di cui all’art. 32, comma secondo, Cost., ma il frutto di una strategia concreta, individualizzata, che risponde non solo, e ovviamente, ad una precisa necessità terapeutica, una volta diagnosticata una certa malattia, ma anzitutto al concetto di dignità che di sé ha la singola persona, nell’incontro tra l’autonomia professionale del medico e il consenso informato del paziente (Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460, ma sul tema v., ancor più recente, in ordine alle decisioni di fine vita da parte del paziente la fondamentale pronuncia della Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242).

10.7. Lo stesso art. 1, comma 3, della l. n. 219 del 2017 prevede del resto, in modo chiaro e inequivocabile, che ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.

10.8. La codificazione del sapere scientifico in regole tecniche scritte che, come taluno ha detto, costituisce un punto di non ritorno, il processo di standardizzazione delle cure, l’impiego sempre più frequente di protocolli medici, le raccomandazioni contenute nelle Linee guida in ambito sanitario – si pensi, per tutti, all’art. 5 della l. n. 24 del 2017 – rispondono a livello internazionale e nazionale, come è ovvio, all’esigenza di individuare una strategia terapeutica comune e condivisa, che consenta al medico di fare proprie le acquisizioni scientifiche e le esperienze cliniche diffuse e condivise, che hanno dimostrato un profilo di efficacia e sicurezza largamente acclarato a livello scientifico nella cura di una patologia, e sono cresciuti di pari passo, come bene è stato osservato, con l’affermarsi della medicina basata sull’evidenza (c.d. evidence based medicine), ma non esimono il medico, anzitutto, dal dovere di costruire una terapia condivisa e ritagliata sulle esigenze del singolo paziente, anche adottando terapie non indicate nelle linee guida o nei protocolli, purché – lo si dirà tra breve – sicure ed efficaci.

11. Quest’ordine di idee viene anche espresso, sul piano tecnico, dal concetto di refutabilità delle linee guidain ambito medico, da intendersi nel senso di non necessaria applicabilità rispetto allo specifico caso clinico per le peculiarità di questo, ed è ovvio che questo concetto, che sul piano giuridico si traduce nella non vincolatività dei protocolli stessi, non può e non deve essere confuso con quello, di cui meglio si dirà, della confutabilità dei protocolli stessi.

11.1. È stato bene osservato che la disapplicazione – o, per meglio dire, non applicazione – delle Linee guida e delle buone pratiche – che costituiscono, in senso lato, la cristallizzazione delle migliori regole del sapere scientifico in un determinato momento storico – restituisce rilevanza al paziente come persona in quanto la singolarità, dal punto di vista clinico, non è l’eccezione, ma la norma, sicché, fermo il carattere orientativo “di base” delle linee guida, dei protocolli sanitari o delle buone pratiche clinico-assistenziali per tutti i medici, ad ogni malato deve essere assicurato, nella diagnosi della malattia e nella prescrizione della cura, il rispetto della propria – eventuale – “diseguaglianza clinica”.

11.2. In ciò si manifesta appunto la fondamentale differenza, non colta dal primo giudice, tra le regole deontiche, cogenti sul piano giuridico, e le regole tecniche (o anancastiche), come quelle in esame, dettate con carattere riepilogativo di una certa esperienza, nel passato, e orientativo di un certo comportamento, nel futuro, le quali ultime sono appunto refutabili o superabili dal medico, nel doveroso esercizio della propria autonomia professionale, perché si basano su ragioni determinabili e intersoggettivamente valide per essere costruite sull’esperienza più qualificata, che può essere superata, aggiornata e persino smentita dalle peculiarità del quadro clinico, essendo la giustificazione pratica su cui si fonda la regola pratica sottoponibile, come noto, a controllo empirico.

11.3. Come il paziente, il singolo paziente, non è un astratto, anonimo e quasi indifferente oggetto di cura, ma è invece soggetto primario e fine della stessa cura, così il medico, il singolo medico, non è, e non può essere, passivo recettore di acquisizioni scientifiche, meccanico esecutore di protocolli o mero prescrittore di farmaci, adatti a tutti e a nessuno.

12. Sono queste, la irriducibile singolarità del paziente e l’irriducibile autonomia del medico nell’individuazione della cura in concreto nel senso sopra inteso, due aspetti, speculari e inscindibili, di uno stesso essenziale valore, quella relazione di cura e fiducia, cuore del rapporto terapeutico, che risponde al valore più alto dell’ordinamento, la dignità della persona umana, a tutela della quale la Costituzione definisce e garantisce, nell’art. 32, la salute – unico tra i diritti della persona, non a caso, ad essere definito espressamente tale dalla Costituzione – come diritto «fondamentale» dell’individuo.

12.1. Se riguardata da questa irrinunciabile prospettiva, nell’ambito dei valori di civiltà giuridici più alti, in quanto costitutivi della persona umana, tutelati dalla Costituzione, la tesi secondo cui le Linee guida vincolerebbero il medico ad eseguire determinati protocolli o a prescrivere certi farmaci e non altri contro la singolarità del caso clinico urta non solo contro l’autonomia del medico, sancita dal codice di deontologia professionale e dallo stesso ordinamento in numerose disposizioni normative, sopra richiamate, ma anche contro lo stesso diritto alla salute, quale massima, primaria manifestazione della dignità umana, e il principio personalistico posto a base della Costituzione.

12.2. Nemmeno si può ritenere decisivo il richiamo dell’art. 5 della l. n. 24 del 2017 poiché, come bene anzitutto osserva lo stesso Ministero appellante, le Linee guida previste dall’art. 5, comma 1, della l. n. 24 del 2017 (recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”) hanno, a tacer d’altro, presupposti ed effetti ben diversi da quelle qui in considerazione e, dunque, non sono assimilabili a quelle qui contestate.

12.3. Anzi proprio l’esempio di tali Linee guida conferma, invece, che in via generale esse non sono cogenti per il medico, trattandosi, come è stato bene osservato, non di ordini calati dall’altro, categorici e definitivi, ma di suggerimenti, indirizzi motivati, e dediti a tener contro di tutte le istanze, anche confliggenti, quali emergono dal mondo dei sanitari, dei pazienti, degli amministratori, dei giuristi stessi, sicché la stessa dottrina medico-legale, pur nell’ampio dibattito che interessa medici e giuristi sulla natura e sulla portata delle Linee guida di cui non è possibile qui dar conto, concorda ormai sulla loro relatività, sul loro valore orientativo, sull’esclusione, per tutte le ragioni già viste, del loro automatismo applicativo, irragionevole e contrario agli stessi canoni della cura e alla deontologia medica, prima ancora che incostituzionale.

12.4. Lo stesso art. 5, comma 1, della l. n. 24 del 2017 prevede che il medico si attenga ad essi, «salvo la specificità del caso concreto» e il successivo art. 6 ammette l’esclusione della punibilità nel caso in cui l’evento lesivo o mortale in danno del paziente si sia verificato a causa di imperizia del medico quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, purché queste «risultino adeguate alle specificità del caso concreto», ciò che ben si comprende ed appare del resto necessario, e doveroso per il medico, a tutela del singolo paziente quale persona, se si tiene conto di quanto sin qui si è chiarito.

12.6. Né va taciuto come la giurisprudenza, chiamata a fare applicazione degli artt. 5 e 6 della l. n. 24 del 2017, abbia chiarito come l’art. 590-sexies c.p., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, preveda una causa di non punibilità applicabile ai soli fatti, inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 c.p. o di quello dell’art. 590 c.p., e operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse, mentre questa causa di non punibilità non è applicabile, invece, né ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche né quando queste siano individuate e, dunque, selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso, né, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse (Cass. pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017, n. 8770).

12.7. In questa fondamentale pronuncia la Suprema Corte ha sottolineato la scelta del legislatore di pretendere, senza concessioni, che l’esercente la professione sanitaria sia non solo accurato e prudente nel seguire la evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali; aggiornato in relazione non solo alle nuove acquisizioni scientifiche, ma anche allo scrutinio di esse da parte delle società e organizzazioni accreditate e, dunque, alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura; capace di fare scelte ex ante adeguate e di personalizzarle anche in relazione alle evoluzioni del quadro che gli si presentino, con la conseguenza che, se tale percorso risulti correttamente seguito e, ciononostante, l’evento lesivo o mortale si sia verificato con prova della riconduzione causale al comportamento del sanitario, il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore colpevole per imperizia potrà essere quello che chiama in campo la operatività della novella causa di non punibilità.

12.8. Ancora di recente si è ribadito in giurisprudenza che le linee guida, lungi dall’atteggiarsi come regole di cautela a carattere normativo, costituiscono invece raccomandazioni di massima che non sollevano il sanitario dal dovere di verificarne la praticabilità e l’adattabilità nel singolo caso concreto.

12.9. La giurisprudenza della Corte di legittimità è chiara nell’affermare che il rispetto delle linee guida non può essere univocamente assunto quale parametro di riferimento della legittimità e di valutazione della condotta del medico e «nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente» e, pertanto, non può dirsi esclusa la responsabilità colposa del medico in riguardo all’evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, comunque elaborate, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone (v., ex plurimis,Cass. pen., sez. IV, 30 settembre 2021, n. 37617).

13. Dal complesso di tali ragioni non può che discendere, pertanto, l’inammissibilità del ricorso proposto dagli odierni appellati contro le Linee guida, che non hanno una portata cogente per i loro destinatari, poiché essi, quali medici di medicina generale, possono nell’esercizio della propria competenza professionale prescrivere farmaci ulteriori e diversi da quelli raccomandati in esse, purché – e la precisazione è fondamentale – tale prescrizione si fondi su evidenze scientifiche attendibili che assicurino la sicurezza e l’efficacia del farmaco.

14. Resta infatti aperta e non può essere elusa, una volta chiariti questi essenziali aspetti, la questione posta con forza nel presente giudizio dagli odierni appellati, medici di medicina generale, secondo cui essi, discostandosi dalle Linee guida, che raccomandano certi comportamenti o prescrivono (o sconsigliano) la prescrizione di certi farmaci, il medico di medicina generale vedrebbe di fatto notevolmente ridotta, se non annullata, la propria autonomia decisionale, in quanto si esporrebbe addirittura a conseguenze disciplinari o a responsabilità, civile e penale, sicché, di fatto, esse sarebbero cogenti per il medico, a dispetto del nomen usato di raccomandazione.

14.1. L’esame della questione richiede, per la sua esatta comprensione, di analizzare l’altro aspetto, quello scientifico, dell’odierna controversia, inscindibilmente legato a quello giuridico, di cui si si detto, al di là delle osservazioni già svolte.

14.2. Come questo Consiglio di Stato ha chiarito in diverse occasioni (v., ad esempio, l’ord. n. 7097 dell’11 dicembre 2020, in tema di idrossiclorochina nella prima fase epidemica, ma più di recente anche la già richiamata pronuncia di Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045 in tema di vaccinazioni obbligatorie per il personale sanitario), la moderna medicina dell’evidenza richiede che la prescrizione di un farmaco si fondi su accertati profili di accertata efficacia e sicurezza di questo.

14.3. Non è possibile ripercorrere in questa sede, per la complessità del tema generale e dell’ampio dibattito scientifico, ad esso connesso, che prescinde, ma anche esula dall’oggetto del giudizio, il lungo e complesso percorso che ha condotto all’affermazione della c.d. medicina dell’evidenza e, con essa, anche alla crescente cristallizzazione del sapere scientifico in linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali.

14.4. Qui basti ricordare, in estrema sintesi, come l’approccio ormai dominante della scienza medica a partire dagli anni ’90 del secolo scorso nella scelta della terapia più adatta sia quello dell’evidenza scientifica, la c.d. l’evidence based medicine (EBM), alle cui fondamentali acquisizioni può qui farsi solo qualche breve cenno.

14.5. La scelta della cura avviene, secondo tale metodologia, sulla base delle migliori prove di efficacia clinica e, in particolare, di studi clinici a carattere sperimentale, randomizzati e controllati (RCT – controlled randomized trial), che costituiscono il c.d. gold standard della ricerca medica.

14.6. La medicina basata sulle prove, secondo la definizione dei suoi fondatori, è «l’integrazione delle migliori prove di efficacia clinica con la esperienza e l’abilità del medico ed i valori del paziente».

14.7. Il medesimo concetto è stato espresso anche in un altro modo e, cioè, con la precisazione che «l’uso cosciente, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze (cioè prove di efficacia) biomediche al momento disponibili, al fine di prendere le decisioni per l’assistenza del singolo paziente».

14.8. Lo stesso art. 2 del d.l. l. n. 23 del 1998, conv. con mod. in l. n. 94 del 1998, sopra richiamato, consente al medico l’utilizzo di farmaci off label qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e «purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale».

14.9. E d’altro canto nemmeno va trascurata l’ulteriore disposizione, prevista dall’art. 2, comma 348, della l. n. 244 del 2007 (legge finanziaria 2008) – v., sul punto, Corte cost., 12 gennaio 2011, n. 8 – secondo cui l’indicazione terapeutica off label del farmaco da parte del medico curante non è possibile «qualora per tale indicazione non siano disponibili almeno dati favorevoli di sperimentazione clinica di fase seconda».

15. Il complesso di tutte queste disposizioni dimostra, ove ce ne fosse bisogno, che la prescrizione di un farmaco, da parte del medico, non può fondarsi su intuizioni o improvvisazioni sperimentate sulla pelle dei singoli pazienti, ma su evidenze scientifiche e, dunque, su rigorosi studi e precise sperimentazioni cliniche, ormai numerosi a livello internazionale anche nella lotta contro il virus Sars-Cov-2 dopo due anni dall’inizio della pandemia.

15.1. Ora non vi è dubbio che il singolo medico, nel prescrivere un farmaco, possa discostarsi dalle Linee guida, senza incorrere in responsabilità (anzitutto penale, come si è visto supra, rammentando gli orientamenti della Cassazione in materia), purché esistano solide o, quantomeno, rassicuranti prove scientifiche di sicurezza ed efficacia del farmaco prescritto, sulla base dei dati scientifici, pur ancora parziali o incompleti, ai quali possa ricondurre razionalmente il proprio convincimento prescrittivo rispetto alla singolarità del caso clinico.

15.2. La prescrizione del farmaco anche nell’attuale emergenza epidemiologica, e tanto più nell’ovvia assenza di prassi consolidate da anni per la solo recente insorgenza della malattia, deve fondarsi su un serio approccio scientifico e non può affidarsi ad improvvisazioni del momento, ad intuizioni casuali o, peggio, ad una aneddotica insuscettibile di verifica e controllo da parte della comunità scientifica e, dunque, a valutazioni foriere di rischi mai valutati prima rispetto all’esistenza di un solo ipotizzato, o auspicato, beneficio.

15.3. Non si vuol negare che l’esperienza clinica dei singoli medici a livello territoriale sia preziosa e fondamentale per la ricerca scientifica nella lotta contro il Sars-CoV-2, anzi, ma proprio per questo i risultati e i dati di questa esperienza non possono essere sottratti ad un rigoroso approccio scientifico che consenta, anche in condizioni di emergenza epidemiologica, di valutare comunque la sicurezza e l’efficacia del farmaco, non affidabile certo individualmente e solamente al buon senso o addirittura al caso.

15.4. Lo stesso principio di precauzione, come pure questo Consiglio di Stato ha chiarito rispetto alle vaccinazioni obbligatorie contro il virus Sars-CoV-2, può essere invocato in una fase emergenziale nell’impiego di nuovi farmaci, come anche in quello off label di farmaci già autorizzati, purché esistano sufficienti e solide evidenze scientifiche, per quanto suscettibili di revisione e bisognose di ulteriori conferme nel tempo, di una loro sicurezza ed efficacia, come è appunto nel caso dei vaccini, sottoposti ad autorizzazione condizionata fondata sull’esistenza di studi clinici controllati e randomizzati in fase avanzata.

15.5. La prescrizione di farmaci non previsti o, addirittura, non raccomandati dalle Linee guida non può dunque fondarsi su un’opinione personale del medico, priva di basi scientifiche e di evidenze cliniche, o su suggestioni e improvvisazioni del momento, alimentati da disinformazione o, addirittura, da un atteggiamento di sospetto nei confronti delle cure “ufficiali” in quelle che sono state definite le contemporanee societés de la défiance, le società della sfiducia nella scienza.

15.6. Come questo Consiglio di Stato ha pure chiarito, la libertà della scienza non vuol dire anarchia del sapere applicato dal medico al paziente (Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) e il fondamentale incontro, di cui si è detto, tra l’autonomia professionale del medico e l’autodeterminazione terapeutica del paziente, nell’individuazione della cura adatta, non può schiudere la strada ad un pericoloso, e incontrollabile, relativismo terapeutico, ove è cura tutto ciò che il singolo medico o il singolo paziente o entrambi, di comune accordo e, dunque, sulla base di un consenso disinformato, credono sia tale, sulla base di supposizioni o credenze non verificabili alla stregua di criteri oggettivi e, dunque, non falsificabili da nessuno e, in ultima analisi, insindacabili.

15.7. L’individualità della cura in rapporto al singolo paziente non è e non è può essere mai, insomma, l’individualismo della cura.

15.8. La Sezione ha già affermato che è la scienza ad indicare al legislatore, ma anche all’individuo le opzioni terapeutiche valide, che questi può scegliere, e «non è certo l’individuo, ancorché dotato di proprie personali competenze e di un sapere asseritamente superiore, a forgiarsi una cura da indicare alla scienza e al legislatore, costruendosi una cura “parallela”, “propria”, “privata”, non controllabile da alcuno e non verificabile in base ad alcun criterio scientifico di validazione» (Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045, §§ 46.7. e 46.8.).

15.9. Per questo, va qui ribadito, la libertà e il progresso della scienza tutelati dagli artt. 9 e 33 Cost., di cui lo stesso art. dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 23 del 1998 già richiamato (v., supra, § 6.6.) è esso stesso espressione, non sono né possono essere anarchici o erratici (così, ancora, la citata sentenza di questo Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045), tanto più in una fase emergenziale, per molti aspetti drammatica, nella lotta contro il virus Sars-CoV-2.

16. Non è possibile insomma, nemmeno nella fase emergenziale, venir meno al «principio di doverosa cautela nella validazione e somministrazione di nuovi farmaci» (Corte cost., 10 dicembre 2014, n. 274, nel noto caso Stamina) o nell’impiego di farmaci già autorizzati per altre indicazioni terapeutiche nella terapia contro il nuovo virus.

17. Se si tengono presenti questi fondamentali principi, che devono guidare l’attività del medico nell’esercizio consapevole e responsabile della propria competenze professionali e limitano, nella c.d. riserva di scienza, lo stesso esercizio del potere pubblico in materia sanitaria a livello legislativo e amministrativo, e li si applica alla controversa questione delle cure domiciliari contro il Sars-CoV-2, risulta evidente per altro aspetto l’erroneità, per non dire l’apoditticità, della sentenza impugnata non solo nell’avere ritenuto ammissibile il ricorso in prime cure, pur nell’assenza di una concreta lesività della circolare e delle raccomandazioni dell’AIFA per l’esercizio della professione medica, ma anche nell’averlo accolto nel merito senza verificare se, in ipotesi, la circolare del Ministero e le raccomandazioni dell’AIFA si discostassero notevolmente, e in modo manifestamente irragionevole, dalle acquisizioni della scienza medica e della ricerca scientifica in materia.

17.1. Una volta – in ipotesi – superata, infatti, la questione della refutabilità o, se si preferisce, della non vincolatività delle Linee guida da parte del singolo medico, la confutabilità o, con diverso termine, l’opinabilità delle indicazioni di trattamento terapeutico contenute nelle Linee guida era ed è questione del tutto diversa, che avrebbe dovuto costituire oggetto di approfondita analisi nella sentenza impugnata, la quale sarebbe potuta pervenire ad una statuizione annullatoria se e solo se avesse ritenuto, motivatamente, che l’esercizio della discrezionalità tecnica, da parte del Ministero o dell’AIFA, non si fosse mantenuta nell’ambito delle opzioni terapeutiche consentite dal sapere specialistico che deve applicarsi alla materia controversa.

17.2. Solo insomma se la scelta autoritativa del decisore pubblico fosse stata nel suo contenuto talmente abnorme, irragionevolee contrastante con i principî della scienza medica da imporre effettivamente al medico l’irriducibile alternativa tra seguire le Linee guida, con danno per la salute del paziente (in spregio all’antico canone: primum non nocere) prima ancor che per il sicuro esercizio della sua professione, e invece percorrere un’opzione terapeutica diametralmente opposta, conforme tuttavia ai dettami delle migliori conoscenze ed esperienze cliniche sin qui acquisite, il giudice amministrativo avrebbe potuto, e dovuto, annullare le Linee guida.

17.3. Si deve qui ricordare che la c.d. riserva di scienza che compete alle autorità sanitarie non si sottrae al sindacato del giudice amministrativo, men che mai nell’attuale fase di emergenza epidemiologica, per l’indefettibile esigenza, connaturata all’esistenza stessa della giurisdizione amministrativa e consacrata dalla Costituzione, di tutelare le situazioni giuridiche soggettive, a cominciare da quelle che hanno un radicamento costituzionale come il fondamentale diritto alla salute, a fronte dell’esercizio del potere pubblico e, dunque, anche della discrezionalità c.d. tecnica da parte dell’autorità competente in materia sanitaria.

17.4. Senza qui voler ripercorrere il lungo tragitto evolutivo che ha condotto alla garanzia di una più intensa ed effettiva tutela giurisdizionale, secondo la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 6 luglio 2020, n. 4322), il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della amministrazione può oggi svolgersi non in base al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro coerenza e correttezza, quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo.

17.5. Non si tratta, ovviamente, di sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se queste scelte siano assistite da una credibilità razionale supportata da valide leggi scientifiche e correttamente applicate al caso di specie.

17.6. Il controllo giurisdizionale, teso a garantire una tutela delle situazioni giuridiche effettiva, anche quando si verta in tema di esercizio della discrezionalità tecnica di una autorità indipendente, non può essere perciò limitato ad un sindacato meramente estrinseco, estendendosi al controllo intrinseco, anche mediante il ricorso a conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata dall’amministrazione, sulla attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti, specialmente rispetto ai fatti accertati ed alle norme di riferimento attributive del potere.

17.7. In tale contesto, per quanto attiene all’esercizio della discrezionalità tecnica dell’autorità indipendente, il giudice amministrativo non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della salute che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato.

17.8. Sul versante tecnico, in relazione alle modalità del sindacato giurisdizionale, quest’ultimo è volto a verificare se l’autorità abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica, senza che sia consentito al giudice amministrativo, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali.

17.9. In particolare, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione nelle sue determinazioni (cfr. ad es. Cons. St., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5559).

18. Per usare altri termini il giudice amministrativo deve poter verificare che l’amministrazione abbia applicato in modo corretto alla vicenda concreta, in conformità ai principî proprî del metodo scientifico prescelto (iuxta propria principia), le regole del sapere specialistico applicabili al settore dell’attività amministrativa sottoposta all’esercizio del potere regolatorio, ad evitare che la discrezionalità tecnica del decisore pubblico trasmodi in un incontrollabile, e dunque insindacabile, arbitrio (v. Cons. St., sez. III, 17 dicembre 2015, n. 5707 e Cons. St., sez. III, 2 aprile 2013, n. 1856).

19. Ebbene, anche ammettendo, in ipotesi, che le Linee guida qui contestate abbiano un carattere vincolante per i medici, il che non è, come detto, ed esaminando la questione controversa sotto tale prospettiva nell’esercizio del doveroso controllo giurisdizionale sugli atti dell’autorità sanitaria, si deve qui rilevare che le censure degli appellanti non avrebbero potuto trovare accoglimento e condurre all’annullamento della circolare.

19.1. E infatti, nei limiti consentiti dall’ordinamento al sindacato del giudice amministrativo sulla c.d. discrezionalità tecnica, ben evidente appare come la circolare ministeriale e le raccomandazioni dell’AIFA nelle Linee guida non si siano discostate dalle acquisizioni più recenti e condivise della scienza e della pratica clinica a livello nazionale ed internazionale, secondo i canoni della c.d. medicina dell’evidenza, come il Ministero appellante ha ben dimostrato, senza trovare adeguata confutazione da parte degli odierni appellati, le cui produzioni documentali sono tutte inammissibili, come si è precisato, per la tardività della costituzione in questo grado del giudizio.

19.2. La c.d. vigile attesa non è e non può essere concepita, se si esaminano con attenzione la Circolare e le raccomandazioni dell’AIFA, come un rassegnato immobilismo, negazione della stessa medicina nella sua funzione e, per alcuni pazienti più vulnerabili, preludio certo dell’ospedalizzazione, con esiti talvolta e purtroppo fatali.

19.3. La gestione dei soggetti con malattia lieve deve prevedere anzitutto, come la circolare qui contestata prevede, l’attenta valutazione dei parametri clinici essenziali, al momento della diagnosi di infezione, ed il monitoraggio quotidiano, per individuare precocemente segni e sintomi di instabilità clinica correlati all’alterazione dei parametri fisiologici (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, temperatura corporea, livello di coscienza, saturazione di ossigeno) che permetterebbero di identificare – appunto attraverso un atteggiamento di vigile attesa – il rischio di un rapido peggioramento clinico e di bloccarne tempestivamente l’evoluzione.

19.4. La “vigile attesa”, lungi dal costituire dunque un’inerzia ingiustificabile, postula invece tutta una serie di attività fondamentali, ampiamente riconosciute e dettagliate nella circolare del Ministero, e tra le altre, il monitoraggio e l’identificazione precoce di parametri e/o condizioni cliniche a rischio di evoluzione della malattia, con la conseguente necessità di ospedalizzazione, e la prescrizione di norme di comportamento e terapie di supporto in relazione al quadro clinico in evoluzione.

19.5. Quanto all’utilizzo, consigliato o sconsigliato, di determinati farmaci, poi, l’impianto argomentativo degli odierni appellati, come ben rileva il Ministero appellante, muove da un equivoco di fondo, assumendo che le linee di indirizzo costituiscano una lista dei “farmaci da non usare” e non, piuttosto, la definizione delle condizioni per le quali le evidenze di letteratura consentono di stimare l’efficacia di un farmaco raccomandandone, o meno, l’utilizzo.

19.6. Le raccomandazioni fornite nella nota impugnata individuano linee di indirizzo volte a specificare quali sono gli ambiti di utilizzo efficace e sicuro dei diversi farmaci.

20. Più nel dettaglio, avuto riguardo alla “limitazione sull’uso dei corticosteroidi”, la prescrizione in ambito domiciliare del cortisone è raccomandata solo nei soggetti con malattia COVID-19 che necessitino di supplementazione di ossigeno e, in particolare, in quei pazienti il cui quadro clinico non migliora entro le 72 ore, se in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici che richieda l’ossigenoterapia.

20.1. Tale raccomandazione, che non può essere intesa come “limitazione all’uso”, è basata sulle prove di efficacia derivanti da ampi studi randomizzati controllati che ne hanno ben definito il valore esclusivamente nei soggetti in ossigenoterapia (cfr. RECOVERY Trial e meta-analisi del WHO) e tiene, d’altro canto, in considerazione che in molti soggetti con malattie croniche l’utilizzo del cortisone può determinare importanti eventi avversi che rischiano di complicare il decorso della malattia virale.

20.2. Recentemente, gli infettivologi del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, come ricorda il Ministero appellante, hanno diramato un “alert”, nel quale hanno sottolineato come stessero arrivando al pronto soccorso del nosocomio sempre più pazienti, anche giovani, con una severa infezione da COVID-19 verosimilmente attribuibile ad una somministrazione precoce di cortisone e, nel suddetto “alert”, gli specialisti invitano i medici di medicina generale ad essere consapevoli della loro responsabilità in cui si effettuano tali e altre prescrizioni al di fuori dalle linee guida poiché «deve essere chiaro che un trattamento con cortisone iniziato entro sette giorni dall’esordio dei sintomi favorisce la replicazione virale e quindi l’infezione e le sue conseguenze».

20.3. È infatti importante ricordare che in molti soggetti con malattie croniche l’utilizzo del cortisone può determinare importanti eventi avversi, che rischiano di complicare il decorso della malattia virale e al riguardo basti qui citare, per tutti, l’esempio dei soggetti diabetici in cui sia la presenza di un’infezione, sia l’uso del cortisone, possono gravemente destabilizzare il controllo glicemico.

20.4. Quanto, ancora, alla “limitazione sull’uso di eparina”, la prescrizione in ambito domiciliare delle eparine a basso peso molecolare (EBPM) nella profilassi degli eventi trombo-embolici nel paziente medico con infezione respiratori acuta allettato o con ridotta mobilità, è raccomandato, in assenza di controindicazioni, dalle principali linee guida internazionali e configura un utilizzo autorizzato di questa classe di farmaci.

20.5. Si specifica, inoltre, che le eparine non sono soggette a limitazioni della prescrizione negli usi autorizzati, possono quindi essere prescritte a carico del medico di medicina generale e possono essere distribuite sul territorio secondo le modalità stabilite a livello regionale.

20.6. Sul sito dell’AIFA sono riportati nel dettaglio gli studi a supporto di tale raccomandazione(https://www.aifa.gov.it/documents/20142/0/Eparine_Basso_Peso_Molecolare_13.05.2021.pdf ).

20.7. Relativamente al “divieto all’uso domiciliare di antibiotici”, pure censurata dagli appellati in prime cure, nel documento dell’AIFA l’utilizzo degli antibiotici non è vietato ma semplicemente, in accordo con tutte le linee guida e tutti gli indirizzi di stewardship antibiotica, non raccomandato come utilizzo routinario, essendone invece previsto, ragionevolmente e correttamente, l’utilizzo in presenza di sospetto di una sovrainfezione batterica.

20.8. Con riferimento al “divieto all’uso domiciliare di idrossiclorochina”, l’AIFA – anche in ossequio a quanto questo Consiglio di Stato aveva chiarito nell’ordinanza n. 7097 dell’11 dicembre 2020, più volte citata – non ha posto un divieto all’uso, ma ha fornito una raccomandazione negativa all’utilizzo, specificando che una eventuale prescrizione nei singoli casi si configurerebbe come un uso off label e deve essere dunque rimessa all’autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico, con il consenso informato del singolo paziente.

20.9. La raccomandazione avverso l’utilizzo di idrossiclorochina al di fuori di studi clinici randomizzati è giustificata ormai, dopo diversi mesi di sperimentazione clinica e a distanza di tempo anche dall’emissione della citata ordinanza n. 7097 dell’11 novembre 2020 in sede cautelare da questo Consiglio di Stato, che registrava un quadro di sperimentazioni non ancora univoco e definitivo, dai numerosi studi clinici randomizzati che hanno dimostrato la sostanziale inefficacia del farmaco ed è in linea con quanto raccomandato dalle principali linee guida internazionali, potendosi consultare la scheda pubblicata sul sito dell’AIFA in cui sono riportati nel dettaglio gli studi clinici randomizzati a supporto di tale raccomandazione(https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1123276/idrossiclorochina%20update05_22.12.2020.pdf).

21. Quanto, infine, al preteso effetto peggiorativo del paracetamolo in relazione all’azione sul glutatione (riportato nel lavoro del dott. Chirumbolo citato nel ricorso) e, quindi, all’affermata migliore efficacia dei FANS per il trattamento sintomatico del COVID-19 (desumibile dalla citazione dello studio di Suter et al.), bene ha evidenziato il Ministero appellante che non ci sono, nello specifico, studi comparativi e che tutte le linee guida internazionali – al pari di quelle qui contestate (v., in particolare, p. 10: «trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari») – raccomandano indifferentemente i due farmaci, riferendosi per lo più genericamente ad antipiretici antiinfiammatori lasciando al medico l’opportunità di scegliere sulla base della valutazione dei singoli casi.

22. Più in generale, si deve rilevare che l’argomento degli odierni appellati, secondo cui l’assenza di prove non è prova di assenza di beneficio (c.d. fallacia ad ignorantiam), se è in astratto condivisibile non può rappresentare in concreto la base, come si è detto, per sovvertire un approccio scientifico rigoroso alla valutazione dell’efficacia e della sicurezza di un trattamento.

22.1. Ritenere che in condizioni di emergenza sanitaria si possa derogare ai principi propri dell’evidence based medicine per la difficoltà di condurre studi clinici randomizzati espone, d’altro canto, a serio rischio la salute pubblica, come è avvenuto in altri Paesi, dove ad esempio la somministrazione di farmaci non adeguatamente verificati in sede di studi clinici – ad esempio, l’invermectina – ha causato addirittura la morte di alcuni pazienti.

22.2. I medici ricorrenti in prime cure hanno esibito, a supporto delle loro tesi, una serie non organica di appunti su esperienze cliniche, oltre ad una semplice expert opinion.

22.3. La descrizione delle esperienze dei singoli medici tuttavia, ove non esitata nella conduzione di studi clinici idonei, non può rappresentare il presupposto scientifico su cui basare scelte di tipo regolatorio e raccomandazioni per la pratica clinica poiché solo gli studi clinici randomizzati e controllati consentono di ottenere informazioni attendibili in merito all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci.

22.4. Emerge con tutta evidenza come la circolare impugnata non violi in alcun modo il principio di precauzione, ma anzi ne costituisca applicazione, fondandosi sulla valutazione in sede istruttoria di tutti i dati scientifici disponibili, mentre gli odierni appellati non sono riusciti a dimostrare, sulla base di evidenze scientifiche attendibili e, dunque, di studi clinici randomizzati e controllati, che la circolare raccomandi trattamenti terapeutici inutili o dannosi o, al contrario, sconsigli farmaci appropriati per la cura domiciliare della malattia in contrasto con dette evidenze.

23. In conclusione, per tutte le ragioni espresse, l’appello proposto dal Ministero deve essere accolto, con la conseguente riforma della sentenza impugnata, e deve essere quindi dichiarato inammissibile il ricorso proposto in primo grado dagli odierni appellati, comunque infondato anche nel merito, non ravvisandosi nella circolare, qui contestata, alcun profilo di manifesta irragionevolezza o erroneità, per tutte le ragioni esposte, ferma rimanendo l’autonomia prescrittiva dei singoli medici di medicina generale, nei termini che si sono sopra precisati.

24. La circolare in esame assolve, invece, ad uno specifico obbligo di legge assicurando le funzioni di coordinamento del sistema sanitario nazionale di cui all’art. 47-bis, comma 2, del d. lgs. n. 300 del 1999, secondo cui «sono attribuite al Ministero le funzioni spettanti allo Stato in materia di tutela della salute umana, di coordinamento del sistema sanitario nazionale», e di raccordo con le organizzazioni internazionali e l’Unione europea aventi competenza in materia sanitaria (in particolare OMS, EMA ed ECDC), di cui all’art. 47-ter, comma 1, lett. a), del medesimo d. lgs. n. 300 del 1999.

24.1. Quanto – poi – all’AIFA, le cui raccomandazioni la circolare ministeriale ha recepito, viene in rilievo l’art. 48, commi 3 e 5, del d. lgs. n. 269 del 2003, conv. in l. 326/2003, e in particolare la previsione del comma 5, lett. a), che le assegna la funzione di «promuovere la definizione di liste omogenee per l’erogazione e di linee guida per la terapia farmacologica anche per i farmaci a distribuzione diretta, per quelli impiegati nelle varie forme di assistenza distrettuale e residenziale nonché per quelli utilizzati nel corso di ricoveri ospedalieri».

24.2. L’AIFA fornisce un’informazione pubblica e indipendente, al fine di favorire un corretto uso dei farmaci, di orientare il processo delle scelte terapeutiche, di promuovere l’appropriatezza delle prescrizioni, nonché l’aggiornamento degli operatori sanitari attraverso le attività editoriali, lo svolgimento come provider di programmi di formazione a distanza (“FAD”) e la gestione del proprio sito internet.

24.3. La circolare come quella in contestazione, con la quale si informano strutture ed operatori sanitari delle raccomandazioni adottate dall’AIFA e delle più aggiornate acquisizioni scientifiche, oltre che dei pronunciamenti delle istituzioni internazionali e delle agenzie regolatorie in generale, costituisce insomma sono strumento attuativo del dovere istituzionale, da parte del Ministero, di adottare strumenti di indirizzo e coordinamento generale per garantire l’adeguatezza delle scelte terapeutiche e l’osservanza delle cautele necessarie, ampliando la base scientifica informativa sulla cui scorta il medico è chiamato a compiere la scelta di cura.

24.4. Ciò a maggior ragione, come pure rileva il Ministero appellante, in un contesto pandemico, caratterizzato dall’assoluta novità dell’epidemia da COVID-19 e dall’assenza di prassi consolidate cui attenersi.

24.5. L’unitarietà di indirizzo nell’approccio terapeutico alla pandemia è, del resto, un principio di intuitiva percezione, sul quale, sia pure pronunciandosi in altro campo, la stessa Corte Costituzionale ha recentemente avuto occasione di soffermarsi, sottolineandone l’importanza in una gestione sanitaria unitaria e coordinata (v., in particolare, Corte cost. 12 marzo 2021, n. 37).

25. Le dirimenti ragioni sin qui espresse assorbono ogni ulteriore statuizione in ordine alla improcedibilità dell’originario ricorso, eccepita dal Ministero appellante (pp. 16-18 del ricorso), questione del tutto superflua ormai ai fini del decidere.

26. Le spese del doppio grado del giudizio, considerata la novità della questione che concerne l’esercizio di diritti fondamentali attinenti alla persona nella presente fase emergenziale, possono essere interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, proposto dal Ministero dell’Interno, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara inammissibile il ricorso proposto in primo grado da Fabrizio Salvucci, Riccardo Szumski e Luca Poretti.

Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2022, con l’intervento dei magistrati:

Michele Corradino, Presidente

Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore

Raffaello Sestini, Consigliere

Solveig Cogliani, Consigliere

Umberto Maiello, Consigliere

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Tar Lazio sospende circolare sulla vigile attesa

La Circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021 contrasta con la deontologia del medico  e “ con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid19 come avviene per ogni attività terapeutica”.

Quindi, il contenuto della nota ministeriale, affermano i giudici, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale

Questa è la massima contenuta della sentenza della sezione terza del  Tar Lazio n. 419  pubblicata  il 15/01/2022 annullando il provvedimento che, com’è facilmente immaginabile, sarà impugnata dal Ministero.

Alcuni medici e specialisti  contestarono le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti.

In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

Il termine vietato non è utilizzato neppure una volta nella circolare che si limitava a raccomandare e sconsigliare terapie ritenute inutili e/o inefficaci.

A pagina 10, infatti, si legge chiaramente “le presenti raccomandazioni si riferiscono alla gestione farmacologica in ambito domiciliare dei casi lievi di COVID-19” intendendosi per tali: presenza di sintomi come febbre (>37.5°C), malessere, tosse, faringodinia, congestione nasale, cefalea, mialgie, diarrea, anosmia, disgeusia, in assenza di dispnea, disidratazione, alterazione dello stato di coscienza.

In linea generale, si afferma,  per soggetti con queste caratteristiche cliniche non è indicata alcuna terapia al di fuori di una eventuale terapia sintomatica di supporto.

Per vigile attesa, la circolare intendeva un costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente con misurazione periodica della saturazione ed ossigeno attraverso pulsossimetria nonché norme igieniche di vita.

Mentre dal punto di vista farmacologico, consigliava trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso). Altri farmaci sintomatici potranno essere utilizzati su giudizio clinico.

Raccomandava e sconsigliava, inoltre, di  non utilizzare routinariamente corticosteroidi per le forme lievi da considerare solo  in pazienti con fattori di rischio di progressione di malattia verso forme severe, in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici che richieda l’ossigenoterapia ove non sia possibile nell’immediato il ricovero per sovraccarico delle strutture ospedaliere.

Raccomandava e sconsigliava, inoltre, di  non utilizzare eparina. L’uso di tale farmaco, si afferma nella raccomandazione,  è indicato, solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto ed evitare l’uso empirico di antibiotici. La mancanza di un solido razionale e l’assenza di prove di efficacia nel trattamento di pazienti con la sola infezione virale da SARS-CoV2 non consentono di raccomandare l’utilizzo degli antibiotici, da soli o associati ad altri farmaci.

Un ingiustificato utilizzo degli antibiotici può, inoltre, determinare l’insorgenza e il propagarsi di resistenze batteriche che potrebbero compromettere la risposta a terapie antibiotiche future. Il loro eventuale utilizzo è da riservare esclusivamente ai casi nei quali l’infezione batterica sia stata dimostrata da un esame  microbiologico e a quelli in cui il quadro clinico ponga il fondato sospetto di una sovrapposizione batterica.

Sconsigliava di utilizzare idrossiclorochina la cui efficacia era ritenuta dal Ministero non confermata in nessuno degli studi clinici randomizzati fino ad ora condotti.

Ad avviso di chi scrive, il Tar dimentica che la libertà prescrittiva a carico del servizio sanitario nazionale è limitata ai farmaci ritenuti idonei a curare specifiche situazioni cliniche. Il medico ha sempre la possibilità di adattare la terapia scegliendo tra i farmaci che sono indicati come efficaci e prescrivibili su “ricetta rossa”.

La libertà prescrittiva del medico non è limitata in quanto gli è sempre permesso di prescrivere, anche off label, su “ricetta bianca” a carico del cittadino.

È appena opportuno ricordare che un uso inappropriato di farmaci come l’eparina e gli antibiotici  puo’ determinare, soprattutto in una situazione pandemica, rischi di mancati approvvigionamenti del ciclo farmaceutico con rischio di farli mancare  ai  pazienti più fragili.

Avv. Paola M. Ferrari

LA SENTENZA

FATTO e DIRITTO

I ricorrenti sono medici di medicina generale e specialisti.

Con il ricorso oggetto del presente scrutinio, i predetti hanno contestato le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti.

Alla camera di consiglio del giorno 4 agosto 2021, il Collegio ha disposto, a mente dell’art. 55, comma 10 cpa, la fissazione della discussione del presente ricorso alla udienza di merito del giorno 7 dicembre 2021.

Alla udienza del giorno 7 dicembre 2021 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

In primo luogo deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla resistente perché, a suo dire, la nota AIFA, recepita nella circolare ministeriale, ha una sua autonomia giuridica e non è stata autonomamente impugnata.

E’ necessario rappresentare che nel momento in cui l’indicata raccomandazione è stata pedissequamente mutuata nella circolare ministeriale essa ha perso ogni singolare valenza, compresa una sua autonoma esistenza giuridica ed ha costituito, pertanto, la sola motivazione del provvedimento contestato.

Conseguentemente l’eccezione deve essere respinta.

Le censurate linee guida, come peraltro ammesso dalla stessa resistente, costituiscono mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli.

In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

La prescrizione dell’AIFA, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia COVI 19 come avviene per ogni attività terapeutica.

In merito è opportuno rappresentare che il giudice di appello nello scrutinare una analoga vicenda giudiziaria ( la censura afferente alla sola determinazione dell’AIFA) ha precisato che :”… la nota AIFA non pregiudica l’autonomia dei medici nella prescrizione, in scienza e coscienza, della terapia ritenuta più opportuna, laddove la sua sospensione fino alla definizione del giudizio di merito determina al contrario il venir meno di linee guida, fondate su evidenze scientifiche documentate in giudizio, tali da fornire un ausilio (ancorché non vincolante) a tale spazio di autonomia prescrittiva, comunque garantito”.

Quindi, il contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale.

Per tali ragioni il ricorso deve essere accolto.

La peculiarità della vicenda convince il Collegio a compensare le spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento in epigrafe indicato.

Compensa le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Savoia, Presidente

Paolo Marotta, Consigliere

Roberto Vitanza, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberto Vitanza Riccardo Savoia

IL SEGRETARIO

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Direttore Sanitario sospeso. L’atto di accertamento dell’obbligo vaccinale spetta all’Asl, unica deputata a sindacare il certificato del medico di famiglia, ma nessuna sospensione della delibera.

Consiglio di Stato 22/12/2021 n. 6790 sezione terza

sul ricorso numero di registro generale 10319 del 2021, proposto dalla dottoressa -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Enrico Martinetti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

l’Azienda Sanitaria Locale Cn1, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Piero Giuseppe Reinaudo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
la -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giorgio Panero, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
-OMISSIS-in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio;
per la riforma

dell’ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, sez. I, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, che ha respinto l’istanza cautelare di sospensione, tra l’altro, della sospensione obbligatoria temporanea dall’attività professionale sanitaria a seguito dell’accertamento dell’inosservanza all’obbligo vaccinale;

Visto l’art. 62 cod. proc. amm.;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Azienda Sanitaria Locale Cn1 e della -OMISSIS-;

Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 21 dicembre 2021 il Cons. Giulia Ferrari e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza;

Considerato che l’appello cautelare, proposto da un sanitario, direttore di Casa residenza privata per anziani, sospesa dal servizio perché non si è sottoposta all’obbligo vaccinale, non appare provvisto di fumus bonj juris;

Considerato, preliminarmente, di affermare la giurisdizione del giudice amministrativo sul rilievo che la giurisdizione sull’atto di accertamento circa la inosservanza dell’obbligo vaccinale si trascina la giurisdizione sull’atto di sospensione del rapporto, data la sua natura di atto meramente consequenziale e vincolato;

Considerato che la spendita di poteri amministrativi sull’accertamento circa la inosservanza dell’obbligo vaccinale giustifica la giurisdizione di questo giudice amministrativo e che la giurisdizione del giudice amministrativo si estende automaticamente anche alla comunicazione di sospensione dal servizio, atteso che una simile evenienza costituisce effetto automatico che discende direttamente dalla legge a carico del sanitario inottemperante;

Considerato che l’ordinamento prevede (comma 2 dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, non modificato, in parte qua, dall’art. 1, comma 1, d.l. 26 novembre 2021, n. 172), l’esenzione dall’obbligo vaccinale, con differimento o, addirittura, omissione del trattamento sanitario in prevenzione, per il solo caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale;

Ritenuto che, come chiarito dalla Sezione, alla Azienda sanitaria locale compete la decisione finale in ordine alla necessità di derogare all’obbligo vaccinale in considerazione di quanto dichiarato dal medico di medicina generale nel proprio certificato, il quale peraltro, proprio perché costituente l’oggetto (diretto ed esclusivo) dell’attività di verifica della Azienda sanitaria locale, deve consentire all’Amministrazione di appurare la sussistenza dei presupposti dell’esonero.

Considerato dunque che la finalità semplificatrice delle modalità di accertamento della sussistenza delle condizioni di esonero dell’obbligo vaccinale, e la connessa realizzazione di un punto di equilibrio con la primaria responsabilità attribuita alla Azienda sanitaria locale in ordine alla efficacia del piano vaccinale (il quale sarebbe compromesso in uno dei suoi gangli principali, laddove la tutela anti-pandemica, affidata allo strumento vaccinale, fosse indebolita proprio laddove l’agente infettivo ha dimostrato maggiore virulenza e capacità mortifera, ovvero nei riguardi dei soggetti “fragili” perché affetti da patologie preesistenti e/o concomitanti), è appunto stata realizzata dal legislatore mediante l’attribuzione al medico di medicina generale di un compito di “filtro” delle “istanze” di esonero, ferma la responsabilità della stessa Azienda sanitaria di verificare l’idoneità della certificazione all’uopo rilasciata, con il corollario che non di inutile “duplicazione” si tratta, atteso il contatto “diretto” del medico di medicina generale con il paziente, e quello secondario ed indiretto (ovvero mediato dalla certificazione del medico di medicina generale) della Azienda sanitaria locale (Cons. St., sez. III, -OMISSIS-);

Visto il certificato di avvenuta consegna della pec inviata al dottor -OMISSIS-per chiedere eventuale integrazione documentale, con conseguente smentita, in punto di fatto, dell’assunto che sarebbe stato utilizzato un indirizzo pec “dismesso” e senza che rilevi l’eventuale utilizzo, da parte dello stesso dottor -OMISSIS-, di altro indirizzo pec;

Considerato che il giudizio reso dalla Azienda sanitaria locale è insindacabile da parte del Collegio, che non ha la competenza tecnica per verificare, nel merito, la correttezza delle conclusioni alle quali è pervenuto l’organo sanitario ope legis deputato a decidere;

Considerato che nel procedimento de quo non può applicarsi il rimedio del cd. soccorso istruttorio, avendo il legislatore scandito i passaggi procedimentali e la relativa tempistica, al fine di adottare celermente il provvedimento conclusivo o indurre il sanitario alla celere vaccinazione;

Considerato che, anche con riguardo alla ragionevolezza della misura della sospensione dall’esercizio della professione e al sotteso bilanciamento tra gli interessi coinvolti dalla presente vicenda – pur tutti costituzionalmente rilevanti e legati a diritti fondamentali – meritano conferma le considerazioni già espresse da questa Sezione (ord. caut., 3 dicembre 2021, n. 6477), dovendosi ritenere assolutamente prevalente la tutela della salute pubblica e, in particolare, la salvaguardia delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età) bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo posti di frequente a contatto con il personale sanitario o sociosanitario; verso costoro sussiste uno stringente vincolo di solidarietà, cardine del sistema costituzionale (art. 2 Cost.) ed immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, che impone di scongiurare l’esito paradossale di un contagio veicolato dagli stessi soggetti chiamati alle funzioni di cura ed assistenza;

Considerato, quanto alla possibilità di collocare l’appellante in smart working anziché sospenderla, sul rilievo l’attività di direttore sanitario ben può essere esercitata da remoto, che in effetti le responsabilità connesse a tale ruolo – che non sono quelle proprie di un impiegato – richiedono una presenza pressoché costante sul luogo di lavoro e la possibilità, in ogni caso, di recarsi di persona al verificarsi di determinate problematiche, cosa che il sanitario privo di vaccinazione non potrebbe fare;

Considerato, quanto al periculum, che a fronte del danno economico dell’appellante e a prescindere dalla circostanza che lo stesso è conseguenza di un comportamento omissivo, occorre dare prevalenza al danno per la collettività dei pazienti e per la salute generale;

Considerato peraltro che a tutela della salute dell’appellante l’Azienda sanitaria dovrà curare tutti i possibili accorgimenti in occasione della somministrazione del vaccino, anche – ove ritenga – ulteriori rispetto alla inoculazione in ambiente protetto;

Ritenuto, infine, che, in considerazione della peculiarità della questione controversa, le spese della presente fase processuale possono essere compensate tra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

respinge l’istanza cautelare proposta dall’appellante -OMISSIS-.

Spese compensate.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Vista la richiesta dell’interessato e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte interessata.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Michele Corradino, Presidente

Stefania Santoleri, Consigliere

Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore

Giovanni Tulumello, Consigliere

Rosaria Maria Castorina, Consigliere

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Obbligo vaccinale per i cinquantenni

Il Consiglio dei Ministri, ha pubblicato, nella  Gazzetta Ufficiale n. 4 del 7 gennaio 2022, il Decreto n. 1 del 7 gennaio 2022, con misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore.

Queste le principali disposizione :

Il testo introduce l’obbligo vaccinale per tutti coloro che hanno compiuto i 50 anni. Per i lavoratori pubblici e privati con 50 anni di età sarà necessario il Green Pass Rafforzato per l’accesso ai luoghi di lavoro a far data dal 15 febbraio prossimo.

Senza limiti di età, l’obbligo vaccinale è esteso al personale universitario così equiparato a quello scolastico.

È esteso l’obbligo di Green Pass ordinario a coloro che accedono ai servizi alla persona; pubblici uffici, servizi postali, bancari e finanziari, attività commerciali fatte salve eccezioni che saranno individuate con atto secondario per assicurare il soddisfacimento di esigenze essenziali e primarie della persona.

Cambiano le regole per la gestione dei casi di positività.

Scuola dell’infanzia

Già in presenza di un caso di positività, è prevista la sospensione delle attività per una durata di dieci giorni.

Scuola primaria (Scuola elementare)

Con un caso di positività, si attiva la sorveglianza con testing. L’attività in classe prosegue effettuando un test antigenico rapido o molecolare appena si viene a conoscenza del caso di positività (T0), test che sarà ripetuto dopo cinque giorni (T5).

In presenza di due o più positivi è prevista, per la classe in cui si verificano i casi di positività, la didattica a distanza (DAD) per la durata di dieci giorni.

Scuola secondaria di I e II grado (Scuola media, liceo, istituti tecnici etc etc)

Fino a un caso di positività nella stessa classe è prevista l’auto-sorveglianza e con l’uso, in aula, delle mascherine FFP2.

Con due casi nella stessa classe è prevista la didattica digitale integrata per coloro che hanno concluso il ciclo vaccinale primario da più di 120 giorni, che sono guariti da più di 120 giorni, che non hanno avuto la dose di richiamo. Per tutti gli altri, è prevista la prosecuzione delle attività in presenza con l’auto-sorveglianza e l’utilizzo di mascherine FFP2 in classe.

Con tre casi nella stessa classe è prevista la DAD per dieci giorni

Scarica il decreto legge 7 gennaio 2022

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le specializzande somministrano una dose letale di chemioterapico ma la disorganizzazione del reparto riduce la colpa grave

28/09/2021 n. 77 – Corte Conti Umbria

  1. Con atto di citazione depositato in data 12 novembre 2020 e ritualmente notificato, la Procura regionale presso questa Sezione giurisdizionale regionale ha convenuto in giudizio i sig.ri [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis], come in epigrafe generalizzati – tutti Medici – per sentirli condannare, a titolo di colpa grave, ad un risarcimento danni indiretto pari, nel complesso, ad € 800.000,00, oltre accessori e spese, in favore dell’Azienda Ospedaliera di [omissis], ripartito pro quota in misura paritaria (=€ 200.000,00), a carico di ciascuno dei quattro convenuti o in diversa quota ritenuta di giustizia.
  2. La fattispecie de qua è relativa ad un danno indiretto, prospettato dalla Procura attorea, quale danno da ‘malpractice medica’ e liquidato dall’Azienda Ospedaliera di [omissis] con deliberazione n. 1439 del 31 agosto 2015, con la quale venivano corrisposti – a seguito di transazione – € 800.000,00 a titolo di risarcimento di tutti i danni, sia patrimoniali sia non patrimoniali, nei confronti degli eredi di [omissis] [omissis], deceduto in data 15 aprile 2014, presso il Reparto di [omissis] dell’Ospedale

“[omissis] [omissis] [omissis] [omissis]” di [omissis], a causa di una erronea somministrazione del farmaco “Idarubicina”, in un sovradosaggio spropositato che, nella prospettazione attorea, ne avrebbe determinato il decesso per ‘scompenso cardiaco acuto’.

2.1 La fattispecie dannosa contestata, in particolare, scaturirebbe dall’errore della specializzanda dott.ssa [omissis] [omissis] nel redigere la c.d. “stecca terapeutica”, (sia cartacea, da trasmettere via fax alla farmacia, sia informatica del paziente, indirizzata agli infermieri), che aveva riportato in modo errato la dose del farmaco (indicata in 45/ mg per mq corporeo, anziché 12 mg/ per mq corporeo, quali correttamente prescritti dalla Dr.ssa [omissis]), senza che né lei stessa né altri se ne avvedessero. Anzi, l’errore era stato confermato da un’altra specializzanda, dott.ssa [omissis] [omissis], la quale, rispondendo alla telefonata di chiarimenti ricevuta dalla Farmacia oncologica ospedaliera in ordine alla esorbitanza del dosaggio, senza consultare né la cartella clinica del paziente, né i dosaggi massimi indicati nel Protocollo AIDA, affermava che proprio quello era stato il dosaggio prescritto in applicazione del suddetto Protocollo non informava tempestivamente della richiesta telefonica ricevuta dalla Farmacia, né la specializzanda dott.ssa [omissis] , né il medico tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], responsabile del paziente.

  1. Si giungeva purtroppo alla erronea somministrazione di un dosaggio esorbitante i limiti massimi di posologia di quel farmaco, verosimilmente anche a causa della inidonea organizzazione del Reparto e degli insufficienti controlli interni predisposti dal Dirigente della struttura, Prof. [omissis] [omissis], che, soltanto dopo il fatto lesivo, dotava il reparto di un software in grado di bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci; concorreva, altresì, alla causazione del danno letale, la mancata rilevazione dell’errore fatale da parte delle quattro infermiere somministratrici delle quattro dosi letali, che non si avvedevano di nessuna anomalia; né la Farmacia oncologica, benchè sospettasse che il dosaggio richiesto fosse sproporzionato, mise in essere azioni positive che avrebbero allertato i medici responsabili di settore, limitandosi, peraltro, ad effettuare una mera telefonata di verifica – ricevuta dalla dott.ssa [omissis], specializzanda, nelle modalità già riferite – nella cui risposta la Farmacia medesima confidava, senza preoccuparsi di effettuare ulteriori verifiche con il medico prescrittore, responsabile del dosaggio.
  1. Sulla vicenda de qua è stato aperto un procedimento penale (n. 2105/005911 R.G. Notizie di reato) culminato con l’archiviazione, in data 6 novembre 2015, per insussistenza di reato, nei confronti dei signori [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis] e [omissis]. Nei confronti di [omissis] , il procedimento penale (n. 3699/2014 R.G. Notizie di reato) è culminato invece con sentenza n. 25/16 dell’11.1.2016 del GIP, pronunciata ex art. 444 e ss. c.p.p.
  2. Il dott. [omissis] e la dott.ssa [omissis] presentavano (nell’ambito delle rispettive memorie di costituzione, tempestivamente pervenute, entro il termine del 29 aprile 2021, stabilito per la costituzione in giudizio dal Decreto presidenziale di fissazione dell’odierna udienza) formale istanza di Rito Abbreviato, ai sensi dell’art. 130 c.g.c., offrendo ciascuno il pagamento di € 100.000,00, importo corrispondente al 50% della quota della pretesa risarcitoria posta a carico di ciascuno, nell’atto di citazione; per entrambi è stato espresso il parere favorevole della Procura contabile. A seguito del Decreto n.1/2021 del 20 maggio 2021, in accoglimento delle istanze di rito abbreviato, è stata fissata l’udienza camerale del 14 luglio 2021 per la definizione del giudizio all’esito del controllo dell’avvenuto pagamento.

Risulta in atti che il pagamento è stato effettuato e che all’udienza del 14 luglio 2021 la posizione dei dottori [omissis] e [omissis] sia stata definita con sentenza di estinzione del giudizio nei loro confronti e relativa condanna alle spese processuali. (Cfr. Corte conti, Sez. giur.le Umbria, Sent. n. 73/2021 del 13 agosto 2021).

  1. Il giudizio de quo pertanto prosegue ora nei soli confronti delle altre due convenute, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis], ciascuna evocata per un danno pro capite di euro 200.000,00.

Con memoria di costituzione nell’interesse della dott.ssa [omissis] , in data 28 aprile 2021, il difensore ha chiesto, in via preliminare, di rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, per l’intervenuta prescrizione dell’azione e/o l’improcedibilità della stessa nei confronti dell’odierna deducente. Dichiarare la nullità ex art. 87 Codice Giustizia Contabile per difformità tra l’atto di citazione e l’invito a dedurre.

NEL MERITO, PREVIA DECLARATORIA DI INUTILIZZABILITÀ NEL PRESENTE GIUDIZIO DELLE PERIZIE TECNICHE VERSATE IN ATTI DALLA PROCURA:

In via principale, Rigettare allo stato degli atti la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate ed in particolare poiché il pregiudizio non è esigibile dai convenuti, potendo essere coperto dal contratto di assicurazione RCT/O n. ITOMM1301773; in subordine, rinviare ad altra udienza il presente giudizio, in attesa che la Procura regionale verifichi la copertura deldanno lamentato da parte dell’assicurazione.

In via subordinata, Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e segnatamente tutte le domande ex adverso proposte

in quanto infondate in fatto ed in diritto, non essendo prova della colpa grave in capo alla Dott.ssa [omissis]. In estremo subordine, nella denegata e non creduta ipotesi in cui questa Corte adita volesse ritenere fondate le pretese dell’attrice, si chiede di effettuare la riduzione del quantum dell’addebito posto a carico della medesima anche in relazione alla responsabilità dei concorrenti e della struttura ospedaliera stessa, parametrando comunque l’apporto al trattamento economico di tutti i soggetti evocati e non evocati

come da disposizioni della Legge Gelli, che si indicano nel Dirigente Generale e Sanitario all’epoca dei fatti, Dirigente Amministrativo all’epoca dei fatti, Dirigente Affari Generali.

All’epoca dei fatti, i membri del Co.Ge.Si. (dott. [omissis] [omissis], prof. [omissis] [omissis], Prof. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis]), Broker, Dirigente reparto [omissis] Prof.

[omissis] [omissis], il Medico Responsabile e Tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], il Dirigente della Farmacia Oncologica Ospedaliera, Dott. [omissis] [omissis], le Dirigenti Farmaciste Oncologiche, Dott.ssa [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis], nonché le Infermiere [omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis].

IN VIA ISTRUTTORIA, senza inversione dell’onere probatorio gravante sull’attrice, si chiede di ammettere C.T.U. medico legale, con riserva di nomina del perito di parte nell’interesse della dott.ssa [omissis]; ordinare la produzione documentale ex art. 94 Codice di Giustizia Contabile ed ex art. 210 c.p.c. delle polizze assicurative contratte dall’Azienda ospedaliera a copertura del contratto di specialità n. 3198 del 15.07.2013 della dott.ssa [omissis], in particolare della comunicazione fatta alla AMTrust Europe circa l’applicazione della garanzia per colpa grave ex art. 36 della polizza RCT/O n. ITOMM1301773, in favore della dott.ssa [omissis] [omissis].

La difesa della dott.ssa [omissis] ha avanzato le seguenti richieste, con memoria di costituzione del 28 aprile 2021: IN VIA PRELIMINARE: Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte per l’intervenuta prescrizione dell’azione e/o l’improcedibilità della stessa nei confronti dell’odierna deducente. NEL MERITO, in via principale, Rigettare allo stato degli atti la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate ed in particolare poiché il pregiudizio non è esigibile dai convenuti, potendo essere coperto dal contratto di assicurazione RCT/O n. ITOMM1301773; in subordine, rinviare ad altra udienza il presente giudizio, in attesa che

la Procura regionale verifichi la copertura del danno lamentato da parte dell’assicurazione. In via subordinata, Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e segnatamente tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate in fatto ed in diritto, non essendo prova della colpa grave in capo alla Dott.ssa [omissis]. In estremo subordine, nella denegata e non creduta ipotesi in cui questa Corte adita volesse ritenere fondate le pretese dell’attrice, si chiede di effettuare la riduzione del quantum dell’addebito posto a carico della medesima anche in relazione alla responsabilità dei concorrenti e della struttura ospedaliera stessa, parametrando

comunque l’apporto al trattamento economico di tutti i soggetti evocati e non evocati

come da disposizioni della Legge Gelli, che si indicano nel Dirigente Generale e Sanitario

all’epoca dei fatti, Dirigente Amministrativo, all’epoca dei fatti, Dirigente Affari Generali

all’epoca dei fatti, i membri del Co.Ge.Si. (dott. [omissis] [omissis], prof.

[omissis] [omissis], Prof. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], dott.

[omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott.ssa

[omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis]), Broker, Dirigente reparto [omissis] Prof.

[omissis] [omissis], il Medico Responsabile e Tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis],

il Dirigente della Farmacia Oncologica Ospedaliera, Dott. [omissis] [omissis], le Dirigenti

Farmaciste Oncologiche, Dott.ssa [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis],

nonché le Infermiere [omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e

[omissis] [omissis].

IN VIA ISTRUTTORIA, ordinare la produzione documentale ex art. 94

Codice di Giustizia Contabile ed ex art. 210 c.p.c. delle polizze assicurative contratte dall’Azienda ospedaliera a copertura del contratto di specialità n. 3229 del 17.07.2013 della dott.ssa [omissis] in particolare della comunicazione fatta alla AMTrust Europe circa l’applicazione della garanzia per colpa grave ex art. 36 della polizza RCT/O n. ITOMM1301773, in favore della dott.ssa [omissis] [omissis].

All’odierna udienza, a porte chiuse per via della protrazione del periodo emergenziale pandemico dovuto al Virus COV-SARS2, fino al 31.12.2021, in sede di dibattimento, le parti in causa e il rappresentante della Procura regionale hanno ribadito le proprie conclusioni scritte e confermato le proprie richieste, ulteriormente argomentando.

La causa è stata quindi trattenuta in decisione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il Collegio è chiamato a decidere su un caso ‘emblematico’ di colpa medica professionale – da cui discende, com’è noto, una responsabilità amministrativo-contabile indiretta, riveniente dal pagamento del sinistro nei confronti degli aventi diritto ad opera dell’Azienda Ospedaliera – caratterizzato da una serie di avvenimenti, a dir poco, ‘sconcertanti’, nei quali sono confluite varie responsabilità, a vari livelli e che, complessivamente, hanno dato causa all’evento letale occorso in data 15 aprile 2014 al sig. [omissis] [omissis], deceduto per ‘scompenso cardiaco acuto’ presso il Reparto di [omissis] dell’Ospedale “[omissis] [omissis] [omissis] [omissis]” di [omissis], a causa dell’erronea somministrazione del farmaco “Idarubicina”, in un sovradosaggio assai sproporzionato, che ne determinò il decesso.

Prima di affrontare il merito della causa, vanno rigettate per infondatezza le eccezioni

preliminari delle due difese, alcune delle quali di identico contenuto.

a. La difesa della dott.ssa [omissis] in primis ha contestato l’atto di citazione in giudizio eccependone la nullità per difformità ex art. 87 c.g.c.

Come ha già avuto modo di affermare in udienza il rappresentante della Procura regionale rispetto a detta doglianza, ritenendola infondata, non risulta in atti alcuna mancata corrispondenza tra atto di citazione e invito a dedurre, dalla cui semplice lettura ragionata emerge chiaramente la piena corrispondenza di petitum e causa petendi né alcun elemento contrario si rileva per poter affermare che l’atto di citazione decampi completamente dal contenuto sostanziale dell’invito a dedurre. La doglianza de qua appare meramente pretestuosa.

b. Comuni ad entrambe le difese sono le altre eccezioni preliminari e pregiudiziali:

b.1. Riguardo all’eccezione di inesigibilità del pregiudizio erariale per mancata attivazione del contratto assicurativo, si rileva subito l’inconferenza della questione, atteso che – come da giurisprudenza assai consolidata sul punto – la corretta gestione della copertura assicurativa da parte dell’amministrazione configura una circostanza totalmente estranea alla pretesa erariale azionata, al pari di quella attinente alla stipula dei contratti di assicurazione più appropriati ed idonei. (Cfr., ad esempio, tra le più recenti, Corte conti, Sezione III Appello, n. 13/2020). Ciò significa che le vicende del contratto assicurativo dell’Azienda Sanitaria Locale non hanno alcuna rilevanza sulla pretesa erariale de qua e del tutto ininfluente sul giudizio è la sottoscrizione o meno dell’appendice relativa all’estensione della franchigia, poiché tale appendice non esclude comunque l’operatività della franchigia, trattandosi di ‘assicurazione aggiuntiva’, da attivare su richiesta, con la quale la Compagnia si impegna a non surrogarsi nelle pretese nei confronti dei dipendenti; cioè a dire che la franchigia non opererebbe da parte dell’Assicurazione nei confronti dei dipendenti.

Come ha già avuto modo di sottolineare condivisibilmente il PM d’udienza, “…tale appendice non solo non risulta sottoscritta, ma neppure attivata […]” ; egli fa inoltre presente in udienza come emerga chiaramente dalle produzioni documentali, il tentativo dei convenuti di attivarla mediante adesioni ‘ora per allora’.

Si tratta evidentemente di circostanze ultronee, di natura civilistica, che non rilevano sulla pretesa erariale pubblica di cui si tratta e che impingono la competenza di un’altra giurisdizione (A.G.O.).

b.2. Quanto all’eccezione di prescrizione del credito erariale, essa risulta infondata, in quanto, in ipotesi di danno indiretto, quale quella di cui si discute, il periodo prescrizionale decorre dall’effettivo esborso di danaro pubblico, perciò dal pagamento del danno (Deliberazione di liquidazione, 31 agosto 2015, n. 1439). Il termine prescrizionale risulta essere stato validamente interrotto dalla Procura regionale con l’emissione dell’invito a dedurre (17 giugno 2020). (Sulla decorrenza della prescrizione dall’effettivo esborso in ipotesi di danno indiretto, cfr., Corte conti, SS.RR., sent. n.14/2011).

  1. Passando ora al merito del giudizio, il Collegio, anzitutto, aderendo all’opposizione del PM d’udienza, non ritiene sia necessario richiedere una ulteriore consulenza tecnica, considerate esaustive e complete le tre relazioni peritali già esperite fra procedimento amministrativo e penale e acquisite agli atti, aventi tutte la medesima conclusione, stando alla quale, l’evento morte, nel caso de quo, è conseguito, secondo le regole civilistiche, all’errata posologia del farmaco, da ricondursi materialmente al duplice errore di trascrizione commesso dalla dott.ssa [omissis], sia nella richiesta cartacea che su quella informatica e alla successiva errata conferma della dott.ssa [omissis].

Tanto premesso, appare assai sconcertante e al limite del credibile quello che risulta dagli atti di causa, nel merito del processo de quo.

Tralasciando – perché già decise con separato provvedimento giurisdizionale – le condotte gravemente colpevoli dei dottori [omissis] e [omissis], le cui posizioni sono state definite con rito abbreviato (cfr., sent. n. 73/2021 del 13 agosto 2021, già cit. nella premessa e nella parte in fatto) e sulle quali nulla può più dirsi, il Collegio è chiamato ora a valutare le condotte dei due medici, nella triste vicenda de qua, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis], quali medici specializzandi dell’Unità di [omissis] (Struttura

Complessa di [omissis] e [omissis]) dell’Ospedale [omissis] [omissis] [omissis] [omissis] di [omissis].

Le suddette sono state evocate in giudizio dalla Procura regionale per un danno pro capite pari ad € 200.000,00, in quanto con comportamenti commissivi gravemente colpevoli hanno dato concausa (insieme ai dottori [omissis] e [omissis], di cui sopra), nell’ipotesi accusatoria, all’esito letale occorso al sig. [omissis], ricoverato per [omissis] [omissis] [omissis] nel surriferito Nosocomio.

Va subito rilevato – onde sgombrare il campo da equivoci – che il fatto che si trattasse di due specializzande, evidentemente, non scusa la estrema, quanto gravissima superficialità con cui le medesime hanno dimostrato di operare – per quel che qui rileva, nel caso concreto all’esame – nel Reparto di [omissis] dell’Ospedale, in cui erano di diritto inserite quali Medici in Corso di specializzazione, con la supervisione di un tutor (dott.ssa [omissis]) e di gestire, in particolare, il sig. [omissis]. I fatti del resto chiaramente dimostrano la colpa grave dell’una, (dott.ssa [omissis]), per aver inspiegabilmente (e quasi inverosimilmente) riportato, ‘per errore’ rispetto alla corretta prescrizione della dott.ssa [omissis], un marchiano e lampante sovradosaggio di farmaco chemioterapico, di cui la stessa non si avvedeva fino all’evento letale, nonché dell’altra, (dott.ssa [omissis]), che con estrema e grave superficialità interloquiva incautamente con la Farmacia Oncologica dell’Ospedale, che aveva rilevato l’abnorme dosaggio del farmaco, confermando un dato che le era oscuro e cioè che si trattasse di dosaggio coerente con il Protocollo AIDA, senza verificare l’esattezza di quanto stava affermando, né chiedendo chiarimenti al medico strutturato né consultando il Protocollo AIDA e senza peraltro notiziare, successivamente, della telefonata, né la collega specializzanda né il tutor dott.ssa [omissis]. Inammissibili appaiono dette condotte, tenute da Medici, sia pure in corso di specializzazione, ma, comunque, sempre, Medici chirurghi.

E’ proprio la qualifica professionale da esse posseduta che connota di maggiore gravità l’errore marchiano commesso, quali medici, che, con molta disinvoltura, senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze del proprio operato – purtroppo nefaste, nella fattispecie – hanno, l’una (dott.ssa [omissis]), errato inammissibilmente (e quasi incredibilmente) nella trascrizione del dosaggio del farmaco, esorbitante i limiti massimi di posologia del farmaco stesso, senza minimamente avvedersene (un Medico è tenuto a verificare attentamente la posologia di un farmaco, soprattutto se chemioterapico! Né può non rendersi conto – conoscendo esattamente quali siano le dosi da ‘Protocollo’ e soprattutto sulla base di un esatto dosaggio della dott.ssa [omissis] – di aver trascritto un sovradosaggio assai eccessivo!); l’altra (dott.ssa [omissis]), confermato con estrema superficialità l’errore della prima, rispondendo ad una telefonata di chiarimenti ricevuta dalla Farmacia Oncologica Ospedaliera, in ordine alla esorbitanza del dosaggio – senza consultare la cartella clinica del degente né i dosaggi massimi indicati nel Protocollo AIDA – affermava incautamente che proprio quello era stato il dosaggio prescritto in applicazione del suddetto Protocollo, inducendo in errore il chiamante e non informando tempestivamente della richiesta telefonica ricevuta dalla farmacia, né la collega specializzanda né soprattutto la tutor dott.ssa [omissis], responsabile del paziente e medico prescrittore e dunque tenuta a svolgere un diligente controllo sia sulla evoluzione del percorso nosocomiale del sig. [omissis] e sia sull’operato delle specializzande.

Del tutto infondate e pretestuose appaiono le doglianze di parte, tese a minimizzare la condotta delle due specializzande e a massimizzare invece la condotta – si ripete – sicuramente connotata da altrettanta grave colpa, dei due medici strutturati.

I fatti dimostrano indubitabilmente la colpa grave di entrambe le convenute, che – anche con il concorso di altri, di cui a breve si dirà – hanno dato concausa al decesso del sig. [omissis] [omissis] per ‘scompenso cardiaco acuto’.

  1. Dal punto di vista generale, il Collegio non può fare a meno di rammentare che nell’esercizio della propria professione, il medico deve sempre mantenere particolarmente alta e vigile la propria attenzione, per evitare di mettere a repentaglio la vita o, comunque, la salute dei propri pazienti.

Ciò detto, preso atto degli arresti giurisprudenziali della Suprema Corte in ordine ai profili di colpa nell’esercizio della professione sanitaria, con particolare riferimento all’individuazione del nesso di causalità tra condotta ed evento, nonché dei principi, altrettanto consolidati nella giurisprudenza della Corte dei conti, in materia di colpa medica nell’ambito di un giudizio di danno erariale indiretto, si deve precisare che non ogni condotta diversa da quella doverosa, comporta sicuramente una colpa grave, ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia, con riferimento alla prudenza, perizia e diligenza che invece ci si aspetterebbe da figure sanitarie professionali di alto profilo, quali i medici e che sia posta in essere senza la scrupolosa osservanza, nel caso concreto, di quel livello minimo di diligenza, prudenza o perizia, richiesti particolarmente all’esercente la professione sanitaria in genere, onde non incorrere in situazioni pericolose per la vita dei propri pazienti; occorre puntualizzare, inoltre, che tale ‘livello minimo’ dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente e dalla sua particolare preparazione professionale, in quel settore della pubblica amministrazione al quale è materialmente preposto (cfr., ad esempio, Corte conti, Sez. Appello Sicilia, n. 418/2014). Una giurisprudenza in materia di colpa medica, ricorda ad esempio come la colpa grave si concretizzi “in un comportamento non consono a quel minimo di diligenza richiesto nel caso concreto ed improntato ad evidente imperizia, superficialità, trascuratezza ed inosservanza degli obblighi di servizio, che non risulta giustificato dalla presenza di situazioni eccezionali ed oggettivamente verificabili, tali da impedire all’agente il corretto svolgimento delle funzioni volte alla tutela degli interessi pubblici a lui affidati”. (Cfr., Corte conti, Sez. Appello Sicilia, 23 gennaio 2012, n. 18).

  1. Venendo poi, in particolare, al nesso di causalità, ai fini dell’affermazione di una responsabilità amministrativo-contabile, è necessario che insieme all’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, la condotta posta in essere nell’occasione sia diretta cagione del danno (come nel caso qui all’esame).

Tale circostanza assume connotati di particolare rilevanza nel caso di danno indiretto, quale quello qui azionato, e, particolarmente, di danno erariale discendente da riconoscimento di una colpa medica professionale. Infatti, posto che la relazione tra danno erariale e colpa medica professionale si sostanzia nel fatto che senza la seconda non vi sarebbe stato un esborso di denaro da parte della pubblica amministrazione, è poi compito esclusivo del Giudice contabile, di fronte all’azione del Procuratore regionale volta ad ottenere dall’esercente la professione sanitaria la restituzione di quanto pagato dall’Azienda sanitaria a titolo di danno conseguente a colpa professionale – valutare se le condotte materiali del medico e/o delle altre figure sanitarie, non perite e imprudenti e non conformi alle linee guida siano da porre in diretta ed esclusiva relazione col fatto di danno poi risarcito dall’Azienda sanitaria. Con la conclusione che, se oltre alle condotte del sanitario/i convenuti nel processo amministrativo contabile, il fatto dannoso risarcito sia riconducibile anche a diverse altre cause, esterne (concause) e queste o non vengano prese in considerazione dall’attore o rimangano estranee al giudizio (ad esempio, perché l’attore pubblico non ha ritenuto di valutarle o le ha ritenute irrilevanti) ovvero anche, se il fatto dannoso sia riconducibile anche ad altri soggetti, in ipotesi, corresponsabili, non può concludersi per una assenza di dimostrazione del nesso di causalità nei confronti degli evocati in giudizio – come sembrano ritenere le difese di parte – ma ciò impone al Giudice contabile di valutare tutte le concorrenti responsabilità – anche ‘idealmente’ – per porre nei confronti di ciascuna concausa esterna e di ciascun corresponsabile la quota di danno ad essi astrattamente o concretamente spettante.

  1. Nel caso de quo, il Collegio giudicante ha proceduto ad una attenta ricostruzione dei fatti sulla scorta di tutti gli elementi di prova offerti dalle parti e acquisiti ex officio e presenti nel fascicolo processuale.

Nella fattispecie concreta è perciò incontrovertibilmente risultato che – come già riferito più sopra – i due medici specializzandi, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis] hanno dato causa finale e diretta con le loro condotte gravemente, quanto ingiustificabilmente, imperite ed imprudenti all’evento letale occorso al sig. [omissis]; la loro condotta gravemente colpevole è stata tuttavia favorita da una serie di concause che effettivamente hanno tutte concorso alla causazione del danno letale e che vanno adeguatamente prese in considerazione, a fini di giustizia, pur in assenza di idonea valutazione sul punto da parte della Procura territoriale che ha ritenuto di non citare in giudizio gli ulteriori corresponsabili della incredibile vicenda de qua.

Come in atti affermato dal Responsabile della Divisione anticrimine della Polizia di Stato, all’esito della rimessione della notizia di reato al Procuratore della Repubblica competente, è emerso con chiarezza incontestabile, in fattispecie, come un semplice errore di trascrizione sia passato – incredibilmente – indenne innanzi a svariate figure professionali di provato valore e competenza. Invero la dose erronea era riportata ovunque, sia sulla cartella clinica cartacea sia su quella informatica, entrambe visionabili in qualsiasi momento da tutto il personale medico e infermieristico. Un discorso analogo può farsi per le farmaciste che di fronte ad una richiesta palesemente anomala (quattro volte la dose massima somministrabile ad un essere umano secondo il protocollo AIDA) hanno accettato supinamente una mera conferma telefonica data da una dottoressa specializzanda, senza approfondire. Infine, come valutare l’operato delle infermiere che materialmente hanno somministrato il medicinale in sovradosaggio?

Il Collegio perciò ha il dovere di darsi carico, dapprima – quanto alla considerazione di concause esterne – della constatazione di una inidonea organizzazione del Reparto di [omissis], che non attivava periodicamente i necessari controlli interni nè la necessaria supervisione quotidiana da parte dei medici strutturati e soprattutto non era dotato, all’epoca dei fatti, di quel necessario software idoneo a bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci; inoltre, va adeguatamente e seriamente presa in considerazione – quanto agli altri corresponsabili – la condotta assai scriteriata della Farmacia Oncologica (nelle persone del Dirigente responsabile, dott. [omissis] [omissis]; farmaciste preparatrici del farmaco, dott.sse [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis]), che, ben sapendo quale fosse la dose massima da inoculare ai pazienti oncologici, agevolava il verificarsi del triste evento, preparando materialmente le posologie sproporzionate, poi rivelatesi fatali, del farmaco chemioterapico ‘Idarubicina’ e pur avendo il dubbio che si trattasse di posologia esorbitante e senza effettuare i necessari controlli con il medico prescrittore – come, peraltro, avrebbero richiesto, in particolare, le Raccomandazioni emanate dal Ministero della salute del 14 ottobre 2012 per la prevenzione degli errori di posologia nelle terapie con farmaci anti neoplastici, laddove si raccomanda che la richiesta della preparazione galenica del farmaco debba essere sempre fatta dal medico prescrittore per iscritto o con la c.d. CIC (Convalida Informatica Certificata) e laddove è chiaramente raccomandato di non poter accettare prescrizioni verbali, eccetto che per l’interruzione urgente della terapia, che deve comunque essere trascritta quanto prima possibile – preparavano il farmaco de quo in dosaggi esorbitanti; ancora inspiegabile e inammissibile risulta, nel caso all’esame, la condotta delle infermiere che materialmente hanno inoculato le dosi letali del detto farmaco chemioterapico ([omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis]) senza minimamente chiedersi – come la loro preparazione infermieristica professionale avrebbe richiesto e come potevano verificare quotidianamente, attese le comuni e continue somministrazioni di farmaci chemioterapici ai pazienti oncologici degenti – come mai a quel paziente fosse prescritta una dose così elevata (esorbitante i limiti massimi di posologia di quel farmaco chemioterapico) e senza interpellare sul punto i medici addetti al Reparto e il medico prescrittore.

Anche il personale infermieristico infatti nell’esercizio delle proprie delicate mansioni a contatto diretto con i pazienti deve attenersi a canoni di correttezza e diligenza qualificata, a regole di estrema cautela in ragione della sua specifica qualità professionale esercitata, specie in un Reparto specializzato oncologico; essi sono perciò responsabili per imprudenza negligenza o imperizia nel caso di errori nella somministrazione della terapia e nel monitoraggio successivo del paziente, perché il loro ruolo non può essere solo quello di ‘mero esecutore materiale’ della terapia, ma deve comportare l’obbligo di controllare, prima e dopo la somministrazione del farmaco, le condizioni del paziente e di rilevare, ad esempio, macroscopici errori di indicazione del dosaggio di farmaci o inappropriatezze di prescrizioni terapeutiche, svolgendo le opportune segnalazioni al medico strutturato prescrittore.

  1. Il Collegio conclusivamente ritiene che, in fattispecie, se anche una sola delle figure professionali coinvolte nella vicenda de qua si fosse adeguatamente attenzionata e avesse seriamente svolto il proprio ruolo professionale, con l’estrema diligenza che il caso richiedeva, il sig. [omissis] avrebbe potuto, verosimilmente, superare e cronicizzare lo stato leucemico dal quale era afflitto, come si può agevolmente verificare dalla storia clinica letteraria di pazienti leucemici curati con il corretto Protocollo e molto spesso guariti. (Vedasi, ad es., le tante testimonianze di pazienti curati e guariti presso il Reparto di [omissis] dell’Università La Sapienza di Roma, che – con la scienza del compianto prof. F:M: e i medici della sua equipes – sono tornati ad una vita normale: recentemente (21 giugno 2021) i mass-media hanno riportato la notizia del nostro

Presidente della Repubblica Mattarella, che ha raccolto la testimonianza di una persona guarita da [omissis] [omissis] [omissis], signora [omissis], ricevuta al Quirinale in occasione dei 50 anni di attività dell’Associazione AIL – fondata proprio dal prof. M. – di cui la guarita è ora volontaria).

Tutto ciò premesso e considerato, nella triste vicenda all’esame, devono essere attentamente valutate tutte le corresponsabilità coinvolte, non evocate in giudizio, che, ciascuna con il proprio ruolo, sono intervenute e hanno dato concausa all’evento fatale occorso al sig. [omissis], per graduarne la responsabilità e addossare a ciascuna la quota-parte di danno, secondo giustizia. E non va ovviamente sottovalutato il preminente ruolo svolto dal Reparto di [omissis], sotto il profilo amministrativo e di adeguatezza della struttura sanitaria specializzata.

Orbene, considerato che dal danno totale richiesto (=€ 800.000,00) deve essere detratta la quota parte addossata ai dottori [omissis] e [omissis], la cui posizione è stata definita con Rito abbreviato, come già rappresentato, rimane una quota-parte di danno, pari in totale a euro 400.000,00, che la Procura attorea ha chiesto di imputare, metà ciascuna, alle odierne convenute. Il Collegio non concorda con detta imputazione, relativamente al quantum debeatur delle dottoresse [omissis] e [omissis] e ritiene equitativamente di poter addossare la parte prevalente del danno de quo nella misura del 75% di esso (pari a euro 300.000,00) alla inidonea organizzazione amministrativa-sanitaria del Reparto di [omissis], privo, all’epoca dei fatti, di quel software necessario in grado di bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci, che, solo successivamente al sinistro occorso al sig. [omissis], fu installato presso l’Ospedale ed in considerazione, altresì, degli insufficienti controlli interni predisposti dal Dirigente della struttura complessa, che vedevano troppe assenze di personale medico strutturato in corsia; detta mala-organizzazione in un Reparto [omissis], a parere del Collegio, ha avuto una valenza preponderante, quale concausa esterna, sul verificarsi della sconcertante vicenda all’esame. Il rimanente 25% del danno (pari a euro 100.000,00) va ad imputarsi, pro quota, in base alla rispettiva responsabilità, nei confronti anzitutto delle due dottoresse specializzande (cui va attribuita la quota-parte di euro 30.000,00, in parti uguali, pari a € 15.000,00 cadauna), qui evocate in giudizio, che, con comportamento gravemente colpevole, sono state la causa diretta e finale dell’evento letale nonché, virtualmente, va ad imputarsi la restante quota-parte di danno, pari a euro 70.000,00, in parti uguali, nei confronti degli ulteriori corresponsabili della vicenda de qua, sia il Responsabile della farmacia [omissis] dell’Ospedale che le due farmaciste preparatrici del farmaco nonché le quattro infermiere che materialmente hanno somministrato il farmaco con il dosaggio letale, per una quota-parte di danno pari a € 10.000,00 cadauno.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE DEI CONTI

Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, definitivamente pronunciando, ogni

contraria istanza ed eccezione reiette

ACCOGLIE parzialmente

La domanda della Procura regionale e, per l’effetto, condanna la dott.ssa [omissis] [omissis] e la dott.ssa [omissis] [omissis] al risarcimento del danno erariale indiretto pari a complessivi euro 30.000,00, in favore della Azienda Ospedaliera di [omissis], ripartito pro-quota nella somma di euro 15.000,00 cadauna. Sulla somma per cui è condanna sono dovuti la rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT nonché gli interessi legali sulla somma rivalutata, dalla pubblicazione della presente sentenza e fino al soddisfo.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in euro 598,40 (diconsi cinquecentonovantotto/40), in parti uguali.

Così deciso in Perugia, nella Camera di consiglio del 19 maggio 2021, proseguita il 6 luglio 2021.

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Medico ed infermiere manomettono i dispositivi medici ed il paziente muore

Cassazione penale 03/01/2022 n. 1 – Sez. TERZA PENALE

LA MASSIMA

Ci si trova, di fronte ad una fattispecie in cui un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

IL FATTO

Con sentenza n. 33253 del 2019 la Quarta Sezione penale della Corte di cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza del 18 maggio 2015 con la quale la Corte di appello di Bologna aveva confermato la precedente decisione del Tribunale di Bologna, che, ritenuta la penale responsabilità di  XY in ordine al reato di cui all’art. 589 cod. pen., per avere, in cooperazione colposa con altri, cagionato, con la sua imperizia, imprudenza e negligenza, la morte di XXX, paziente ricoverato presso il Reparto di terapia intensiva cardiologica dell’Ospedale Maggiore di Bologna, la aveva condannata alla pena ritenuta di giustizia.

Con la sentenza n. 33253 del 2019 la Corte di cassazione aveva rilevato che nel motivare la responsabilità della  la Corte territoriale aveva omesso di considerare quanto, nel determinismo causale della morte di XXX, avevano inciso da una parte la scelta, definita del tutto anomala, di un medico, operante presso la medesima struttura ove la  svolgeva le mansioni di infermiera, di procedere all’espianto del defibrillatore cardiaco impiantabile che era applicato al XXX con un anticipo ritenuto ingiustificato rispetto alla necessità clinica, quest’ultima legata al fatto che quello doveva essere sottoposto ad un intervento di chirurgia cardiaca che avrebbe richiesto il preventivo espianto dell’apparato, e da altra parte il fatto che, dato il momento di congestione che era in corso in quella mattinata nel reparto di terapia intensiva, non vi sarebbe stata in ogni caso la possibilità di intervenire tempestivamente per sopperire alla crisi cardiaca che aveva colpito l’uomo ed alla quale, essendo stato espiantato, non poteva più porre rimedio automaticamente il defibrillatore che questi, sino a poco tempo prima, portava nel suo corpo.

Si rileva, infatti, che secondo la accusa fra le cause della morte del XX vi era stata anche la circostanza che, essendo stato disattivato da un altro infermiere e dalla , o comunque senza la consapevole opposizione della XY , durante il turno notturno da costoro svolto, il meccanismo di attivazione dell’allarme sonoro della esistenza di eventuali malesseri cardiaci che era installato presso il letto occupato dal paziente XXX (così come per tutti gli altri pazienti ricoverati in terapia intensiva), e non avendo gli stessi provveduto né alla riattivazione dell’allarme, una volta terminato il loro servizio notturno, né ad informare di tale loro iniziativa gli infermieri che li avevano sostituiti nel turno diurno, la crisi cardiaca che aveva colpito il XXX non era stata rilevata nella sua immediatezza ma solamente quanto essa aveva già in buona parte spiegato i suoi effetti perniciosi.

Adita, pertanto, quale giudice del rinvio, la Corte di appello di Bologna, nuovamente investita della questione attinente alla responsabilità della , questa ha ribadito la responsabilità della donna, osservando che non vi erano elementi per affermare che l’evento morte del XXX fosse intervenuto a seguito di uno sviamento della ordinaria serie causale degli eventi, legato alla iniziativa di espiantare intempestivamente il defibrillatore automatico (fattore quest’ultimo che, peraltro, la Corte di Bologna ritiene non essere certo, non essendovi una tempistica standard in merito al momento in cui, in vista di un successivo intervento chirurgico, debba essere espiantato il defibrillatore impiantabile) né per sostenere, con la dovuta certezza, che, ove la crisi che aveva colpito il citato paziente fosse stata immediatamente percepita dal personale medico e paramedico in servizio presso il reparto in questione, comunque non sarebbe stato possibile ovviare ad essa nei ristretti tempi che la clinica medica ritiene utili.

 La Corte di Bologna ha, pertanto, confermato la affermazione della responsabilità della donna, limitandosi a ridurre la pena a questa inflitta, portandola da anni 2 di reclusione, come stabilito dal Tribunale di Bologna, ad anni 1 di reclusione, salvo il resto.

Avverso la sentenza in questione ha interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore fiduciario, la Coppolla, articolando due motivi di impugnazione.

Il primo motivo riguarda la erronea applicazione della legge penale in relazione alla rilevazione del nesso di causalità fra la condotta della  e l’evento morte oggetto di contestazione; in sostanza, rileva la ricorrente difesa, la Corte di Bologna, disattendendo le conclusioni cui era peraltro già giunta la Corte di cassazione, ha ritenuto che la condotta del dott. XX, che ha espiantato intempestivamente il defibrillatore dalla persona del XXX, non avrebbe costituito un autonomo ed autosufficiente elemento di rischio atto ad interrompere il nesso di causalità fra l’evento e la condotta della XY, laddove, invece, gli elementi istruttori in atti depongono per la irritualità dell’intervento del dott. XX, il quale non solo non aveva comunicato a tutti gli altri addetti alla terapia intensiva quanto da lui fatto, ma neppure si era preoccupato di verificare la funzionalità del sistema di allarme, tale quindi da introdurre un fattore di novità della precedente serie causale.

Quanto all’ulteriore profilo la ricorrente rileva che la valutazione sulla possibile tempestività dell’intervento dei sanitari, ove gli stessi fossero stati  avvisati per tempo, è stata operata in termini del tutto apodittici e senza procedere ad un autonomo e concreto esame delle risultanze probatorie, e senza, peraltro, che sia stato verificato quale sarebbe potuto essere il tempo utile per intervenire fattivamente a salvaguardia della vita del XXX; la necessità della verifica di tale lasso di tempo tanto più sarebbe stata evidente ove si consideri che, non essendo stato informato tutto il personale dell’avvenuto espianto del defibrillatore dal corpo del XXX, non vi era in atto nel personale una condizione di preallarme, posto che si riteneva che alle eventuali emergenze si sarebbe fatto fronte con il dispositivo che il paziente portava addosso.

Conclusivamente la difesa della imputata richiede nuovamente l’annullamento della sentenza della Corte di Bologna.

CONSIDERATO IN DIRITTO

 Il ricorso, essendo risultati manifestamente, infondati i due motivi posti a suo sostegno, deve essere dichiarato inammissibile. Con riferimento al primo motivo di impugnazione, con il quale la difesa della ricorrente lamenta, sotto il profilo della violazione di legge, il fatto che la Corte di Bologna, nell’affermare la penale responsabilità della  in ordine al reato a lei contestato, avrebbe fatto malgoverno degli artt. 40 e 41 del codice sostanziale penale nella parte in cui essi regolano il regime del nesso di causalità, in particolare nel caso in cui un evento sia dovuto alla interazione sotto il profilo causale di una pluralità di fattori genetici, ritiene la Corte che la doglianza sia del tutto priva di fondamento.

Deve, infatti, premettersi la assoluta irritualità del comportamento tenuto dalla  che, per ragioni da lei stessa ascritte alla esigenza di “scongiurare, durante la notte, quello che (la medesima) aveva definito ‘inquinamento acustico’”, aveva provveduto, unitamente all’altro collega svolgente il servizio notturno di assistenza infermieristica, a silenziare (oltre che gli stessi campanelli dell’interfono che consentiva ai pazienti di collegarsi con gli infermieri di guardia, “tanto che questi, per chiedere aiuto, dovevano chiamare ad alta voce’) il sistema di allarme acustico e visivo, (cosiddetto “allarme rosso”) volto a segnalare, onde immediatamente allertare il personale sanitario, la presenza di fenomeni patologici, ivi compresi quelli di aritmia cardiaca, riferibili ai singoli soggetti occupanti le postazioni di terapia intensiva, riguardante il posto letto assegnato al XXX; deve altresì ricordarsi che il detto sistema di allarme non solamente non era stato riattivato dai due al momento della cessazione del loro servizio ma anche che della sua anomala disattivazione i predetti non avevano fatto cenno ai loro colleghi montanti per il turno diurno.

In termini del tutto corretti, pertanto, i giudici del merito hanno attribuito rilevanza causale all’operato della imputata nel determinismo dell’evento morte del paziente XXX, posto che, evidentemente, la disattivazione dell’impianto di allarme acustico e visivo ha comportato un ritardo nell’assistenza prestata al paziente in occasione della crisi cardiaca per lui fatale.

Ciò posto si tratta di vedere se correttamente o meno in sede di merito è stato escluso che la serie causale, innescata dalla condotta della , può dirsi essere stata interrotta dal fatto che – in termini temporali verosimilmente anticipati rispetto ad una prassi prudenziale, sebbene sia stato accertato che non vi siano precisi riferimenti cronologici in ordine alla tempistica riguardante la effettuazione di tale, pur nell’occasione indispensabile, operazione – alle ore 8 e 28 minuti del 20 febbraio 2013, data in cui si è verificato l’evento, il cardiochirurgo che, successivamente – in particolare fra la tardissima mattinata ed il primo pomeriggio del medesimo giorno – avrebbe dovuto operare il XXX, aveva provveduto, come peraltro necessario in vista del programmato intervento, a disattivare il “defibrillatore cardiaco impiantabile” portato dal paziente e che, fino a quel momento, anche nella notte immediatamente precedente, aveva ovviato in via automatica, consentendo il ripristino dell’ordinario ciclo, alle non infrequenti anomalie del ritmo cardiaco che il paziente presentava.

Ci si trova, in sostanza, di fronte ad una fattispecie in cui un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

Nella specie si è dato correttamente corso al giudizio di responsabilità della , essendo stata esclusa – proprio per la sua doverosità in quanto necessariamente funzionale all’effettuazione del successivo intervento chirurgico programmato – la eccezionalità, tale da introdurre un fattore di rischio del tutto inatteso ed autonomo, della condotta di rimozione dell’apparecchio ICD tenuta dal sanitario intervenuto nella mattina del 20 febbraio 2013.

Tale operazione, infatti, sebbene inopportuna nella sua tempistica, non si presenta come idonea ad integrare una serie causale di pericolo del tutto autonoma rispetto alla condotta della , posto che, laddove non fossero stati disattivati i meccanismi automatici di allarme, si sarebbe potuto ragionevolmente ritenere che, l’ambiente ove si trovava il XXX, caratterizzato da un elevato grado di presenza di meccanismi automatici di attivazione della assistenza medica, avrebbe garantito a quello, in caso di necessità, una pronta ed adeguata prestazíone terapeutica.

 D’altra parte non può trascurarsi di osservare che – avendo la  e l’altro infermiere che aveva con lei svolto il turno notturno, disattivato l’impianto di allarme acustico che, pur in presenza del defibrillatore automatico, avrebbe segnalato a questi stessi soggetti il fatto che, durante la notte precedente all’evento morte, il XXX aveva presentato diversi episodi di aritmia cardiaca ,come successivamente emerso in occasione dell’esame dell’apparecchio già espiantato che in più di un’occasione era intervenuto a ripristinare il ritmo cardiaco – non era stato possibile apprezzare immediatamente una siffatta circostanza che, con assoluta verosimiglianza, ove, invece, posta a conoscenza del personale sanitario, avrebbe, quanto meno, indotto una particolare cautela sia nella scelta dei tempí per l’esecuzione dell’espianto sia – ove portata a conoscenza di tutto il personale e non del solo medico che, dopo avere eseguíto l’espianto, aveva compiuto l’”interrogatorio telemetrico dell’apparecchiatura”, il quale, a sua volta, aveva informato del suo operato solo alcuni altri addetti – nel monitoraggio, una volta compiuta tale operazione, delle condizioni del paziente.

Particolare attenzione che – pur considerate le peculiarità che caratterizzano in tema di assistenza medica un reparto di terapia intensiva – la non preventivamente rilevata presenza di particolari criticità, “silenziate” per effetto dell’avvenuta disattivazione dell’impianto di segnalazione acustica e visiva delle emergenze, aveva verosimilmente fatto trascurare. In definitiva nel rilevare che non vi era stata alcuna interruzione del nesso di causalità fra la improvvida condotta della  e l’evento da cui dipende l’esistenza del reato a lei ascritto la Corte felsinea non ha fatto cattivo governo dei criteri che regolano la materia in caso di pluralità di fattosi causali, avendo, invece, correttamente applicato il principio, accolto sia in sede normativa che dalla ermeneutica giurisprudenziale, di equivalenza causale, in applicazione del quale l’azione od omissione dell’agente è considerata causa dell’evento nel quale il reato si concretizza, anche se altre circostanze, di qualsiasi genere – a quello estranee, preesistenti, concomitanti o successive, laddove esse non siano state tali da determinare in maniera autonoma e del tutto indipendente dalle precedenti l’evento – concorrono alla sua produzione perché il comportamento dell’agente ha pur sempre costituito una delle condizioni dell’evento (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 26 marzo 1983, n. 2764).

Venendo al secondo motivo di ricorso, il cui oggetto è la ritenuta contraddittorietà o illogicità della motivazione della sentenza impugnata in quanto in essa la Corte felsinea avrebbe, in termini apodittici, rilevato che, ove l’impianto di allarme sonoro disattivato dalla  fosse stato in funzione sarebbe stato possibile intervenire tempestivamente a favore del XXX, va rilevata la inammissibilità anche di questo. Si rileva che sul punto la sentenza impugnata, lungi dal presentare il vizio lamentato dal ricorrente, ha invece minuziosamente ricostruito le fasi che hanno condotto all’exitus del XXX, segnalando il fatto che fra la prima fase di semplice tachicardia ventricolare, iniziata alle ore 8 e 48 minuti, per come oggettivamente risultante dalle registrazioni elettrocardigrafiche operate in via continuativa sui pazienti ricoverati nella rianimazione, e la fase di “asistolia non rettilinea”, rilevata strumentalmente alle ore 9, 0 minuti e 50 secondi, successivamente alla quale, dopo altri 2 minuti circa, sono iniziate le, ormai tardive, manovre di rianimazione, sono intercorsi quasi 13 minuti, tempo indubbiamente più che sufficiente, in un reparto ospedaliero istituzionalmente avvezzo a praticare cure d’urgenza quale è quello della rianimazione cardiologica (nel quale gli apparati “salvavita” sono già allocati accanto al posto letto di ogni degente), per apprestare una risposta che, ad avviso della Corte (e si tratta di valutazione di fatto del tutto plausibilmente basata sulle risultanze consultive di cui la Corte territoriale ha tenuto conto, come tale non censurabile di fronte a questa Corte di legittimità), avrebbe con elevatissima probabilità consentito, se tempestiva, la sopravvivenza del [XXX. Tutto questo, beninteso, solo in quanto l’apparato di costante monitoraggio della condizione del paziente fosse stato correttamente collegato con il sistema di allarme acustico e visivo, dovendo ritenersi, senza alcun ragionevole dubbio, che questo, adempiendo alla sua specifica funzione, avrebbe allertato il personale ospedaliero ben primo di quanto sia, invece, casualmente avvenuto nella fattispecie.

Le doglianze al riguardo formulate dalla difesa della ricorrente, attinenti alla pretesa “costipazione” del personale del reparto al momento in cui è verificata l’emergenza, impegnato in altre e diverse attività, non superano il livello della mera prospettazione fattuale, come tale non rilevante in questa sede, peraltro smentita dalla Corte di Bologna, la quale ha accertato che nel momento in cui si è verificata la crisi cardiaca che ha condotto il paziente a morte nel reparto vi erano, almeno, tre infermieri professionali ed un medico di guardia, nessuno dei quali impegnato in attività aventi una qualche urgenza e che, pertanto, ben avrebbero potuto essere interrotte onde prestare la indispensabile assistenza al XXX; tutto questo, beninteso, si ribadisce, solo in quanto gli strumenti apprestati per segnalare con immediata tempestività la presenza di situazioni di emergenza non fossero stati, con [inescusabile negligenza e gravissima imprudenza, disattivati dalla . Non essendo stata riscontrata, alla luce delle argomentazioni che precedono, alcuna contraddizione né manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata della Corte di appello di Bologna, anche il secondo motivo del ricorso presentato avverso di essa deve essere dichiarato inammissibile e, con esso, l’intera impugnazione.

Conseguentemente a tale statuizione la ricorrente, visto l’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannata al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Della presente pronunzia, essendo divenuta definitiva la condanna della , dipendente di una amministrazione pubblica, deve essere data notizia, ai sensi dell’art. 153-ter disp. att. cod. proc. pen., alla Azienda ospedaliera presso la quale la stessa, quantomeno all’epoca del fatto, prestava servizio.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Visto l’art. 153-ter disp. att. cod. proc. pen., dispone che il presente dispositivo

sia comunicato alla Azienda ospedaliera Ospedale Maggiore di Bologna.

Così deciso in Roma, il 3 novembre 2021

Consiglio di Stato legittimo l’obbligo vaccinale per i sanitari

Consiglio di Stato sez. III, 20/10/2021, (ud. 14/10/2021, dep. 20/10/2021), n.7045

Il testo

LA MASSIMA

La vaccinazione obbligatoria selettiva introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 per il personale medico e, più in generale, di interesse sanitario risponde ad una chiara finalità di tutela non solo – e anzitutto – di questo personale sui luoghi di lavoro e, dunque, a beneficio della persona, secondo il già richiamato principio personalista, ma a tutela degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, secondo il pure richiamato principio di solidarietà, che anima anch’esso la Costituzione, e più in particolare delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza.

1. Gli odierni appellanti sono costituiti, in parte, da esercenti professioni sanitarie e, in parte, da operatori di interesse sanitario nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, non ancora sottoposti alla vaccinazione obbligatoria contro il virus Sars-CoV-2 prevista dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021.

1.1. Essi contestano nel presente giudizio gli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane hanno inteso dare applicazione, nei loro confronti, dell’obbligo vaccinale c.d. selettivo previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 per gli esercenti le professioni sanitarie e per gli operatori di interesse sanitario.

2. Per comprendere a fondo il tema di causa, occorre ricordare che il citato art. 4, nel comma 1, dispone che, in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano di cui all’art. 1, comma 457, della l. n. 178 del 2020 – e, cioè, il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, finalizzato a garantire il massimo livello di copertura vaccinale sul territorio nazionale – e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza», gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della l. n. 43 del 2006, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.

2.1. La vaccinazione costituisce espressamente, ai sensi del citato comma 1, «requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati» ed è somministrata nel rispetto delle indicazioni fornite dalle Regioni, dalle Province Autonome e dalle altre autorità sanitarie competenti, in conformità alle previsioni contenute nel piano.

2.2. L’unica esenzione dall’obbligo vaccinale, con differimento o, addirittura, omissione del trattamento sanitario in prevenzione, è doverosamente prevista, nel comma 2, per il solo caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale.

2.3. L’art. 4 prevede un complesso procedimento per l’accertamento e l’esecuzione dell’obbligo vaccinale, disciplinato analiticamente dai commi 3, 4 e 5.

2.4. Secondo quanto prevede il comma 3, entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, ciascun Ordine professionale territoriale competente trasmette l’elenco degli iscritti, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla Regione o alla Provincia autonoma in cui ha sede.

2.5. Entro il medesimo termine i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali trasmettono l’elenco dei propri dipendenti con tale qualifica, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla Regione o alla Provincia autonoma nel cui territorio operano i medesimi dipendenti.

2.6. Ancora, e successivamente, entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi di cui al comma 3, le Regioni e le Province autonome, per il tramite dei servizi informativi vaccinali, verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi e, quando dai sistemi informativi vaccinali a disposizione della Regione e della Provincia autonoma non risulta l’effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell’ambito della campagna vaccinale in atto, la Regione o la Provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all’Azienda sanitaria locale – di qui in avanti, per brevità, anche solo l’A.S.L. – di residenza i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati.

2.7. Ricevuta la segnalazione di cui al comma 4, l’A.S.L. di residenza invita l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell’invito, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione o l’omissione o il differimento della stessa, ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1.

2.8. In caso di mancata presentazione della documentazione prevista dalla legge, l’A.S.L., successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo di cui al comma 1 oppure, in caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’A.S.L. invita l’interessato a trasmettere immediatamente, e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.

3. Gravi ed incisive sono le conseguenze dell’inadempimento ingiustificato all’obbligo vaccinale perché, come prevede espressamente l’art. 4, comma 6, del d.l. n. 44 del 2021, decorsi i termini per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale di cui al comma 5, l’A.S.L. competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza.

3.1. L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’A.S.L. determina «la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2», come espressamente stabilisce ancora il comma 6 dell’art. 4.

3.2. La sospensione di cui al comma 6 è comunicata immediatamente all’interessato dall’Ordine professionale di appartenenza e, ricevuta la comunicazione di cui al comma 6, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.

3.3. Quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, stabilisce infine il comma 8, per il periodo di sospensione di cui al comma 9 – e, cioè, «fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021» – non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato.

4. La legittimità di questa disciplina, che introduce tale obbligo vaccinale per le professioni sanitaria e conferisce alle AA.SS.LL. un potere, vincolato a rigorosi requisiti, volto ad accertare l’adempimento di tale obbligo, con incisive – per quanto temporanee – conseguenze sanzionatorie sul rapporto lavorativo in caso di ingiustificato inadempimento, è stata contestata dagli odierni appellanti nel presente giudizio avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), in quanto da essi ritenuta incompatibile con il diritto convenzionale, con quello eurounitario e con diversi parametri costituzionali

4.1. Essi hanno chiesto dunque al Tribunale, proponendo diverse censure che di seguito saranno esaminate, di disapplicare la normativa sospettata di illegittimità o, comunque, di sollevare questione di compatibilità del diritto nazionale con quello europeo avanti alla Corte di Giustizia UE o questione di costituzionalità avanti alla Corte costituzionale al fine, evidentemente, di ottenere l’annullamento, previa sospensione in via cautelare, degli atti con i quali le Aziende sanitarie friulane hanno inteso dare attuazione, nei loro confronti, all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021.

4.2. Nel primo grado del giudizio si sono costituite -OMISSIS-, deducendo l’inammissibilità del ricorso o, comunque, l’infondatezza di questo.

4.3. Nella camera di consiglio dell’8 settembre 2021, fissata per l’esame dell’istanza cautelare proposta dai ricorrenti, il Tribunale ha dato avviso alle parti della propria intenzione di trattenere la causa in decisione per una sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., e ha indicato a tal fine una possibile ragione di inammissibilità del ricorso, costituita dalla carenza dei presupposti per la proposizione di una impugnazione collettiva e cumulativa.

4.4. I ricorrenti hanno rinunciato alla loro istanza cautelare, insistendo per il rinvio della causa al merito già richiesto due giorni prima con apposita istanza, ma il Tribunale, all’esito di un’ampia discussione, documentata, come si vedrà, anche dal verbale dell’udienza camerale, ha trattenuto la causa in decisione in forma semplificata.

4.5. Con la sentenza n. 263 del 10 settembre 2021, resa appunto in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso per la ritenuta carenza dei presupposti per la proposizione di una impugnazione collettiva e cumulativa.

4.6. Il primo giudice, dopo avere valutato la rinuncia dei ricorrenti all’istanza cautelare come irrilevante e, comunque, non ostativa alla definizione del giudizio ai sensi dell’art. 60 c.p.a. con sentenza in forma semplificata, ha invero ritenuto che il ricorso di primo grado violerebbe i principî che presiedono alla proposizione del ricorso collettivo e cumulativo.

4.7. Quanto al primo profilo, inerente alla collettività del ricorso, il Tribunale ha infatti rammentato che il cumulo soggettivo può essere ammesso solo ove sussistano congiuntamente i requisiti dell’identità delle situazioni sostanziali e processuali dei ricorrenti – e, cioè, che le domande giudiziali siano identiche nell’oggetto e che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e che vengano censurati per gli stessi motivi – e, in negativo, dell’assenza di un conflitto di interesse.

4.8. Quanto al secondo profilo, inerente alla cumulatività del ricorso, il Tribunale ha ricordato ancora che il ricorso deve avere ad oggetto un solo provvedimento e che il cumulo oggettivo è consentito solo qualora tra gli atti impugnati esista una connessione procedimentale e funzionale, tale da giustificare la proposizione di un unico ricorso, al fine di riscontrare una connessione oggettiva tra gli atti impugnati, in quanto riferibili ad una stessa unica ed unica sequenza procedimentale o iscrivibili all’interno della medesima azione amministrativa.

4.9. I requisiti per la proposizione del ricorso collettivo e cumulativo difetterebbero invece, nel caso di specie, perché non vi sarebbe omogeneità né, sul piano soggettivo, nelle qualifiche professionali dei ricorrenti – essendo alcuni di essi medici, altri farmacisti, altri dipendenti di Aziende sanitarie o di strutture private – né, ancor meno, nella natura degli atti impugnati, alcuni dei quali meramente endoprocedimentali – come, ad esempio, per gli inviti a produrre la documentazione sanitaria di cui al citato art. 4, comma 5, del d.l. n. 44 del 2021 – o comunque non conclusivi dell’iter amministrativo configurato dal legislatore per accertare l’inadempimento dell’obbligo vaccinale.

5. Soltanto l’atto conclusivo del procedimento previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 avrebbe insomma, ad avviso del primo giudice, natura provvedimentale e radicherebbe l’interesse a ricorrente, non già gli atti pregressi e prodromici della sequenza procedimentale, privi di immediata valenza lesiva.

5.1. Il Tribunale ha in conclusione dichiarato inammissibile il ricorso, per le ragioni esposte, e ha condannato i ricorrenti, invero numerosi, a rifondere le spese del giudizio nei confronti delle tre Aziende sanitarie costituitesi in resistenza.

6. Avverso questa sentenza gli interessati hanno proposto appello avanti a questo Consiglio di Stato, deducendone l’erroneità del giudizio per cinque motivi che di seguito saranno esaminati e riproponendo, altresì, le dieci censure di illegittimità dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 articolate in primo grado e non esaminate nel merito dal Tribunale, e hanno chiesto, più in particolare:

– in via principale, di accogliere il ricorso e, per l’effetto, di annullare la sentenza impugnata e, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., di rimettere la causa al primo giudice, anche al fine di proporre motivi aggiunti, dal primo giudice, a loro dire, illegittimamente impediti, oppure di riformare la sentenza impugnata, nel merito, e accogliere il ricorso di primo grado;

– in via subordinata, di rimettere, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., all’Adunanza plenaria l’esame della questione, anche in considerazione dei principî generali che essa involge, se l’art. 60 c.p.a. consenta al giudice di pronunciare in forma semplificata anche laddove sia intervenuta una espressa dichiarazione di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare da parte dei ricorrenti;

– in via di estremo subordine, accogliere il quinto motivo di appello e, per l’effetto, di compensare le spese del giudizio di primo grado.

6.1. Gli appellanti hanno altresì richiesto, insieme all’annullamento o alla riforma della sentenza impugnata con il conseguente risarcimento dei danni, anche la sospensione della sua esecutività ai sensi dell’art. 98 c.p.a.

6.2. Si sono costituite le appellate, -OMISSIS-, chiedendo la reiezione del gravame e, dunque, la conferma della dichiarata inammissibilità del ricorso proposto in prime cure o comunque, nel merito, deducendone l’infondatezza, anche in punto di domanda risarcitoria formulata consequenzialmente dagli appellanti.

6.3. Nella camera di consiglio del 14 ottobre 2021, fissata avanti a questo Consiglio di Stato per l’esame dell’istanza cautelare proposta dagli appellanti, il loro difensore, l’Avvocato Daniele Granara, ha dichiarato di rinunciare all’istanza cautelare, al fine di richiedere una sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., in ordine alla definizione del giudizio in forma semplificata decisa per parte sua dal parte del primo giudice nonostante la rinuncia all’istanza cautelare, proposta in primo grado, e la volontà, a suo dire palesata dal difensore dei ricorrenti presente nell’udienza camerale tenutasi avanti al Tribunale, l’Avvocato Mattia Menotti, di proporre motivi aggiunti.

6.4. Questo Collegio si è riservato di decidere con sentenza in forma semplificata, ai sensi e per gli effetti dell’art. 60 c.p.a., anche e proprio su richiesta dello stesso difensore degli appellanti, e udita la discussione dei difensori presenti, come da verbale, ha trattenuto la controversia in decisione.

7. L’appello è in parte fondato per le ragioni che si esporranno, in quanto il ricorso di primo grado, proposto dagli odierni appellanti, era ed è ammissibile nel caso di specie, ma deve, ad avviso di questo Consiglio, essere respinto nel merito.

7.1. Il Collegio ritiene anzitutto doveroso soffermarsi, per l’importanza preliminare della questione in rito sollevata dagli appellanti e ribadita oralmente dal loro difensore, l’Avvocato Daniele Granara, nel corso della camera di consiglio del 14 ottobre 2021, sulla ratio dell’art. 60 c.p.a. e, più in generale, della sentenza in forma semplificata nel codice del processo amministrativo.

7.2. L’art. 60 c.p.a. prevede che, «in sede di decisione della domanda cautelare», purché siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, il Collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con una sentenza in forma semplificata – modulo decisorio il cui schema generale è fissato dall’art. 74 c.p.a. – «salvo che una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di giurisdizione, ovvero regolamento di giurisdizione».

7.3. La sentenza in forma semplificata non costituisce per il giudice un metodo alternativo o, peggio ancora, spicciativo o frettoloso di risolvere la controversia, ma rappresenta, anche in sede cautelare, un modo ordinario di definizione del giudizio – previsto espressamente, infatti, quale regola in alcuni riti speciali: ad esempio quello dell’ottemperanza (art. 114, comma 3, c.p.a.), quello sul silenzio (art. 117, comma 2, c.p.a.), quello dei contratti pubblici (art. 120, comma 6, c.p.a., addirittura in deroga ai limiti di cui al primo periodo dell’art. 74 c.p.a.) – e, dunque, un modulo decisorio più rapido e semplificato adoperabile tutte le volte in cui il giudice ritenga di potersi pronunciare sulla controversia, senza ulteriori approfondimenti istruttori o adempimenti processuali, in quanto di pronta soluzione.

7.4. In via generale, l’art. 74 c.p.a. richiede, nel rito ordinario, che il giudice decida la causa in forma semplificata nel caso in cui ravvisi la manifesta fondatezza o la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso e, allorché adotta lo schema della sentenza in forma semplificata, la motivazione di questa può – non necessariamente deve – «consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme».

7.5. Lo schema della sentenza in forma semplificata è adottabile in via generale dal giudice collegiale, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., anche in sede cautelare all’esito dell’apposita camera di consiglio, sempre dopo avere sentito le parti e, dunque, nel doveroso rispetto del contraddittorio, quando ritenga completi sia il contraddittorio tra le parti che l’istruttoria della causa.

7.6. Questo Consiglio di Stato ha già chiarito che la sentenza semplificata ha una ratio, insieme, acceleratoria del giudizio e semplificatoria della motivazione, consentendo la rapida definizione, in sintonia con il generale principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di quelle controversie che non presentano profili di complessità, in fatto e in diritto, tali da richiedere una motivazione articolata, bastando uno schema argomentativo snello che si limiti ad indicare le poche essenziali questioni della controversia e cioè, come prevede in via generale l’art. 74 c.p.a., un sintetico riferimento al punto di fatto e di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme.

7.7. Tanto, del resto, in armonia e in ossequio al più generale obbligo, che grava sul giudice, di “concisione” dei motivi, in fatto e in diritto, della decisione, anche con rinvio ai precedenti ai quali intende conformarsi, previsto dall’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a. e in conformità al fondamentale principio di sinteticità, affermato dall’art. 3, comma 2, c.p.a., che non concerne solo gli atti di parte, ma anzitutto quelli del giudice, a cominciare dalla sentenza.

8. Ciò premesso, questo stesso Consiglio ha pure precisato che non può costituire motivo di appello la scelta del giudice di primo grado di pronunciare con uno od un altro dei tipi di sentenza previsti dall’ordinamento processuale e, quindi, anche con sentenza in forma semplificata, potendo solo essere censurata la motivazione che sorregge la pronuncia, quanto a congruità e correttezza.

8.1. Se una sentenza è resa in forma semplificata, con tale forma decisoria supponendosi una più stringata motivazione in relazione all’esame e decisioni assunte sui motivi di ricorso, ciò rileva non sul piano formale, poiché è irrilevante la qualificazione testuale dell’atto del giudice, bensì sul piano sostanziale e cioè, afferma la giurisprudenza di questo Consiglio, in ordine alla concreta sussistenza dei presupposti, quali la completezza di istruttoria e di contradditorio nonché l’adeguatezza della motivazione.

8.2. Ciò che comporta la proposizione, in sede d’impugnazione, di un motivo che tocchi il merito della decisione assunta dal primo giudice e non già di una censura meramente formale (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 7 febbraio 2018, n. 728; Cons. St., sez. IV, 20 novembre 2012, n. 5879).

8.3. La parte può tuttavia dolersi – ed è questo il caso dei primi due motivi di appello – che il giudice, nel decidere con sentenza in forma semplificata, abbia violato, se così può dirsi, per eccessiva sollecitudine il diritto di difesa o il contraddittorio tra le parti, aventi invece interesse a prendervi parte in modo attivo, ad impugnare altri atti o ad allegare o provare i fatti rilevanti prima della sua conclusione.

8.4. Una simile censura, come ora si vedrà, non può tuttavia muovere dall’erroneo assunto e non condivisibile assunto secondo cui il principio dispositivo, che vige con alcuni temperamenti anche nel giudizio amministrativo, conferisca alla parte un potere di impulso o di veto immotivato e incondizionato sul regolare e, ove possibile, sollecito andamento del processo che è, sì, tutela giurisdizionale di una situazione giuridica lesa, ma anche esercizio di una funzione pubblica, quella del ius dicere, che obbedisce a precise regole e a valori di rilievo costituzionale, i quali presidiano beni che non sono o, almeno, non sono del tutto nella disponibilità della parte.

8.5. Per questo il processo amministrativo è un processo di parte, ma non un processo delle parti.

8.6. È tenendo a mente queste brevi, sintetiche, preliminari considerazioni che può muoversi ora all’esame dei primi due motivi di appello, relativi proprio alla presunta assenza dei presupposti per pronunciare una sentenza in forma semplificata di cui all’art. 60 c.p.a., denunciata dagli odierni appellanti che, per la dedotta violazione del loro diritto di difesa, chiedono a questo Consiglio di rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a.

9. Con un primo motivo (pp. 33-39 del ricorso), anzitutto, gli odierni appellanti lamentano che il Tribunale avrebbe erroneamente trattenuto la causa in decisione, per la sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., nonostante essi avessero formulato un’espressa rinuncia alla domanda cautelare.

9.1. La rinuncia a detta domanda, secondo questa tesi, precluderebbe al giudice di trattenere la causa in decisione per emettere una sentenza in forma semplificata in quanto il giudice non avrebbe più il potere di decidere la causa anche nel merito una volta che i ricorrenti abbiano rinunciato alla proposizione della domanda cautelare, presupposto indispensabile affinché si attivi il potere/dovere di decidere in capo al giudice.

9.2. L’art. 60 c.p.a., questo è in nuce il ragionamento degli appellanti (v. pp. 33-34 del ricorso), prevede infatti espressamente che, «in sede di decisione della domanda cautelare», il Collegio possa decidere, ricorrendone gli altri presupposti, ma se vi è stata rinuncia alla domanda cautelare nessun potere decisorio spetta al giudice su una domanda ormai rinunciata.

9.3. La riprova di tanto si rinverrebbe anche nell’art. 71, comma 5, c.p.a., a mente del quale il termine per la notifica del decreto di fissazione dell’udienza di merito è ridotto a quarantacinque giorni, su accordo delle parti, se l’udienza di merito è fissata a seguito della rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare.

9.4. La disposizione attribuirebbe autonomo rilievo alla rinuncia della parte ricorrente alla definizione dell’istanza cautelare, sicché la rinuncia espressa dei ricorrenti alla definizione autonoma dell’istanza cautelare e, quindi, ad una pronuncia giurisdizionale priverebbe il giudice del potere di rendere tale pronuncia.

9.5. Un simile argomento prova tuttavia troppo perché la rinuncia alla domanda cautelare esonera il giudice dall’obbligo di pronunciarsi su questa, ma non gli sottrae la facoltà di pronunciare con sentenza in forma semplificata sull’intera controversia, se le parti non oppongano validi motivi a questa soluzione, legati alla volontà di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o di giurisdizione.

9.6. Nel caso di specie risulta dal verbale di udienza, il quale fa piena prova fino a querela di falso delle dichiarazioni effettuate, che il difensore dei ricorrenti abbia solo chiesto di rinviare la causa al merito, senza ulteriore motivazione, e di rinunciare comunque alla domanda cautelare, ma questo non preclude al giudice di potere definire la causa immediatamente, sussistendone gli altri presupposti di cui all’art. 60 c.p.a. (rispetto dei venti giorni dall’ultima notifica, completezza del contraddittorio e dell’istruttoria).

9.7. Gli appellanti richiamano a sostegno della loro tesi la sentenza di questo Consiglio, sez. IV, 5 giugno 2012, n. 3317, secondo cui la rinuncia alla domanda cautelare farebbe venire meno il presupposto per la decisione della domanda cautelare, unica sedes materiae individuata dal legislatore, ma sé questa un’unica, isolata, e ormai risalente pronuncia, che si fonda sul significato meramente letterale dell’espressione «in sede di discussione della domanda cautelare».

9.8. Si tratta, tuttavia, di un indirizzo ermeneutico superato dalla più recente e ormai consolidata giurisprudenza della giurisprudenza amministrativa – v., per tutte, Cons. St., sez. V, 28 luglio 2015, n. 3718, richiamata pure dalla sentenza impugnata – secondo cui sussistono i presupposti per la definizione del giudizio con sentenza ai sensi dell’art. 60 c.p.a., benché il difensore dell’appellante abbia dichiarato in camera di consiglio di rinunciare all’istanza cautelare, peraltro dopo essere stata avvisata di tale possibilità, in quanto le uniche cause ostative a tale definizione sono quelle, non sussistenti nel caso di specie, enunciate dalla disposizione del codice del processo appena citata e, cioè, il difetto del contraddittorio e la non completezza dell’istruttoria, che spetta al Collegio decidente apprezzare, nonché la dichiarazione della parte circa la volontà di «proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione».

9.9. Questo orientamento risponde al più generale principio secondo cui l’opportunità di una decisione nel merito della causa è rimessa dal legislatore al prudente apprezzamento del giudice e non già alla volontà delle parti, che possono, sì, rinunciare alla domanda cautelare, ma non già disporre come vogliono – in ragione di un malinteso senso del c.d. principio dispositivo – del funzionale e sollecito andamento del giudizio, informato ai valori del giusto processo e della ragionevole durata di questo (art. 111 Cost.).

10. Questo Consiglio ha in più occasioni affermato che il rito previsto dall’art. 60 c.p.a. non ha natura consensuale (Cons. St., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 178) e che nemmeno la mancata comparizione delle parti costituite all’udienza cautelare può impedire al Collegio di trattenere la causa in decisione per emettere sentenza in forma semplificata (Cons. St., sez. III, 7 luglio 2014, n. 3453).

10.1. L’espressione «in sede di decisione della domanda cautelare», contenuta nell’art. 60 c.p.a., sta solo a significare che il Collegio chiamato a decidere la domanda cautelare, in sede di camera di consiglio fissata per la discussione orale e dopo aver sentito ovviamente le parti sul punto, può decidere immediatamente e interamente nel merito la causa, se ve ne sono i presupposti, e non già che gli sia consentito farlo solo unitamente alla domanda cautelare, che dunque può essere oggetto di rinuncia dalla parte ricorrente senza che ciò precluda al giudice l’esame contestuale del merito.

10.2. Non depone in senso contrario la previsione dell’art. 71, comma 5, c.p.a., il quale stabilisce che il termine di sessanta giorni per la comunicazione del decreto che fissa l’udienza di discussione di merito può essere ridotto a quarantacinque giorni, su accordo delle parti, se l’udienza di merito è fissata «in seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare», perché la disposizione non implica che in seguito alla rinuncia il giudice debba necessariamente fissare l’udienza di merito senza poter trattenere la causa immediatamente in decisione per il merito, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ma solo che il termine per la comunicazione di tale fissazione sia ridotto, su accordo delle parti, a quarantacinque giorni.

10.3. Dall’art. 71, comma 5, c.p.a. non può trarsi paradossalmente in via interpretativa, contro la ratio acceleratoria di tutte le previsioni del codice di rito, alcun divieto di sentenza in forma semplificata in seguito alla rinuncia alla domanda cautelare.

10.4. Anzi la ratio acceleratoria sottesa alla previsione dell’art. 71, comma 5, c.p.a. è ancor meglio soddisfatta dalla contestuale decisione della causa alla camera di consiglio fissata per la decisione della domanda cautelare, se le parti – come è stato nel caso presente – nulla abbiano da osservare e/o da opporre circa la sollecita definizione della causa, evitando finanche l’abbreviazione consensuale del termine a quarantacinque giorni e comunque l’ulteriore rinvio della causa all’udienza pubblica di merito.

10.5. Nello stesso senso deve essere letta la previsione dell’art. 71-bis, comma 2, c.p.a., secondo cui a seguito dell’istanza di prelievo, con cui la parte segnala l’urgenza del ricorso, il giudice, anche in questo caso accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite le parti costituite sul punto, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata.

10.6. Lo schema della sentenza semplificata – che, come si è premesso, ha valenza generale e non costituisce certo una deroga al principio dispositivo o una scorciatoia al pieno e satisfattivo contraddittorio tra le parti – è qui impiegato dal legislatore al di fuori del giudizio cautelare, come del resto accade anche nell’ipotesi dell’art. 74 c.p.a., in quanto l’art. 71-bis c.p.a. concerne l’ipotesi di definizione del merito, in seguito ad istanza di prelievo, mediante il rito camerale e secondo presupposto identici a quelli alla trattazione della domanda cautelare (pure esaminata in camera di consiglio).

10.7. Proprio questa previsione dell’art. 71-bis c.p.a. dimostra anzi, e contrario, che la definizione della causa nel merito con lo schema della sentenza in forma semplificata – qui secondo un modello ricalcato appieno e finalmente sulla falsariga dell’art. 60 c.p.a. – costituisce un potere immanente al sistema, riconosciuto al giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti.

10.8. Né è da attribuirsi eccessiva importanza o comunque valenza differenziale, come pretendono gli appellanti, all’espressione «in sede di decisione della domanda cautelare», usata dall’art. 60 c.p.a., rispetto a quella «in camera di consiglio», impiegata dall’art. 71-bis c.p.a., per trarne la conclusione che nella prima ipotesi sia necessaria, come prius logico-giuridico, la decisione sulla domanda cautelare, posto che la prima disposizione si riferisce e dà risalto, evidentemente, al momento in cui il Collegio è chiamato a decidere sulla domanda cautelare, senza fare riferimento al rito camerale, riferimento pleonastico poiché i giudizi cautelari, per disposizione generale (art. 55, comma 1, e art. 87, comma 2, lett. a), c.p.a.), si trattano in camera di consiglio, mentre la disposizione dell’art. 71-bis c.p.a. estende il rito camerale, in seguito ad istanza di prelievo, anche alla trattazione del merito, che normalmente si celebra in udienza pubblica, fermo restando che, anche nell’ipotesi di cui all’art. 71-bis c.p.a., l’erronea fissazione dell’udienza pubblica per la decisione in forma semplificata non costituirebbe motivo di nullità della decisione per il principio generale codificato dall’art. 87, comma 4, c.p.a.

10.9. Il principio dispositivo del processo e il potere di rinuncia alla domanda cautelare non possono dunque essere legittimamente invocati dalla parte per impedire al giudice l’esercizio del potere/dovere di definire il giudizio in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., laddove ve ne siano tutti i presupposti di legge, con inutile dilatazione dei tempi in un giudizio che, al contrario, potrebbe essere definito con una pronuncia immediata, contenente una sintetica motivazione.

10.10. E del resto, si deve qui osservare, la pure costante giurisprudenza di questo Consiglio afferma che è persino inammissibile la censura con la quale si denuncia la carenza dei presupposti per la definizione del giudizio di primo grado con sentenza in forma semplificata, all’esito della camera di consiglio fissata dal Tribunale per la trattazione dell’incidente cautelare, se le parti, espressamente informate dell’intenzione del Collegio giudicante di definire immediatamente nel merito la causa, nulla hanno obiettato (v., sul punto, Cons. St., sez. II, 3 giugno 2020, n. 3843), come nel caso presente, ove non risulta dal verbale di causa che il difensore degli appellanti si sia opposto alla definizione della causa in forma semplificata o abbia evidenziato la necessità di proporre motivi aggiunti.

10.11. Di qui, conclusivamente, la reiezione del primo motivo in esame, che non può trovare accoglimento nemmeno laddove invoca la rimessione della questione all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., non essendovene, ad avviso di questo Collegio, i presupposti nemmeno ai sensi del comma 2 di tale disposizione, se è vero che il precedente invocato dagli appellanti è risalente nel tempo e, come detto, isolato, mentre la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, per tutte le ragioni sistematiche sin qui sinteticamente esposte, è consolidata nell’affermare il principio secondo cui il rito di cui all’art. 60 c.p.a. non ha natura consensuale e che la rinuncia alla domanda cautelare, seppure legittima espressione del potere della parte di rinunciare a questa in base al c.d. principio dispositivo, non preclude al Collegio giudicante, se ne ve sono i presupposti di legge, il potere di decidere immediatamente la causa con sentenza in forma semplificata.

11. Con il secondo motivo (pp. 39-40 del ricorso), ancora, gli odierni appellanti deducono la violazione degli artt. 1, 2 e 60 c.p.a., dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 24 Cost. sotto diverso profilo, in quanto sostengono che l’Avvocato Mattia Menotti, nel corso dell’udienza camerale celebrata avanti al Tribunale, avrebbe dichiarato di voler proporre motivi aggiunti, circostanza, questa, preclusiva alla definizione della causa con sentenza in forma semplificata in base alla previsione, essa sì espressa e chiara, dell’art. 60 c.p.a.

11.1. Senonché, deducono ancora gli appellanti, la dichiarazione dell’Avvocato Mattia Menotti non risulterebbe dal verbale di udienza, che essi si riservano di impugnare eventualmente, ove occorra, anche con querela di falso, mentre in realtà la dichiarazione di voler proporre motivi aggiunti sarebbe stata fatta anche perché lo stesso Avvocato, su specifica domanda del relatore, aveva fatto presente che lo stato del procedimento di cui all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 era diverso per i vari ricorrenti, per quanto tutti sottoposti all’obbligo vaccinale, avendo «alcuni ricorrenti […] ricevuto solo la prima raccomandata, quella relativa all’invito a produrre la documentazione relativa all’effettuazione della vaccinazione, altri anche la seconda e la terza, rispettivamente l’invito formale a sottoporsi alla vaccinazione e l’accertamento dell’elusione dell’obbligo vaccinale» e, proprio per questo, l’Avvocato Menotti avrebbe dichiarato – ciò che, tuttavia, non sarebbe stato verbalizzato – di voler proporre motivi aggiunti contro gli atti adottati a completamento e a definizione della sequenza procedimentale delineata dal più volte citato art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, intesi ad acclarare l’accertamento dell’elusione dell’obbligo vaccinale da parte (di alcuni) dei ricorrenti.

11.2. Peraltro, deducono ancora gli appellanti (p. 40 del ricorso), l’intenzione di proporre motivi aggiunti di ricorso avverso i successivi o adottandi atti di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale avrebbe giustificato, altresì, la rinuncia alla domanda cautelare, che sarebbe stata riproposta in sede di ricorso per motivi aggiunti, stante il grave pregiudizio derivante dagli atti di accertamento di inadempimento di detto obbligo per gli appellanti, costretti alla sospensione dell’attività professionale e di ogni conseguente compenso.

11.3. Il motivo, tuttavia, è anche esso infondato perché nel verbale dell’udienza camerale dell’8 settembre 2021, tenutasi avanti al Tribunale, non vi è traccia di una siffatta volontà di proporre motivi aggiunti, anche a fronte del rilievo officioso, da parte del Collegio giudicante, di una circostanza – quella, cioè, relativa al diverso stato del procedimento per i diversi ricorrenti – che sarebbe stata ed è poi stata ritenuta, da quel Collegio, motivo di inammissibilità del ricorso cumulativo proposto in prime cure.

11.4. Dalla lettura di tale verbale che, come ogni atto pubblico, fa piena prova, fino a querela di falso (v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2005, n. 3125) – allo stato nemmeno promosso ma solo, e in forma eventuale, preannunciata dal difensore – delle dichiarazioni effettuate dalle parti, risulta che «il Collegio si riserva di decidere anche con sentenza in forma semplificata ed evidenzia come il Collegio ha preso atto che il 6 settembre, nonostante l’avviso della fissazione dell’odierna camera di consiglio fosse stato consegnato ancora il 23 luglio, la difesa di parte ricorrente ha depositato richiesta di rinvio della sospensiva al merito, dimostrando di non conoscere che in questo Tribunale, ogniqualvolta ne ricorrano i presupposti, si è soliti definire i ricorsi con sentenza breve ex art. 60 cpa» e, ancora, che «il Collegio preliminarmente eccepisce, ai sensi dell’art. 73, comma 3 c.p.a., la possibile inammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo, date le diverse posizioni soggettive dei ricorrenti e gli atti impugnati che provengono da Amministrazioni diverse» e, infine, che «l’avvocato Menotti insiste per il rinvio al merito e in subordine per la rinuncia alla sospensiva e, in replica all’eccezione del Collegio, sottolinea che le posizioni giuridiche sono le medesime e infatti le Aziende hanno emesso provvedimenti identici».

11.5. Non emerge da nessuna dichiarazione riportata nel verbale che l’Avvocato Mattia Menotti abbia richiesto un termine per la proposizione dei motivi aggiunti, non potendo ciò desumersi dal mero riferimento al rinvio al merito (non giustificato da alcuna motivazione), né che comunque si sia opposto alla definizione della causa in forma semplificata, preannunciata dal Collegio nonostante la rinuncia alla domanda cautelare formalizzata dagli appellanti il 6 settembre 2021, per qualche plausibile ragione, pur avendo espressamente egli controdedotto rispetto al rilievo officioso del Collegio – doverosamente sottoposto al contraddittorio tra le parti ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. – in ordine alla eventuale inammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo.

11.6. Non possono certo costituire prove della dichiarata e qui riaffermata volontà di proporre motivi aggiunti, non risultante dal verbale che solo farebbe piena prova di tale affermata volontà, né la missiva inviata dall’Avvocato Mattia Menotti all’Avvocato Daniele Granara il 13 ottobre 2021, prodotta sub doc. 2 nel presente giudizio d’appello tra i documenti depositati lo stesso 13 ottobre 2021, missiva nella quale l’Avvocato Mattia Menotti dichiara di avere significato «all’Ecc.mo Collegio che i ricorrenti, nelle more, avevano ricevuto ulteriore [sic] provvedimenti da parte delle Aziende Sanitarie Friulane, per i quali sarebbe stato comunque necessario disporre rinvio per la proposizione di atto di motivi aggiunti, come peraltro già significato nell’istanza depositata in giudizio in data 6 settembre 2021», né tantomeno la stessa istanza di rinvio al merito depositata il 6 settembre 2021, pure prodotta sub doc. 3 dagli appellanti nei citati documenti depositati il 13 ottobre 2021, posto che, a p. 7 di tale istanza, il difensore degli appellanti ha solo rappresentato che «i diritti e gli interessi fatti valere dai ricorrenti, possono, allo stato, essere adeguatamente tutelati mediante la sollecita fissazione dell’udienza di merito del ricorso, con riserva di agire nuovamente in sede cautelare, anche monocratica, ove le Aziende Sanitarie resistenti dovessero procedere nell’iter», delineato dal più volte citato art. 4 per l’accertamento dell’inadempimento all’obbligo vaccinale, instandosi affinché il Collegio di prime cure disponesse, senza la preventiva discussione, il rinvio dell’udienza di discussione dell’istanza cautelare all’udienza di merito, della quale si è chiesto «compatibilmente con le esigenze dell’Ufficio, la celere fissazione, anche per proporre motivi aggiunti avverso gli atti di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale che, medio tempore, dovessero essere adottati dalle Aziende Sanitarie resistenti».

11.7. Non la prima, si noti, perché è una mera dichiarazione di parte, che non trova alcuna conferma nemmeno implicita nel verbale dell’udienza camerale, e nemmeno la seconda, perché anche se l’istanza di rinvio al merito depositata il 6 settembre 2021 contiene o, meglio, preannuncia tale volontà di proporre motivi aggiunti in primo grado, peraltro in forma ipotetica e dubitativa perché nessun ulteriore atto di accertamento risultava essere stato ancora compiuto dalle Aziende Sanitarie friulane in quel momento, nondimeno la (confermata) fissazione dell’udienza camerale per la discussione dell’istanza cautelare, che non era stata oggetto di rinuncia nella predetta istanza (appunto, e solo, di abbinamento dell’istanza cautelare all’udienza di merito, salva la proposizione di eventuali istanze cautelari al sopravvenire di eventuali atti lesivi), e la volontà del Collegio, espressamente dichiarata a verbale, di procedere ad una sentenza in forma semplificata, peraltro su questioni – in parte – rilevate anche d’ufficio, imponeva alla parte rinunciante di dichiarare o, comunque, rinnovare espressamente la propria volontà di proporre motivi aggiunti, ciò che, peraltro, sarebbe stato difficilmente plausibile, in quel momento, per l’assenza di ulteriori atti da impugnare, poi sopravvenuti, come dimostrano i doc. 13 depositati il 13 ottobre 2021 dagli odierni appellanti.

11.8. Ne segue che non vi è stata alcuna violazione dell’art. 60 c.p.a., da parte del Collegio di prime cure, e d’altro canto la mancata proposizione, ad oggi, di una querela di falso del verbale, che ha efficacia pienprobante in ordine all’assenza di qualsiasi intenzione, dichiarata dal difensore dei ricorrenti, di proporre motivi aggiunti pur a fronte della prospettata possibilità, da parte del Collegio, di decidere la causa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., induce a ritenere che non vi siano ragioni per sospendere questo giudizio, ai sensi dell’art. 295 c.p.a., per una meramente lamentata, e nemmeno contestata nelle dovute forme giudiziali, falsità del più volte menzionato verbale.

11.9. Al riguardo basti qui solo ricordare che l’art. 77, comma 1, c.p.a. impone a chi deduce la falsità di un documento l’obbligo di provare che sia stata già proposta querela di falso o di domandare almeno la fissazione di un termine entro cui possa proporla innanzi al tribunale ordinario competente, ma nessuna delle due ipotesi ricorre nel caso di specie ove, come si è accennato, gli appellanti non hanno né proposto la querela né chiesto al Collegio un termine per proporla, riservandosi genericamente ogni iniziativa giudiziale a tutela dei loro diritti.

12. Di qui la reiezione anche del secondo motivo di appello a fronte della consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, per la quale tale dichiarazione di proporre motivi aggiunti deve essere esternata o comunque ribadita in udienza espressamente dalla parte interessata, come del resto prevede espressamente, e senza dare in questo caso adìto ad alcuna ambiguità interpretativa, l’art. 60 c.p.a., posto che la parte, se non si è opposta alla decisione in forma semplificata, non può poi dolersi in appello della violazione del diritto di difesa o della lesione al principio del contraddittorio.

13. Con il terzo motivo (pp. 41-45 del ricorso) gli odierni appellanti censurano la sentenza impugnata per avere posto a fondamento della propria decisione, con cui, come si è visto, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo, sia per ragioni di ordine soggettivo che oggettivo, una questione rilevata d’ufficio che, a loro dire, non sarebbe stata mai sollevata od eccepita da alcuna delle parti resistenti e, in particolare, nelle difese delle Aziende Sanitarie friulane, costituitesi in primo grado, come ha invece ritenuto la sentenza impugnata.

13.1. Gli appellanti insistono nel sostenere l’evidente differenza tra le eccezioni formulate dalle amministrazioni resistenti, relative alla pretesa diversità delle posizioni soggettive dei ricorrenti e alla provenienza degli atti impugnati da amministrazioni diverse, e la questione rilevata invece d’ufficio dal Collegio giudicante, concernente l’asserito diverso momento dell’iter accertativo previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021.

13.2. Nonostante la specifica richiesta dell’Avvocato Mattia Menotti, che aveva comunque richiesto un termine per controdedurre, come si legge nel verbale dell’udienza camerale alle ore 10.11 («l’udienza viene sospesa per permettere al Collegio di ritirarsi in camera di consiglio» e, ancora, «alle ore 10.13, alla riapertura dell’udienza, il Collegio informa che l’eccezione di inammissibilità, sollevata ex art. 73, corrisponde sostanzialmente a quanto era stato già eccepito dall’avvocato Barzazi nella memoria del 3 settembre, nonché anche dalle altre parti, incluso l’avvocato Cardinali in quella del primo settembre e quindi, parte ricorrente, aveva tutto il tempo per replicare e alla luce di un tanto il Collegio non ritiene di accogliere la richiesta di rinvio e ricorda che la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire l’ininfluenza della rinuncia all’istanza cautelare rispetto alla possibilità del giudice di fare sentenza breve»), il Collegio ha comunque deciso di trattenere la causa per la decisione in forma semplificata.

13.3. E ciò, deducono gli appellanti, in modo erroneo perché il Collegio giudicante avrebbe dovuto concedere un termine per la corretta instaurazione del contraddittorio sulla questione sollevata d’ufficio, autorizzando le parti al deposito di scritti difensivi in proposito.

13.4. Il motivo è inammissibile, per difetto di interesse, e comunque infondato anche nel merito.

13.5. Ammesso e non concesso, infatti, che la questione del non consentito cumulo oggettivo delle azioni in un unico giudizio, per il diverso stato del procedimento in corso per ciascuno degli interessati, sia stata rilevata dal Collegio ex officio per la prima volta nell’udienza camerale, come sostengono gli appellanti, la declaratoria di inammissibilità si fonda, come si è detto, anche su una ratio decidendi autonoma da tale questione, e in sé sufficiente a sorreggere la statuizione di inammissibilità e, cioè, l’inammissibilità del ricorso collettivo anche e anzitutto per le differenti posizioni soggettive dei ricorrenti, appartenenti a categorie professionali diverse, sicché il motivo è inammissibile per difetto di interesse e la statuizione del primo giudice, in parte qua rispettosa del contradddittorio, rimarrebbe intangibile in quanto sorretta da una autonoma, incontestata ratio decidendi, quella relativa all’inammissibilità del cumulo soggettivo sotteso al ricorso collettivo, da sola sufficiente a sorreggere la pronuncia di inammissibilità impugnata (v., per questo principio, Cons. St., sez. IV, 12 novembre 2019, n. 7771).

13.6. Ma, anche nel merito, la censura è infondata perché, anche ammesso, si ripete, che la questione sia stata rilevata per la prima volta dal Collegio solo in sede di udienza camerale, mentre in realtà essa era stata eccepita in primo grado dall’Azienda Sanitaria del Friuli Occidentale nella memoria depositata il 1° settembre 2021 (v., in particolare, pp. 7-8, sul difetto di interesse ad agire per alcuni dei ricorrenti stante la natura endoprocedimentale degli atti impugnati), il giudice l’ha indicata in udienza, dandone atto a verbale, come prescrive l’art. 73, comma 3, c.p.a., senza alcun obbligo di assegnare un termine alle parti, come a torto sostengono gli appellanti, poiché l’assegnazione del termine a difesa è obbligatoria, per il giudice, solo quando il rilievo officioso della questione sia successivo al passaggio in decisione della causa, in modo di dare modo alle parti di interloquire almeno per iscritto sulla questione, senza alcuna decisione “a sorpresa”, che eluderebbe o tradirebbe il contraddittorio, qui invece pienamente rispettato, perché, come visto, l’Avvocato Mattia Menotti ha potuto interloquire correttamente in sede orale sul rilievo della questione.

13.7. In tal senso è anche la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo cui costituisce violazione del diritto del contraddittorio processuale e del diritto di difesa, in relazione a quanto dispone l’art. 73, comma 3, c.p.a., l’essere stata posta a fondamento di una sentenza di primo grado una questione rilevata d’ufficio, senza la previa indicazione in udienza o l’assegnazione di un termine alle parti per controdedurre al riguardo (Cons. St., sez. V, 2 gennaio 2019, n. 11).

13.8. Ne deriva l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza anche di questo terzo motivo di appello.

14. Con il quarto motivo gli odierni appellanti (pp. 45-54 del ricorso) lamentano l’erroneità della sentenza impugnata nell’avere dichiarato inammissibile il ricorso per la sostanziale eterogeneità delle loro posizioni, sia sul piano soggettivo, essendo alcuni di essi medici, altri infermieri, altri operatori sanitari o dipendenti di strutture sanitarie private, sia sul piano oggettivo, in quanto gli atti impugnati da ciascuno di essi si troverebbero in una diversa fase procedimentale.

14.1. Essi sostengono, al contrario, che la pronuncia di inammissibilità sarebbe erronea perché ricorrerebbero nel caso di specie tutti i presupposti per la proposizione del ricorso collettivo e cumulativo e, dunque, del simultaneus processus, in quanto:

a) tutti i ricorrenti versano nella medesima situazione processuale, essendo tutti, indistintamente, destinatari dell’obbligo imposto dalla legge e, conseguentemente, dei provvedimenti amministrativi che attuano la previsione legislativa, impugnati con il ricorso di primo grado;

b) tutti i ricorrenti si trovano anche nella medesima situazione processuale, essendo gli atti rivolti nei loro confronti già dotati di una autonoma lesività, a prescindere dalla loro natura di invito a dichiarare la propria situazione vaccinale, di invito formale alla vaccinazione o di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale.

14.2. Gli appellanti osservano in tale prospettiva che tutti questi atti costituirebbero piena attuazione del disposto dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, che si strutturerebbe, a loro dire, alla stregua di una legge-provvedimento, in quanto impositivo di un obbligo ad una determinata platea di soggetti, senza lasciare alla pubblica amministrazione alcuna discrezionalità, ma gravandola di una attività in tutto e per tutto vincolata alla legge stessa, frutto di un bilanciamento di interessi operato in sede legislativa e non di un procedimento amministrativo.

14.3. La stessa ricezione dell’invito a vaccinarsi, posto a monte della sequenza procedimentale tratteggiata dall’art. 4, determina per i ricorrenti l’obbligo a sottoporsi alla vaccinazione, sicché detta ricezione inciderebbe, in peius, sulla loro sfera giuridica, che ovviamente prima della nuova previsione legislativa non conosceva un siffatto obbligo.

14.4. Sarebbe perciò irrilevante lo stato dell’iter procedimentale in cui si trova la situazione propria e specifica di ciascuno degli odierni appellanti, se tutti i provvedimenti attuativi della previsione legislativa, dal primo all’ultimo, sono in realtà dotati di autonoma e immediata lesività.

14.5. Sussisterebbero insomma tutti i presupposti del cumulo soggettivo e oggettivo, posto che i ricorrenti sono tutti destinatari del precetto legislativo, che reca l’obbligo vaccinale, e tutti i provvedimenti costituiscono espressione del medesimo potere, che solo relativamente all’aspetto organizzativo è rimesso alle Aziende Sanitarie, ma in realtà è esercitato a monte dal legislatore.

15. Il motivo, per le ragioni che seguono, è fondato.

15.1. La giurisprudenza amministrativa afferma, con orientamento unanime, il principio consolidato per il quale la proposizione del ricorso collettivo da parte di più soggetti rappresenta invero una deroga al principio generale secondo il quale ogni domanda, fondata su un interesse meritevole di tutela, deve essere proposta dal singolo titolare con separata azione, con la conseguenza che la proposizione contestuale di un’impugnativa da parte di più soggetti, sia essa rivolta contro uno stesso atto o contro più atti tra loro connessi, è soggetta al rispetto di stringenti requisiti, sia “di segno negativo” che “di segno positivo” (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 13 ottobre 2020, n. 6174, Cons. St., sez. VI, Cons. St., sez. IV, 16 maggio 2018, n. 2910, Cons. St., sez.V, 27 luglio 2017 n. 3725, Cons. St., sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2921).

15.2. Costituisce ius receptum la massima per cui nel processo amministrativo il ricorso giurisdizionale collettivo, presentato da una pluralità di soggetti con un unico atto, è ammissibile nel solo caso in cui sussistano, cumulativamente, i requisiti dell’identità di situazioni sostanziali e processuali – ossia, alla condizione che le domande giudiziali siano identiche nell’oggetto e gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e vengano censurati per gli stessi motivi – e l’assenza di un conflitto di interessi tra le parti.

15.3. Quanto all’ammissibilità del ricorso cumulativo contro più atti, poi, la regola altrettanto generale e tendenziale dell’impugnabilità, con un ricorso, di un solo provvedimento può essere derogata nelle sole ipotesi in cui la cognizione, nel medesimo giudizio, della legittimità di più provvedimenti sia imposta dall’esigenza di concentrare in un’unica delibazione l’apprezzamento della correttezza dell’azione amministrativa oggetto del gravame, quando questa viene censurata nella sua complessità funzionale e, soprattutto, per profili che ne inficiano in radice la regolarità e che interessano trasversalmente le diverse, ma connesse, sequenze di atti (Cons. St., sez. V, 22 gennaio 2020, n. 526).

15.4. È perciò necessario ai fini dell’ammissibilità del ricorso cumulativo avverso distinti provvedimenti, come pure ha ben ricordato la sentenza impugnata, che gli stessi siano riferibili al medesimo procedimento amministrativo, seppur inteso nella sua più ampia latitudine semantica, e che con il gravame vengano dedotti vizi che colpiscano, nelle medesima misura, i diversi atti impugnati, di modo che la cognizione delle censure dedotte a fondamento del ricorso interessi allo stesso modo il complesso dell’attività provvedimentale contestata dal ricorrente, e che non residui, quindi, alcun margine di differenza nell’apprezzamento della legittimità dei singoli provvedimenti congiuntamente gravati.

15.5. Segue da ciò che, a titolo esemplificativo, nelle ipotesi in cui siano impugnate le diverse aggiudicazioni di distinti lotti di una procedura selettiva originata da un unico bando, l’ammissibilità del ricorso cumulativo resta subordinata all’articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni.

15.6. In questa situazione, infatti, si verifica una identità di causa petendi e una articolazione del petitum che, tuttavia, risulta giustificata dalla riferibilità delle diverse domande di annullamento alle medesime ragioni fondanti la pretesa demolitoria che, a sua volta, ne legittima la trattazione congiunta (Cons. St., sez. V, 13 giugno 2016 n. 2543).

15.7. Ancor più di recente si è rilevato che il ricorso cumulativo è ammissibile a condizione che ricorrano congiuntamente i requisiti della identità di situazioni sostanziali e processuali, che le domande siano identiche nell’oggetto e che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e che identiche siano altresì le censure, di talché anche nel caso di una gara unitaria suddivisa in più lotti ciò potrà ammettersi solo laddove vi sia articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni (Cons. St., sez. V, 17 giugno 2019, n. 4096).

16. I principî rassegnati dalla costante giurisprudenza amministrativa – v. di recente, inter multas, anche Cons. St., sez. III, 18 maggio 2021, n. 3847 – sono in stretta dipendenza con quanto affermato dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 5 del 27 aprile 2015, in cui si è avuto modo di stabilire i rigidi confini in cui si può essere proposto un ricorso cumulativo e, cioè, che la regola generale del processo amministrativo risiede nel principio secondo cui il ricorso abbia ad oggetto un solo provvedimento e che i motivi siano correlati strettamente a quest’ultimo, con la sola eccezione di atti contestualmente impugnati e a condizione, in questo caso, che sussista una connessione procedimentale o funzionale da accertarsi in modo rigoroso onde evitare la confusione di controversie con conseguente aggravio dei tempi del processo o, addirittura, l’abuso dello strumento processuale per eludere le disposizioni fiscali in materia di contributo unificato.

17. La proposizione di un ricorso cumulativo o collettivo al di fuori dei casi in cui ciò è consentito rende il ricorso inammissibile, in quanto l’ammissibilità del ricorso è una condizione di decidibilità nel merito – lo si ricava a contrario dall’art. 35, comma 1, lett. b) e c), c.p.a. – secondo cui il ricorso deve essere dichiarato inammissibile o improcedibile, a seconda dei casi, quando sussistono o sopravvengono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito.

18. Tale evenienza rientra, dunque, nell’ambito delle condizioni dell’azione e, cioè, dei requisiti necessari affinché la domanda proposta al giudice possa essere decisa nel merito e non dei presupposti processuali, essendo il processo ritualmente instaurato e potendo proseguire fino alla decisione (per l’elencazione degli uni e degli altri v., comunque, Cons. St., Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5);

18.1. I limiti alla proposizione dei ricorsi collettivi, come del resto, analogamente, dei ricorsi cumulativi, per la costante giurisprudenza amministrativa si giustificano:

a) per l’esigenza che il processo amministrativo abbia per oggetto specifiche questioni riguardanti i singoli ricorrenti, mirando a statuizioni che specificamente determinino l’assetto dei rapporti tra essi e la pubblica amministrazione intimata in giudizio;

b) per l’esigenza di consentire l’effettività della difesa della amministrazione intimata, che nei termini di legge deve poter apprestare le proprie difese con riferimento ai singoli casi, e non alla complessiva legittimità degli atti – dal contenuto eterogeneo – di un procedimento amministrativo coinvolgente più soggetti;

c) per l’esigenza di organizzare i ruoli di udienza ed i carichi di lavoro dei singoli magistrati, difficilmente gestibili qualora debbano essere esaminati ricorsi riguardanti più ricorrenti che prospettano censure non omogenee avverso atti dal contenuto eterogeneo.

19. Se ora si tengono a mente e si applicano tutte queste coordinate interpretative in sintesi qui ricordate al caso di specie, risulta chiaro che, pur non condividendosi la tesi sostenuta dagli appellanti secondo cui l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 sarebbe una legge-provvedimento (di cui non ha invece i requisiti poiché, a tacer d’altro, non eleva a livello legislativo una disciplina già oggetto di un atto amministrativo: v., sulle leggi-provvedimento, Corte cost., 23 giugno 2020, n. 116), nel caso di specie sussistono tutti i presupposti per l’ammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo, in quanto:

a) sul piano soggettivo, i ricorrenti si trovano tutti nella medesima posizione, indistintamente, poiché essi sono tutti destinatari del precetto legislativo, nonostante la diversa categoria professionale alla quale eventualmente appartengano, che li obbliga alla vaccinazione contro il virus Sars-CoV-2;

b) sul piano oggettivo, i ricorrenti impugnano i diversi atti della sequenza procedimentale non per vizî propri e specifici di questi, che introdurrebbe in questa sede una inammissibile – essa sì – differenziazione delle censure dovuta alla singolarità di ogni singola vicenda concreta, ma perché espressivi, tutti, di un potere che essi contestano in radice sulla base di motivi identici e comuni a tutte le posizioni, siccome diretti, come in seguito si vedrà meglio esaminando queste censure nel merito, a fare emergere il contrasto dell’obbligo vaccinale, in radice, con molteplici disposizioni del diritto europeo, convenzionale ed interno.

19.1. È dunque irrilevante ai fini di questo specifico e certo particolare giudizio, avuto riguardo al petitum e alla causa petendi dell’azione proposta tesa unicamente a contestare in radice la legittimità dell’obbligo vaccinale introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, sia la specifica qualifica professionale degli appellanti, purché ovviamente rientrante – ma ciò è incontestato fra le parti – tra quelle assoggettate all’obbligo di legge, sia lo stato, iniziale, avanzato o conclusivo, del procedimento avviato dalle Aziende Sanitarie per l’accertamento dell’obbligo vaccinale e l’irrogazione delle eventuali sanzioni in caso di inadempimento.

19.2. Tutti gli atti della sequenza procedimentale introdotta e disciplinata dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, a fronte di un potere vincolato, per l’amministrazione, ai presupposti determinati dalla legge e vincolante per i destinatari, sono egualmente lesivi per la sfera giuridica dei ricorrenti che, si badi, non lamentano soltanto una violazione del loro diritto al lavoro e alla retribuzione (art. 36 Cost.), ma una violazione diretta, e radicale, anche del loro fondamentale diritto ad autodeterminarsi (artt. 2 e 32 Cost.), diritto che, evidentemente, è leso da tutto il procedimento inteso ad accertare l’inadempimento a tale obbligo, dal principio alla fine, in quanto ogni atto di questo procedimento, indipendentemente dalla maggiore e crescente incisività dei suoi effetti via via che il procedimento avanza, invade la sfera giuridica dei destinatari e l’ambito di autonomia decisionale e, per così dire, dell’habeas corpus che essi reclamano.

19.3. Se ben si riflette, ad essere contestata complessivamente contestata nel presente giudizio è l’intera azione amministrativa posta in essere dalle Aziende Sanitarie in attuazione del potere vincolato loro conferito dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 per l’accertamento dell’obbligo vaccinale, di cui si lamenta la sostanziale ingiustizia per il contrasto con superiori disposizioni e valori di rilievo europeo e nazionale, non i singoli effetti individuali né i singoli segmenti procedimentali di questa.

19.4. Un diverso ragionamento che inclinasse alla differenziazione interna a questo interesse, qui – seppure per l’eccezionalità della vicenda – unitario e inscindibile, condurrebbe, del resto, alla inutile frammentazione e, per dir così, alla ingiusta polverizzazione della domanda, comune e omogenea a tutti i ricorrenti.

19.5. Questa domanda ha certo ad oggetto una complessa e multiforme, ma anche compatta e coordinata e, in fin dei conti, unitaria azione amministrativa, che pure incide e inciderà, questo è vero, in misura diversa all’esito del procedimento e a seconda dei casi sulla sfera giuridica di molti soggetti.

19.6. Proprio per la sostanziale unitarietà, sul piano funzionale e in questa fase, l’esercizio del potere qui contestato, da parte delle Aziende appellate, può essere riguardato come unitario ed omogeneo, come unitarie ed omogenee a tutti i ricorrenti sono le censure che essi muovono agli atti espressivi di questo potere.

19.7. A fronte di questa vicenda, così correttamente intesa sul piano sostanziale e inquadrata in senso funzionale, al di là di meri schemi formali e atomistici, l’inammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo produrrebbe solo decine, se non centinaia, di cause e di processi pendenti avanti al Tribunale – come avanti a molti Tribunali amministrativi regionali in tutta Italia – chiamato, al pari di tanti Tribunali, a decidere cause-fotocopia, in quanto in esse ogni singolo ricorrente propone, e sarebbe costretto a proporre, le stesse identiche censure di legittimità in radice contro l’introduzione dell’obbligo vaccinale, censure che invece potrebbero essere delibate e sono state, in effetti, proposte in un unico giudizio, anche in attuazione, merita qui solo aggiungere, dei principi di concentrazione e di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).

20. La giurisprudenza amministrativa più recente viene orientandosi verso una concezione non formalistica delle condizioni per proporre il ricorso collettivo e cumulativo, visione che, pur continuando doverosamente a considerare la proposizione di questo ricorso, come detto, un’eccezione ai principî di cui si è detto, secondo cui ogni distinto provvedimento si impugna con un distinto ricorso, tiene presente e pone in primario risalto, nel valutare l’ammissibilità del ricorso collettivo e cumulativo, il bene della vita, oggetto del ricorso, e in rapporto a questo l’interesse azionato dai ricorrenti che, nel caso di specie, è la contestazione della legittimità, in sé, dell’obbligo vaccinale, con diverse questioni di compatibilità con il diritto eurounitario e di costituzionalità.

20.1. I distinti atti e provvedimenti impugnati nel presente giudizio si riferiscono tutti a procedimenti, paralleli ma collegati, intesi a far rispettare, nella unitarietà dell’azione amministrativa coordinata e finalizzata in tale direzione doverosa per l’amministrazione, l’obbligo vaccinale da parte delle Aziende Sanitarie; i profili di illegittimità dedotti sono i medesimi per tutti i ricorrenti, indistintamente; non vi è alcun conflitto di interesse, nemmeno adombrato dalle amministrazioni resistenti, nelle posizioni dei singoli ricorrenti.

20.2. Sono così rispettate sostanzialmente tutte le condizioni (Cons. St., sez. III, 1° giugno 2020, n. 3449) al ricorrere delle quali è possibile ammettere, e doveva essere ammesso dal primo giudice, il ricorso collettivo e cumulativo, la cui trattazione in un simultaneus processus, avuto riguardo alla specificità e, si aggiunga, la delicatezza del presente giudizio, non solo è legittima, ma più che mai opportuna, senza inutile proliferazione di identici innumerevoli giudizi, identici, che ingolferebbero soltanto i ruoli dei diversi Tribunali amministrativi in tutta Italia, in assenza di specifiche contestazioni rivolte contro il singolo atto per vizi proprî – e non derivati – dell’atto stesso.

20.3. Ne segue che il quarto motivo di appello in esame deve essere accolto, con la conseguente ammissibilità, erroneamente negata dalla sentenza impugnata, del ricorso proposto dagli odierni appellanti.

21. Questi hanno riproposto – pp. 61-80 del ricorso, in particolare – tutte le dieci censure articolate nel ricorso di primo grado che, quindi, devono ora essere esaminate nel merito da parte di questo Consiglio, in sede di appello, in seguito alla riforma della sentenza che ha erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, secondo le regole del codice del processo amministrativo e i principî sull’effetto devolutivo dell’appello sanciti dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (v., ad esempio, Cons. St., Ad. plen., 28 settembre 2018, n. 15).

21.1. Diviene così improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse il quinto motivo di appello (pp. 54-56 del ricorso), che contesta la statuizione relativa alla spese del giudizio al cui pagamento i ricorrenti sono stati condannati in solido a favore delle Aziende costituitesi, in quanto la riforma della sentenza impugnata, con la necessità di esaminare nel merito le censure sollevate in primo grado, rende necessario rivedere integralmente il regolamento di dette spese all’esito del giudizio, una volta valutata la soccombenza sostanziale e apprezzate, avuto riguardo ai motivi del decidere, le eventuali ragioni per disporre la compensazione delle spese inerenti al doppio grado del giudizio.

22. È appena il caso di ricordare, prima di esaminare nel merito queste censure, che il Collegio, anche in questa sede di pronuncia in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., è pienamente investito dell’intera cognizione delle censure sollevate in primo grado, in questa sede – come detto – riproposte dagli odierni appellanti, non essendo limitata la sua cognizione, per il pieno effetto devolutivo dell’appello, alle sole questioni relative agli eventuali errores in procedendo della sentenza impugnata, che per errore abbia pronunciato l’inammissibilità dell’originario ricorso, ma investendo pienamente anche il merito delle censure.

22.1. A questa piena cognizione, pur relativa – nel presente giudizio – a questioni molto delicate e complesse, non osta appunto la forma della decisione in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. che, come si è avuto modo di chiarire, non costituisce nel vigente ordinamento processuale un modulo sommario o affrettato di decisione, ma uno strumento generale di risoluzione della controversia, un modulo decisorio di estesa applicazione vincolato dal codice di rito a determinati presupposti, che si incentra sulla essenzialità della motivazione, definita sintetica.

22.2. Ed è qui appena il caso di ricordare, per l’importanza del principio, che l’essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito, non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola, in quanto la sinteticità è «un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra due grandezze, la mole, da un lato, delle questioni da esaminare e, dall’altro, la consistenza dell’atto – ricorso, memoria o, infine, sentenza – chiamato ad esaminarle» (Cons. St., sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900) ed è, si deve qui aggiungere, sul piano processuale un bene-mezzo, un valore strumentale rispetto al fine ultimo, e al valore superiore, della chiarezza e della intelligibilità della decisione nel suo percorso motivazionale.

23. Tutto ciò premesso, nel riproporre in questo grado di appello le censure già articolate avanti al Tribunale, gli odierni appellanti fanno precedere ad esse un’ampia premessa di ordine tecnico-scientifico (pp. 57-61 del ricorso) nella quale sostengono che il breve tempo di cui si sono potute giovare le case farmaceutiche per gli studi, la predisposizione e la sperimentazione delle soluzioni vaccinali per prevenire il virus Sars-CoV-2 non ha consentito di raggiungere quelle condizioni di sicurezza e di efficacia dei vaccini, che devono precedere e assistere ogni prestazione sanitaria imposta ai sensi dell’art. 32, comma secondo, Cost.

23.1. Le stesse case farmaceutiche produttrici dei vaccini, essi deducono, riconoscono infatti, da un lato, che non sono ancora note le potenzialità dei vaccini, quanto alla capacità di impedire la trasmissione del virus, la capacità di impedire la contrazione della malattia e la durata dell’efficacia preventiva, mentre, dall’altro lato, esse stesse ammettono che non sono ancora note le conseguenze, soprattutto a lungo termine, derivanti dalla somministrazione dei vaccini, come emerge dagli ampi stralci delle note informative, riportate nel ricorso, che, sostengono ancora gli appellanti, i pazienti sarebbero costretti ad accettare mediante la sottoscrizione del modulo di consenso informato.

23.2. Anche le Autorità preposte alla valutazione e all’approvazione dei farmaci, in sede europea e nazionale, al pari dei produttori dei vaccini, non sarebbero ancora in grado di stabilire quali siano l’effettiva efficacia e sicurezza dei vaccini medesimi.

23.3. Ciononostante, il legislatore avrebbe inteso prevedere un singolare obbligo vaccinale in danno degli operatori sanitari, costretti a sottoporsi ad uno dei quattro vaccini autorizzati in Italia senza avere la certezza della loro efficacia e sicurezza.

23.4. L’assoluta carenza di certezza in ordine alle garanzie di efficacia e sicurezza delle soluzioni vaccinali sarebbe dimostrata dal fatto che la loro immissione in commercio è stata autorizzata dall’EMA mediante il rilascio di autorizzazioni condizionate che, adottate in esito a procedere ben più snelle rispetto a quelle ordinarie, impongono di continuare il monitoraggio e gli studi in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei vaccini medesimi e necessitano di essere rinnovate periodicamente, proprio in ragione dei risultati che emergeranno dagli studi in fieri.

24. La tesi degli appellanti si fonda su due presupposti, il primo di ordine scientifico e il secondo di ordine giuridico, entrambi fallaci, che non possono essere condivisi dal Collegio.

25. Passando all’esame del primo, relativo alla presunta mancanza di efficacia o sicurezza nei vaccini, occorre ricordare qui in sintesi, stante la complessità del quadro regolatorio che disciplina a livello accentrato la materia, che la commercializzazione del vaccino, secondo la vigente normativa dell’Unione europea, passa attraverso una raccomandazione da parte della competente Agenzia europea per i medicinali (EMA), che valuta la sicurezza, l’efficacia e la qualità del vaccino, sulla cui base la Commissione europea può procedere ad autorizzare la commercializzazione nel mercato dell’Unione, dopo avere consultato gli Stati membri che debbono esprimersi favorevolmente a maggioranza qualificata.

25.1. La normativa dell’Unione – in particolare l’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione – prevede uno strumento normativo specifico per consentire la rapida messa a disposizione di medicinali, da utilizzare in situazioni di emergenza, poiché in tali situazioni la procedura di “immissione in commercio condizionata” (CMA, Conditional marketing authorisation) è specificamente concepita al fine di consentire una autorizzazione il più rapidamente possibile, non appena siano disponibili dati sufficienti, pur fornendo un solido quadro per la sicurezza, le garanzie e i controlli post-autorizzazione.

25.2. In questa procedura, occorre qui aggiungere compiendo uno sforzo di sintesi, chiarificazione e semplificazione da parte di questo Collegio attesa la natura densamente tecnica della materia, si ha una parziale sovrapposizione delle fasi di sperimentazione clinica, che nella procedura ordinaria sono sequenziali, che prende il nome di “partial overlap” e che prevede l’avvio della fase successiva a poca distanza dall’avvio della fase precedente.

25.3. La leggera sfasatura nell’avvio delle fasi di sperimentazione riduce i rischi connessi ad una sovrapposizione delle fasi e accelera i normali tempi di svolgimento delle sperimentazioni, anche se fornisce dati meno completi rispetto alla procedura ordinaria di autorizzazione.

25.4. E tuttavia, si badi, l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata non è una scorciatoia incerta e pericolosa escogitata ad hoc per fronteggiare irrazionalmente una emergenza sanitaria come quella attuale, ma una procedura di carattere generale, idonea ad essere applicata – e concretamente applicata negli anni passati, anche recenti, soprattutto in campo oncologico – anche al di fuori della situazione pandemica, a fronte di necessità contingenti (non a caso la lotta contro i tumori ne è il terreno elettivo), e costituisce una sottocategoria del procedimento inteso ad autorizzare l’immissione in commercio ordinaria perché viene rilasciata sulla base di dati che sono, sì, meno completi rispetto a quelli ordinari – cfr. 4° Considerando del Reg. CE 507/2006 – ma è appunto presidiata da particolari garanzie e condizionata a specifici obblighi in capo al richiedente.

25.5. Una volta adempiuti gli obblighi prescritti e forniti i dati mancanti, l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata viene infatti convertita – ciò che diverse volte si è verificato in passato – in un’autorizzazione non condizionata.

25.6. Il bilanciamento, rispetto alla maggior completezza dei dati ottenuti nella procedura ordinaria di autorizzazione, è imposto e assicurato, nella previsione dell’art. 4 del Reg. (CE) n. 507/2006, da quattro rigorosi requisiti:

a) che il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulti positivo;

b) che sia probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi;

c) che il medicinale risponda a specifiche esigenze mediche insoddisfatte;

d) che i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari.

26. Per quanto riguarda i vaccini contro la diffusione del virus Sars-CoV-2, l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata segue, a giudizio della Commissione, un quadro solido e controllato e fornisce valide garanzie di un elevato livello di protezione dei cittadini nel corso della campagna vaccinale, costituendo una componente essenziale della strategia dell’Unione in materia di vaccini, garanzie che distinguono nettamente questa ipotesi dalla c.d. “autorizzazione all’uso d’emergenza”, istituto diverso che, in alcuni Paesi (come gli Stati Uniti e l’Inghilterra) non autorizza un vaccino, ma l’uso temporaneo, per ragioni di emergenza, di un vaccino non autorizzato.

26.1. Tutti gli Stati membri dell’Unione hanno formalmente sottoscritto la strategia sui vaccini proposta dalla Commissione e hanno convenuto sulla necessità di applicare la procedura di autorizzazione all’immissione in commercio condizionata attraverso l’EMA per i vaccini contro il Sars-CoV-2.

26.2. I quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati dunque regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata (c.d. CMA, Conditional marketing authorisation), di cui si è accennato in sintesi, disciplinata dall’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione.

26.3. Si tratta di un’autorizzazione che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi, come si è detto, «a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari».

26.4. Il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide sui profili di sicurezza del farmaco (nel sito dell’ISS, che richiama a sua volta quello dell’EMA, si ricorda «una autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala») né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico, ma impone unicamente al titolare di «completare gli studi in corso o a condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è favorevole».

26.5. La CMA è, peraltro, uno strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica, come attesta il report disponibile sul sito istituzionale dell’EMA, relativo ai primi dieci anni di utilizzo della procedura, se si tiene presente che nel periodo di riferimento analizzato dal report – tra il 2006 e il 2016 – sono state concesse ben 30 autorizzazioni in forma condizionata, specialmente in ambito oncologico, nessuna delle quali successivamente ritirata per motivi di sicurezza, in quanto undici sono state convertite in autorizzazioni ordinarie, due ritirate per ragioni commerciali e le restanti diciassette sono rimaste ancora ad oggi autorizzazioni condizionate, essendo in corso il completamento dei dati.

27. Alla luce di queste necessarie, per quanto essenziali e sintetiche, premesse di carattere regolatorio-tecnico, che non concernono solo la normativa europea ma, per la intrinseca natura tecnica di questa, le stesse procedure di sperimentazione ammesse dalla comunità scientifica in base ai canoni fondamentali della c.d. medicina dell’evidenza (c.d. evidence based), soggette anche esse al controllo del giudice nazionale od europeo, a seconda dell’atto impugnato, nell’esercizio del sindacato sulla c.d. discrezionalità tecnica, si deve recisamente confutare e respingere l’affermazione secondo cui i vaccini contro il Sars-Cov-2 siano “sperimentali” – v., ad esempio, p. 80 del ricorso – come anche quella che mette radicalmente in dubbio la loro efficacia e/o la loro sicurezza, in quanto approvati senza un rigoroso processo di valutazione scientifica e di sperimentazione clinica che ne abbia preceduto l’ammissione.

27.1. Così non è, per tutte le ragioni di ordine scientifico esposte, perché la CMA è una procedura in cui la maggiore rapidità e la parziale sovrapposizione delle fasi di sperimentazione – nel gergo medico: fast track/partial overlap – consentono di acquisire dati sufficientemente attendibili, secondo i parametri proprî della medicina dell’evidenza, in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci, come dimostra proprio l’ampio ricorso a questa stessa procedura – ben 30 volte – nel decennio tra il 2006 e il 2016 con apprezzabili risultati, poi confermati, e l’autorizzazione condizionata si colloca pur sempre a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’ordinaria immissione in commercio di qualsiasi farmaco, senza che per questo ne vengano sminuite la completezza e la qualità dell’iter di ricerca e di sperimentazione.

27.2. La circostanza che i dati acquisiti nella fase di sperimentazione siano parziali e provvisori, come taluno ha rilevato anche sulla base delle condizioni imposte dal Reg. CE 507/2006 della Commissione, in quanto suscettibili di revisione sulla base delle evidenze empiriche via via raccolte – sicché l’autorizzazione è, appunto, condizionata all’acquisizione di più completi dati acquisiti successivamente all’autorizzazione stessa che, non a caso, ha durata solo annuale – nulla toglie al rigore scientifico e all’attendibilità delle sperimentazioni che hanno preceduto l’autorizzazione, pur naturalmente bisognose, poi, di conferma mediante i cc.dd. «comprehensive data post-authorisation».

27.3. L’AIFA, nello studio pubblicato sul proprio sito, ha chiarito che «gli studi che hanno portato alla messa a punto dei vaccini COVID-19 non hanno saltato nessuna delle fasi di verifica dell’efficacia e della sicurezza previste per lo sviluppo di un medicinale, anzi, questi studi hanno visto la partecipazione di un numero assai elevato di volontari, circa dieci volte superiore a quello di studi analoghi a quello di studi analoghi per lo sviluppo di altri vaccini».

27.4. Questi studi si sono avvalsi, peraltro, anche delle ricerche già condotte in passato sulla tecnologia a RNA messaggero (mRNA) e degli studi sui coronavirus umani correlati al Sars-CoV-2, come per esempio quelli che hanno provocato SARS (Severe acute respiratory syndrome) e MERS (Middle East respiratory syndrome)

27.5. Sul piano dell’efficacia, per quanto concerne i vaccini contro il Sars-Cov-2, avuto proprio riguardo ai dati aggiornati e più completi successivi alle autorizzazioni condizionate di essi, si deve osservare, secondo quanto deducono anche le Aziende Sanitarie appellate nelle loro memorie, come emergano significative evidenze dall’ultimo bollettino sull’andamento dell’epidemia emesso dall’ISS, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale, istituzionalmente investito – tra le altre – delle funzioni di ricerca e controllo in materia di salute pubblica (art. 1 del relativo Statuto, approvato con D.M. del 24 ottobre 2014).

27.6. Il documento cui si fa riferimento, attraverso l’istruttoria informale eseguita da questo Collegio, è liberamente consultabile online, in quanto pubblico, presso il sito internet dell’ente e considera i dati relativi a tutti i casi di infezione da virus SARS-CoV-2 registrati nel periodo 4 aprile – 31 agosto 2021, confermati tramite positività ai test molecolari e antigenici.

27.7. Esso conclude riconoscendo che «l’efficacia preventiva è dell’89% nei confronti di una diagnosi di COVID-19 a circa sette mesi dopo la seconda dose» e che «per quanto riguarda i ricoveri in ospedale e i ricoveri in TI successivi a diagnosi di COVID-19 si è osservata una efficacia preventiva del 96% e nei confronti dei decessi del 99% a circa sei mesi dalla seconda dose».

27.8. Questo Collegio, con gli ovvi limiti del sindacato che spetta al giudice amministrativo sugli atti adottati dalle autorità e dagli enti sanitari nazionali nell’esercizio della loro discrezionalità tecnica (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 10 dicembre 2020, ord. n. 7097 nonché, più di recente, Cons. St., sez. III, 9 luglio 2021, n. 5212), deve perciò rilevare che, sulla base non solo degli studi – trials – condotti in fase di sperimentazione, ma anche dell’evidenza dei dati ormai imponenti acquisiti successivamente all’avvio della campagna vaccinale ed oggetto di costante aggiornamento e studio in sede di monitoraggio, che – contrariamente a quanto sostengono gli appellanti – la profilassi vaccinale è efficace nell’evitare non solo la malattia, per lo più totalmente o, comunque, nelle sue forme più gravi, ma anche il contagio.

27.9. Sempre nei limiti del sindacato qui consentito sull’attendibilità razionale degli studi e dei dati acquisiti si deve solo qui aggiungere, quanto al dubbio sollevato dagli appellanti in ordine alla capacità di evitare i contagi e, quindi, in termine di prevenzione della trasmissibilità della malattia da parte dei soggetti vaccinati, anche nella più recente ed estremamente contagiosa forma della variante “delta”, che la posizione della comunità scientifica internazionale, alla luce delle ricerche più recenti, è nel senso che la fase di eliminazione virale nasofaringea, nel gruppo dei vaccinati, è tanto breve da apparire quasi impercettibile, con sostanziale esclusione di qualsivoglia patogenicità nei vaccinati.

28. In punto di sicurezza, quanto all’inesistenza, per chi è sottoposto al trattamento, di conseguenze negative le quali vadano oltre la normalità e la tollerabilità, si deve muovere anzitutto dal presupposto scientifico di ordine generale secondo cui il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato del tutto esente da rischi.

28.1. Il giudizio in questione deve dunque vertere, propriamente, sui profili di sicurezza dei quattro vaccini contro il Sars-CoV-2 disponibili sul mercato e, correttamente ed esclusivamente, sul favorevole rapporto costi/benefici della loro somministrazione su larga scala.

28.2. Il monitoraggio costante di questi aspetti compete al sistema di farmacovigilanza, cui è preposta l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), che raccoglie e valuta tutte le segnalazioni di eventi avversi.

28.3. Quanto, in particolare, alla farmacovigilanza sui vaccini contro il Sars-CoV-2, l’ultimo rapporto ad oggi disponibile (il nono, pubblicato il 12 ottobre 2021 sul sito dell’AIFA, la quale ha preannunciato che l’aggiornamento del monitoraggio, di qui in avanti, sarà trimestrale), espone i dati aggiornati al 26 settembre 2021 e ricavati dalla somministrazione di 84.010.605 dosi di vaccino in Italia.

28.4. Gli eventi avversi – e, cioè, gli episodi sfavorevoli verificatisi dopo la somministrazione, a prescindere dalla riconducibilità alla stessa dal punto di vista causale – sono stati 101.110, con un tasso di segnalazione – misura del rapporto fra il numero di segnalazioni inserite nel sistema di farmacovigilanza e numero di dosi somministrate – pari a 120 ogni 100.000 dosi.

28.5. Di queste, solo il 14,4% ha avuto riguardo ad eventi gravi, con la precisazione che ricadono in tale categoria, definita in base a criteri standard, conseguenze talvolta non coincidenti con la reale gravità clinica dell’evento, mentre l’85,4% si riferisce a eventi non gravi, come dolore in sede di iniezione, febbre, astenia/stanchezza, dolori muscolari.

28.6. Di tutte le segnalazioni gravi (17 ogni 100.000 dosi somministrate) solo il 43% di quelle esaminate finora è risultata correlabile alla vaccinazione.

28.7. Si tratta di dati comparabili a quelli emersi in esito all’attività di farmacovigilanza condotta sugli altri vaccini esistenti (alcuni dei quali già oggetto di somministrazione obbligatoria ai sensi del d.l. n. 73 del 2017), che sono parimenti consultabili sul sito dell’AIFA, nello specifico rapporto pubblicato.

29. Quanto sin qui si è esposto, in estrema sintesi, conferma che le terapie vaccinali regolarmente approvate, nei termini di cui si è detto, e in uso attualmente in Italia, come in Europa e nel resto del mondo (ove, tra l’altro, alcuni vaccini sono stati approvati in via definitiva: negli Stati Uniti la FDA, la Food and drug administration, istituzione che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici, ad esempio, ha approvato in via definitiva il 23 agosto 2021 il vaccino Comirnaty per le persone di età maggiore a 16), presentano per i soggetti ai quali sono inoculate un rapporto rischio/beneficio favorevole che, allo stato delle conoscenze scientifiche, delle sperimentazioni eseguite, degli studi clinici e dei dati disponibili, non è dissimile da quella dei vaccini tradizionali, alcuni delle quali rese obbligatorie, come noto, dal d.l. n. 73 del 2017, sulla cui legittimità costituzionale, come si dirà tra breve, si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018.

29.1. Le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile e i danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi gravi e correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica.

29.2. I dati relativi alla drastica riduzione di contagi, ricoveri e decessi, ad oggi disponibili e resi di pubblico dominio dalle istituzioni e dagli enti sanitari, dimostrano sul piano epidemiologico che la vaccinazione – unitamente alle altre misure di contenimento – si sta dimostrando efficace, su larga scala, nel contenere il contagio e nel ridurre i decessi o i sintomi gravi.

30. Anche l’altro presupposto da cui muovono gli appellanti, quello di ordine schiettamente giuridico, è privo di fondamento.

30.1. Nell’odierna situazione emergenziale, almeno fino al 31 dicembre 2021, le misure per il contenimento del contagio richiedono alle autorità sanitarie un intervento pronto e risoluto, ispirato alla c.d. amministrazione precauzionale, la quale deve necessariamente misurarsi con quello che, in dottrina, è stato definito il c.d. ignoto irriducibile, in quanto ad oggi non si dispone di tutti i dati completi per valutare compiutamente il rapporto rischio/beneficio nel lungo periodo, per ovvi motivi, e questa componente, appunto, di ignoto irriducibile, pur con il massimo – ed encomiabile – sforzo profuso dalla ricerca scientifica, reca con sé l’impossibilità di ricondurre una certa situazione fattuale, interamente, entro una logica di previsione ex ante fondata su elementi di incontrovertibile certezza.

30.2. Per i tempi necessari alla sperimentazione, di fronte all’esigenza immediata di intervento, la scienza ad oggi non è ovviamente in grado di fornire certezze assolute circa la totale assenza di rischi anche a lungo termine connessa all’assunzione dei vaccini, ma il legislatore, in una situazione pandemica che vede il diffondersi di un virus a trasmissione aerea, altamente contagioso e spesso letale per i soggetti più vulnerabili per via di malattie pregresse – si pensi ai pazienti cardiopatici, diabetici od oncologici – e dell’età avanzata, ha il dovere di promuovere e, se necessario, imporre la somministrazione dell’unica terapia – quella profilattica – in grado di prevenire la malattia o, quantomeno, di scongiurarne i sintomi più gravi e di arrestare o limitarne fortemente il contagio.

30.3. L’autorizzazione condizionata dei quattro vaccini, come si è detto, fornisce sufficienti garanzie circa la loro efficacia e sicurezza, sulla base degli studi eseguiti e delle conoscenze acquisite, e si struttura sul modello della c.d. amministrazione precauzionale riflessiva, in quanto caratterizzata dalla flessibilità dell’azione pubblica e dalla capacità di incorporare la mutevole contingenza, nell’ottica di una continua ridefinizione degli obiettivi e di un continuo monitoraggio.

30.4. La riserva di scienza, alla quale il decisore pubblico sia livello normativo che amministrativo deve fare necessario riferimento nell’adottare le misure sanitarie atte a fronteggiare l’emergenza epidemiologica, lascia a questo, per l’inevitabile margine di incertezza che contraddistingue anche il sapere scientifico nella costruzione di verità acquisibili solo nel tempo, a costo di severi studi e di rigorose sperimentazioni e sottoposte al criterio di verificazione-falsificazione, un innegabile spazio di discrezionalità nel bilanciamento tra i valori in gioco, la libera autodeterminazione del singolo, da un lato, e la necessità di preservare la salute pubblica e con essa la salute dei soggetti più vulnerabili, dall’altro, una discrezionalità che deve essere senza dubbio usata in modo ragionevole e proporzionato e, in quanto tale, soggetta nel nostro ordinamento a livello normativo al sindacato di legittimità del giudice delle leggi e a livello amministrativo a quello del giudice amministrativo.

30.5. E tuttavia l’argomento degli appellanti, secondo cui, in assenza di una certezza assoluta offerta dalla scienza circa la sicurezza dei vaccini anche nel lungo periodo il legislatore dovrebbe lasciare sempre e comunque l’individuo libero di scegliere se accettare o meno il trattamento sanitario e, dunque, di ammalarsi e contagiare gli altri, prova troppo ed è errato, già sul piano epistemologico, perché, così ragionando, l’utilizzo obbligato di una nuova terapia, in una fase emergenziale che vede il crescere esponenziale di contagi e morti, dovrebbe attendere irragionevolmente un tempo lunghissimo e, potenzialmente, indefinito per tutte le possibili sperimentazioni cliniche necessarie a scongiurare il rischio, anche remoto (o immaginabile e persino immaginario) di tutti i possibili eventi avversi, tempo nel quale, intanto, la malattia continuerebbe incontrastata a mietere vittime senza alcuna possibilità di una cura che, seppure sulla base di dati non ancora completi, ha mostrato molti più benefici che rischi per la collettività.

30.6. Sarebbe, tuttavia, questa una conseguenza paradossale che, nel rivendicare la sicurezza ad ogni costo, e con ogni mezzo, della cura imposta dal legislatore a beneficio di tutti, ne negherebbe però in radice ogni possibilità, paralizzando l’intervento benefico, per non dire salvifico, della legge o dell’amministrazione sanitaria contro il contagio di moltissime persone, perché, come ha osservato la Corte costituzionale – in riferimento alla normativa che introduceva la vaccinazione obbligatoria contro l’epatite virale di tipo B, impugnata anche per la omessa previsione di accertamenti preventivi idonei quantomeno a ridurre il rischio, pur percentualmente modesto, di lesioni all’integrità psicofisica per le complicanze del vaccino – «la prescrizione indeterminata e generalizzata di tutti gli accertamenti preventivi possibili, per tutte le complicanze ipotizzabili e nei confronti di tutte le persone da assoggettare a tutte le vaccinazioni oggi obbligatorie» renderebbe «di fatto impossibile o estremamente complicata e difficoltosa la concreta realizzabilità dei corrispondenti trattamenti sanitari» (Corte cost., 23 giugno 1994, n. 258).

30.7. In fase emergenziale, di fronte al bisogno pressante, drammatico, indifferibile di tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all’ordinario e, per così dire, controintuitivo, perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l’utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata, che però ha seguito – va ribadito – tutte le quattro fasi della sperimentazione richieste dalla procedura di autorizzazione), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco.

30.8. E ciò non perché, come afferma chi enfatizza e assolutizza l’affermazione di un giusto valore concepito però come astratto bene, la persona receda a mezzo rispetto ad un fine o, peggio, ad oggetto di sperimentazione, in contrasto con il fondamentale principio personalista, a fondamento della nostra Costituzione, che vede nella persona sempre un fine e un valore in sé, quale soggetto e giammai oggetto di cura, ma perché si tutelano in questo modo tutti e ciascuno, anzitutto e soprattutto le più vulnerabili ed esposte al rischio di malattia grave e di morte, da un concreto male, nella sua spaventosa e collettiva dinamica di contagio diffuso e letale, in nome dell’altrettanto fondamentale principio di solidarietà, che pure sta a fondamento della nostra Costituzione (art. 2), la quale riconosce libertà, ma nel contempo richiede responsabilità all’individuo.

30.9. E in un ordinamento democratico la legge non è mai diritto dei meno vulnerabili o degli invulnerabili, o di quanti si affermino tali e, dunque, intangibili anche in nome delle più alte idealità etiche o di visioni filosofiche e religiose, ma tutela dei più vulnerabili, dovendosi rammentare che la solidarietà è «la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione» (Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75).

31. Il margine di incertezza dovuto al c.d. ignoto irriducibile che la legge deve fronteggiare in un’emergenza pandemica tanto grave, per tutte le ragioni esposte, non può dunque giustificare, né sul piano scientifico né sul piano giuridico, il fenomeno della esitazione vaccinale, ben noto anche all’Organizzazione Mondiale della Sanità, proprio nei medici e nel personale sanitario.

31.1. La vaccinazione obbligatoria selettiva introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 per il personale medico e, più in generale, di interesse sanitario risponde ad una chiara finalità di tutela non solo – e anzitutto – di questo personale sui luoghi di lavoro e, dunque, a beneficio della persona, secondo il già richiamato principio personalista, ma a tutela degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, secondo il pure richiamato principio di solidarietà, che anima anch’esso la Costituzione, e più in particolare delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza.

31.2. La ratio di questa specifica previsione si rinviene non solo nelle premesse del d.l. n. 44 del 2021, laddove si evidenzia «la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per garantire in maniera omogenea sul territorio nazionale le attività dirette al contenimento dell’epidemia e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica, con riferimento soprattutto alle categorie più fragili, anche alla luce dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche acquisite per fronteggiare l’epidemia da COVID-19 e degli impegni assunti, anche in sede internazionale, in termini di profilassi e di copertura vaccinale», ma nello stesso testo normativo dell’art. 4, quando nel comma 4 richiama espressamente il «fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza» o precisa ancora, nel comma 6, che «l’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2».

31.3. La previsione interseca non solo il più generale e grave problema della sicurezza nei luoghi di lavoro a tutela dei lavoratori, disciplinata dal d. lgs. n. 81 del 2008, ma anche – e ciò rileva particolarmente in questo giudizio – il principio di sicurezza delle cure, enunciato tra l’altro dalla l. n. 24 del 2017 (c.d. legge Gelli-Bianco), laddove, nell’art. 1, comma 1, afferma solennemente il principio secondo cui la sicurezza delle cure è «parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività».

31.4. La sicurezza delle cure, precisa il comma 2, si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative.

31.5. Aggiunge il comma 3 del richiamato art. 1 che le attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, è tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale.

31.6. Ora proprio in ragione di questo generale principio, che precede l’attuale emergenza epidemiologica ed implica la sicurezza anche di chi cura e del luogo di cura oltre che del come si cura, è lecito attendersi dal paziente bisognoso di cura e assistenza, che si rechi in una struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, ed è doveroso per l’ordinamento pretendere che il personale medico od infermieristico non diventi esso stesso veicolo di contagio, pur sussistendo un rimedio, efficace e sicuro, per prevenire questo rischio connesso all’erogazione della prestazione sanitaria.

31.7. Sarebbe – e in taluni casi verificatisi in Italia a vaccinazione già avviata, purtroppo, è stato – un macabro paradosso quello per i quali pazienti gravemente malati o anziani, ricoverati in strutture ospedaliere o in quelle residenziali, socio-assistenziali o socio-sanitarie (al cui personale lavorativo anche esterno, opportunamente, il recente art. 2, comma 1, del d.l. n. 122 del 10 settembre 2021 ha infatti esteso l’obbligo vaccinale, inserendo nel d.l. n. 44 del 2021 l’art. 4-bis), contraessero il virus, con effetti letali per essi, proprio nella struttura deputata alla loro cura e per causa del personale deputato alla loro cura, refrattario alla vaccinazione.

31.8. Una simile evenienza, che il legislatore ha voluto scongiurare introducendo, come si è detto, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, costituirebbe (ed ha costituito) un grave tradimento di quella «relazione di cura e fiducia tra paziente e medico» e, più in generale, tra paziente e gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria, un ripudio dei valori più essenziali che la medicina deve perseguire e l’ordinamento deve difendere, a cominciare dalla solidarietà, concetto, questo, spesso dimenticato, come taluno ha osservato, in una prospettiva esasperatamente protesa solo a rivendicare diritti incomprimibili.

31.9. Tale relazione di cura e di fiducia, secondo l’art. 1, comma 2, della l. n. 219 del 2017, è il fulcro della prestazione sanitaria e si fonda sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico, responsabilità non secondaria né trascurabile nella tutela del paziente che viene a contatto con lo stesso medico e il personale sanitario.

32. Nel dovere di cura, che incombe al personale sanitario, rientra anche il dovere di tutelare il paziente, che ha fiducia nella sicurezza non solo della cura, ma anche nella sicurezza – qui da intendersi come non contagiosità o non patogenicità – di chi cura e del luogo in cui si cura, e questo essenziale obbligo di protezione di sé e dell’altro, connesso al dovere di cura e alla relazione di fiducia, non può lasciare il passo, evidentemente, a visioni individualistiche ed egoistiche, non giustificate in nessun modo sul piano scientifico, del singolo medico che, a fronte della minaccia pandemica, rivendichi la propria autonomia decisionale a non curarsi.

33. Questa scelta, che sarebbe in una condizione di normalità sanitaria del tutto legittima perché espressione della libera autodeterminazione e del consenso informato, di cui alla l. n. 219 del 2017, appena richiamato, costituisce nel contesto emergenziale in atto un rischio inaccettabile per l’ordinamento perché mette a repentaglio la salute e la vita stessa di altri – le persone più fragili, anzitutto – che, di fronte all’elevata contagiosità della malattia, potrebbero subirne e ne hanno subito le conseguenze in termini di gravità o addirittura mortalità della malattia.

34. Nel bilanciamento tra i due valori, quello dell’autodeterminazione individuale e quello della tutela della salute pubblica, compiuto dal legislatore con la previsione dell’obbligo vaccinale nei confronti del solo personale sanitario, non vi è dunque legittimo spazio né diritto di cittadinanza in questa fase di emergenza contro il virus Sars-CoV-2 per la c.d. esitazione vaccinale.

35. L’obbligatorietà della vaccinazione è una questione più generale che, oltre ad implicare un delicato bilanciamento tra fondamentali valori, quello dell’autodeterminazione e quello della salute quale interesse della collettività anzitutto secondo una declinazione solidaristica, investe lo stesso rapporto tra la scienza e il diritto, come è ovvio che sia, e ancora più al fondo il rapporto tra la conoscenza – e, dunque, l’informazione e il suo contrario, la disinformazione – e la democrazia.

32.3. In un ordinamento democratico, come ha rilevato anche di recente la Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018 sulle vaccinazioni obbligatorie (re)introdotte dal d.l. n. 73 del 2017, rientra nella discrezionalità del legislatore prevedere la raccomandazione dei vaccini o l’obbligatorietà di questi e la scelta tra la tecnica della persuasione e, invece, quella dell’obbligo dipende dal grado di efficacia persuasiva con il quale il legislatore, sulla base delle acquisizioni scientifiche più avanzate ed attendibili, riesce a sensibilizzare i cittadini in ordine alla necessità di vaccinarsi per il bene proprio e, insieme, dell’intera società.

32.4. La Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza (v., tra tutte, proprio la sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, ma anche la sentenza n. 258 del 23 giugno 1994, già richiamata, e la sentenza n. 307 del 22 giugno 1990), ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.

32.5. Tutte queste condizioni, come si dirà meglio nell’esame delle singole questioni di costituzionalità proposte dagli appellanti, sono rispettate dalla vaccinazione obbligatoria ora introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021.

32.6. I valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono certo molteplici e il contemperamento di questi molteplici principî lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo, al fine di raggiungere, mediante la vaccinazione di massa, l’obiettivo della c.d. immunità di gregge.

32.7. Questa discrezionalità, ha chiarito peraltro la Corte, deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 14 dicembre 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (così la giurisprudenza costante della stessa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002), secondo quel modello, di cui si è detto, dell’amministrazione precauzionale c.d. riflessiva, dal carattere adattivo e flessibile e in base alla riserva di scienza.

33. La storia delle vaccinazioni obbligatorie in Italia mostra come, per ragioni complesse, il pendolo legislativo abbia oscillato tra la raccomandazione e l’obbligo, anche a fronte del crescente fenomeno della c.d. esitazione vaccinale (vaccine hesitancy), fenomeno manifestatosi fin sin dall’introduzione, nel Settecento, delle prime terapie vaccinali contro il vaiolo ed oggetto di studio, ormai da anni, da parte del gruppo di esperti Sage (Strategic Advisory Group of Experts on Immunization) nominato nel 2012 dall’OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità.

33.1. In Italia questo fenomeno, diffuso come nel resto dell’Occidente, ha fatto registrare una forte riduzione delle vaccinazioni obbligatorie e ha aperto così le porte ad estese epidemie di morbillo, facendo precipitare l’Italia nel 2013 ben al di sotto della soglia di sicurezza raccomandata dall’OMS nel 95%, e solo l’intervento del d.l. n. 73 del 2017 ha poi portato ad un aumento della copertura non solo per la vaccinazione anti morbillo-parotite-rosolia, ma anche per i vaccini non obbligatori e per tutti i gruppi di età.

33.2. La trasparenza delle informazioni scientifiche, le campagne di sensibilizzazione, le “spinte gentili” – c.d. nudge – alla vaccinazione, mediante un sistema di incentivi o disincentivi, come mostra il recente indirizzo dell’economia comportamentale, sono tutti elementi di sicuro impatto, e spesso di forte incidenza anche sulle libertà costituzionalmente garantite, che tuttavia concorrono a favorire il consenso informato nei singoli nelle decisioni sanitarie e, insieme, il formarsi di una coscienza collettiva favorevoli alla necessità di vaccinarsi e di una profilassi generalizzata contro malattie altamente contagiose e non di rado mortali, creando nei cittadini fiducia (c.d. confidence) nella sicurezza e nell’efficacia dei vaccini.

33.3. La formazione del consenso informato in ciascuno e l’adesione convinta dei più alla vaccinazione, sulla base delle informazioni rese disponibili dalla comunità scientifica e all’esito di un serena valutazione circa il rapporto tra rischi e benefici della vaccinazione all’interno della comunità e delle istituzioni democratiche, costituiscono certo la soluzione migliore e preferibile per combattere la malattia perché esaltano, da un lato, il ruolo di una scienza non richiusa in sé, nell’idolatria di un elitario scientismo, ma aperta al dibattito civile e partecipe al progresso morale e materiale dell’intera società e, dall’altro, valorizzano il fondamentale ruolo dell’autodeterminazione in sintonia, e non già in conflitto, con il principio di solidarietà.

34. Sotto questo profilo «la luce della trasparenza», tanto nelle acquisizioni scientifiche degli esperti quanto nei processi decisionali del legislatore (o dell’amministrazione), «feconda il seme della conoscenza tra i cittadini», come ha ricordato in via generale la recente pronuncia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio (Cons. St., Ad. plen., 10 aprile 2020, n. 10), stroncando il diffondersi di pseudoconoscenze o, addirittura, di credenze irrazionali e, perciò, indimostrabili ma al tempo stesso infalsificabili, e contribuisce al rafforzamento, in modo pieno e maturo, dei diritti fondamentali nel loro esercizio ponderato e responsabile.

34.1. Il consenso informato, che ha un’essenziale funzione di sintesi tra l’autodeterminazione e il diritto alla salute (v., in questo senso, Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 438 e Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n.4460, ma si consideri ora anche la già ricordata, e basilare, previsione dell’art. 1, comma 2, della l. n. 219 del 2017), è e dovrebbe essere la dimensione fisiologica e privilegiata, l’orizzonte normale e consueto entro il quale dovrebbe iscriversi qualsiasi campagna vaccinale, anche quella in corso contro il Sars-CoV-2, e dovrebbe condurre ad un atteggiamento, consapevole e responsabile, di adesione volontaria alla campagna vaccinale a beneficio di tutti e di ciascuno.

34.2. L’elevatissima adesione volontaria alle vaccinazioni in Italia, al di là delle motivazioni dei singoli, lascia intravedere che tra i cittadini questo esercizio ponderato e responsabile della loro autonomia decisionale sulla base del consenso informato, mediante lo strumento della persuasione nelle sue più varie forme, non ha costituito un obiettivo irraggiungibile, ma tangibile, e nondimeno rispetto alle vaccinazioni contro la diffusione del Sars-CoV-2, come per le altre vaccinazioni nel più recente passato, si è registrato quel fenomeno tipico delle contemporanee societés de la défiance, le società del sospetto, in cui i cittadini sembrerebbero o si sentirebbero “condannati”, come taluno ha detto, a “fidarsi della scienza”.

34.3. La c.d. esitazione vaccinale ha un genesi multifattoriale, comprende i più vari atteggiamenti ideologici, culturali, religiosi, filosofici, ma non di rado è il frutto, da un lato, di una irrazionale sfiducia nei confronti della scienza e, più in generale, dei “tecnici”, portatori di un sapere specialistico, avvertiti come titolari di un potere ritenuto inaccessibile e, in quanto tale, elitario ed antidemocratico (“nam et ipsa scientia potestas est”, “sapere è potere”, secondo l’antica massima baconiana), con il rifiuto di un sapere-potere “costituito” e la ricerca di conoscenze altre, alternative, nascoste ai più, e, dall’altro, anche il portato di una visione icasticamente definita “onnivora” dell’autodeterminazione, assoluta e solipstica, insofferente di vincoli ed obblighi che contemplino la visione più vasta dell’intero ordinamento e degli altri individui, secondo, invece, una fondamentale e doverosa declinazione solidaristica.

34.4. Non è possibile indagare e indugiare sulla complessità di questo fenomeno se non per rimarcare, in questa sede e ai fini che qui rilevano, che il superamento dell’esitazione vaccinale proprio in alcuni operatori sanitari, mediante lo strumento della persuasione, avrebbe richiesto tempi, modi e mezzi, di fronte all’emergenza epidemiologica in atto e all’assenza di terapie sicure ed efficacia al di là dei vaccini, che solo l’introduzione di un obbligo vaccinale poteva fronteggiare nelle strutture sanitarie obbligate ad assicurare anche e anzitutto la sicurezza delle cure, tutelando la salute dello stesso personale sanitario, impegnato in prima linea nella lotta contro la nuova malattia, e quella dei pazienti e delle persone più fragili e, in generale, della collettività dalla rapida diffusione del contagio ed evitando quelle situazioni gravi, paradossali e irreversibili, di cui si è detto, nondimeno verificatesi con numerosi contagi e decessi in diverse strutture sanitarie e residenziali proprio per la resistenza immotivata alla vaccinazione da parte del personale sanitario.

34.5. Questo Consiglio di Stato, nel quadro dei valori costituzionali, ha sempre rifiutato una concezione autoritaria e impositiva della cura, calata dall’alto e imposta alla singola persona (v., in questo senso, Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460), e ha sempre rimarcato e difeso la sfera inviolabile della persona nell’autodeterminazione terapeutica, poiché il fine, ma anche il limite di ogni trattamento sanitario, anche obbligatorio, è sempre il «rispetto della persona umana», come prevede il secondo periodo del secondo comma dell’art. 32 Cost., con una previsione di chiusura che illumina il senso del complesso, e complessivo, equilibrio sul quale poggia la salute, quale situazione giuridica soggettiva “ancipite”, bifronte, diritto fondamentale del singolo e, insieme, interesse della collettività.

34.6. Ma dall’altro lato questo Consiglio di Stato ha messo in guardia, nel riconoscere la legittimità, a date condizioni (di cui si è detto), dell’intervento autoritativo nella forma del c.d. biopotere, a tutela della salute pubblica quale interesse della collettività, e con esso le vaccinazioni obbligatorie fra i trattamenti sanitari imposti ai sensi dell’art. 32, comma secondo Cost., da una visione opposta, assolutizzante, unidirezionale e riduttivistica, altrettanto contraria alla Costituzione, del diritto alla salute come appannaggio esclusivo dell’individuo, insensibile al benessere della collettività e al già richiamato principio della solidarietà a tutela dei più fragili (v., in particolare, il parere n. 2065 del 26 settembre 2017 della Commissione speciale di questo Consiglio sulle vaccinazioni introdotte dal d.l. n. 73 del 2017).

35. È nel quadro di queste preliminari, indispensabili, considerazioni di sistema, dunque, che si può passare all’esame delle dieci censure qui riproposte dagli odierni appellanti, censure, come ora si dirà in sintesi, tutte infondate.

36. Con la prima censura (pp. 61-65 del ricorso), anzitutto, gli odierni appellanti lamentano che l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, nel prevedere la vaccinazione obbligatoria con le drastiche conseguenze sanzionatorie ivi configurate nel comma 6, in caso di ingiustificata sottrazione all’obbligo, sull’esercizio della professione e sulla percezione del compenso, violerebbe quanto stabilito dall’art. 3 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, secondo cui «ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica» e nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge.

36.1. Parimenti sarebbe violato l’art. 52 della Carta che, nel consentire, nel rispetto del principio di proporzionalità, limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui, prescrive che tali limitazioni siano previste dalla legge e rispettino, comunque, il contenuto essenziale dei diritti e delle libertà tutelati dalla Carta e comunque, nel par. 3, prevede che «laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono eguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione».

36.2. La violazione della Carta sarebbe evidente anche sotto tale ultimo profilo perché l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel sancire il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, vieta ogni ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui, mentre la giurisprudenza della Corte EDU sarebbe costante nell’affermare che la vaccinazione obbligatoria costituisce una intromissione non consentita nella vita familiare e privata.

36.3. Nel caso in esame, l’obbligo vaccinale imposto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 contrasterebbe con il diritto dell’Unione e con quello convenzionale, così come declinato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, imponendo un eccessivo sacrificio con il diritto alla salute del singolo, costretto a subire danni e rischi non predeterminati, addirittura ignoti, e con riferimento a quelli noti sicuramente gravi e irreversibili, tanti da giungere fino alla morte.

36.4. Lo stesso Consiglio d’Europa, con la risoluzione dell’Assemblea parlamentare del 27 gennaio 2021, ha fortemente esortato gli Stati membri e l’Unione europea «to ensure that citizens are informated that the vaccination is not mandatory and that no one is under political, social or other pressure to be vaccinated if they do not wish to do so».

36.5. Gli appellanti chiedono pertanto che il giudice, stante il chiaro contrasto dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 con il diritto dell’Unione nei sensi appena chiariti, disapplichi la normativa nazionale e, con essa, gli illegittimi provvedimenti qui contestati.

36.6 Vi è ragione anzitutto di dubitare che l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione sia applicabile in una materia come questa, inerente all’intervento sanitario delle autorità nazionali e, nello specifico, alle vaccinazioni obbligatorie, che non rientra propriamente ed «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», come prevede l’art. 51 della Carta stessa nel fissare i limiti della propria applicazione, ma è riservata alla discrezionalità dei singoli Stati seppure nel coordinamento, quanto alla profilassi internazionale (art. 117, comma secondo, lett. q), Cost.), con il diritto e le istituzioni dell’Unione per l’uniforme attuazione, in ambito nazionale, di programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale – v., sul punto, Corte cost., 12 marzo 2021, n. 37 – perché tanto la Corte di Giustizia UE – v., ex plurimis, Corte di Giustizia UE, 5 ottobre 2010, in C-400/10 ed ead., 28 novembre 2019, in C-653/19 – quanto la Corte costituzionale – v., ex plurimis, la sentenza dell’11 marzo 2011, n. 80 – hanno più volte ribadito che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione può essere invocata come parametro di costituzionalità soltanto nel caso in cui la fattispecie, oggetto di legislazione interna, sia disciplinata da una norma del diritto europeo diversa da quelle della Carta e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.

36.7. Per altro verso la qui invocata disapplicazione della norma nazionale, del resto, si scontrerebbe, nell’ipotesi – quod non est – di antinomia rispetto alla Carta, con la impossibilità, per il giudice nazionale, di disapplicare la normativa nazionale contrastante con la Carta dei diritti fondamentali per il costante l’orientamento della Corte costituzionale, che afferma invece la necessità di rimettere la questione alla stessa Corte nell’ipotesi in cui il contrasto investa il rapporto tra normativa nazionale e la Carta, evitando un controllo di costituzionalità diffuso, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla Carta dei diritti «siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali» (Corte cost., 20 dicembre 2017, n. 269 nonché, più di recente, Corte cost., 21 febbraio 2019, n. 20).

36.7. Anche prescindendo da questi preliminari rilievi variamente evidenziati nelle loro difese dalle Aziende Sanitarie appellate, e venendo al merito della censura, si deve rilevare che la sicurezza e l’efficacia dei vaccini in uso, giova ripeterlo ancora una volta, sono state accertate in sede di autorizzazione condizionata, all’esito di rigorose procedure rispettose di tutti gli standard di ricerca e di sperimentazione condivisi dalla comunità scientifica internazionale, e non vi è ragione alcuna né gli appellanti hanno addotto, con la genericità delle loro deduzioni, validi e documentati argomenti confutativi per ritenere che il sacrificio imposto ad essi, con la vaccinazione obbligatoria, sia eccessivo, sproporzionato, nella doverosa valutazione scientifica del rapporto tra rischi e benefici e, comunque, che questo rischio, per quanto sconti, come si è più volte precisato, un margine di c.d. ignoto irriducibile (insito, nel resto, nell’utilizzo di un qualsivoglia farmaco), non rientri nella media, tollerabile, degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie in uso da anni.

37. È fuor di luogo – al di là della impossibilità, per il giudice nazionale, di disapplicare direttamente una norma nazionale contrastante con la Convenzione – anche il richiamo all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto l’art. 8 della Convenzione, contrariamente a quanto assumono gli appellanti, consente invece l’ingerenza pubblica nella sfera privata e familiare a precise rigorose condizioni, fissate dalla più recente giurisprudenza della Corte EDU intervenuta proprio in materia di vaccinazioni obbligatorie, e che sono ampiamente rispettate, a giudizio del Collegio, nel caso di specie, in quanto essa persegue una finalità di un interesse pubblico, il contenimento del contagio, per la tutela della società democratica, a tutela dei soggetti più fragili, di fronte ad una pandemia di carattere globale e alla minaccia di un virus a trasmissione aerea particolarmente pericoloso per i soggetti più vulnerabili, affetti già da altre malattie o anziani, mediante la somministrazione di un vaccino sulla cui efficacia e sicurezza si registra il general consensus della comunità scientifica.

37.1. A questo riguardo si deve ricordare che proprio la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella recente e significativa sentenza Vavřička e altri c. Repubblica Ceca dell’8 aprile 2021 emessa dalla Grande Camera in ric. n. 47621/13, n. 3867/14, n. 73094/14, n. 19306/15, n. 19298/15 e n. 43883/1, ha ritenuto che le nove vaccinazioni obbligatorie introdotte nella Repubblica Ceca – in quel caso a tutela dei minori– possono costituire, ai sensi dell’art. 8 della CEDU, una legittima interferenza nel diritto al rispetto della vita privata quando vi sia una base legale, uno scopo legittimo ed esse siano necessarie in una società democratica per garantire, tra l’altro, il principio di solidarietà, che consiste nell’esigenza di proteggere tutti i membri della società e, in particolare, quelli che sono più vulnerabili, a tutela dei quali si chiede al resto della popolazione di assumersi un “minimo rischio” sotto forma di vaccinazione (v., in particolare, §§ 279 e 306 della sentenza).

37.2. La Corte afferma che l’ingerenza nella vita privata, che l’obbligo vaccinale sicuramente realizza, può giustificarsi ove – oltre ad essere previsto per legge – persegua un obiettivo legittimo (legitimate aim) ai sensi della Convenzione, senz’altro rinvenibile nella protezione della salute collettiva e in particolare di quella di chi si trovi in stato di particolare vulnerabilità (§ 272).

37.3. Quanto al requisito costituito della necessità della misura in una società democratica (necessity in a democratic society), da valutarsi in concreto accertando l’esistenza di un pressante bisogno sociale (pressing social need), di ragioni rilevanti e sufficienti a supporto della scelta (relevant and sufficient reasons) e del rispetto del principio di proporzionalità (proportionality), la Corte giunge a conclusioni ugualmente positive.

37.4. Il bisogno sociale deriva dalla consapevolezza che la vaccinazione infantile è una misura chiave nelle politiche di salute pubblica (§ 281); la rilevanza e sufficienza delle ragioni è affermata in considerazione della rispondenza della vaccinazione obbligatoria al miglior interesse, nel caso esaminato dalla Corte, dei bambini (§ 288); infine, la proporzionalità, è garantita – oltre che dalle garanzie specifiche del procedimento che presiede alla somministrazione – dalla riconosciuta efficacia e sicurezza dei vaccini, a condizione che ciascuna somministrazione sia preceduta da un’anamnesi individuale e sia previsto un meccanismo compensativo per gli eventuali danni.

37.5. Di particolare rilievo e interesse è il passaggio della sentenza – v., in particolare, § 300 – in cui la Corte giustifica la scelta della Repubblica Ceca di rendere obbligatori taluni vaccini alla luce del general consensus della comunità scientifica sull’efficacia e sicurezza di questi ultimi («the Court refers once again to the general consensus over the vital importance of this means of protecting populations against diseas that may have severe effects on individual health, and that, in the case of serious outbreaks, may cause disruption to society».

37.6. Non corrisponde dunque al vero la tesi, sostenuta dagli appellanti, che il diritto convenzionale ritenga le vaccinazioni obbligatorie una inammissibile intromissione nel diritto al rispetto della sfera privata e familiare, in violazione dell’art. 8 della Convenzione, poiché anche la più recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in armonia con l’orientamento assunto, del resto, dalle Corti costituzionali nazionali, ammette la legittimità delle vaccinazioni obbligatorie secondo principî e criterî, non dissimili da quelli seguiti dalla Corte costituzionale italiana nella propria giurisprudenza, che possono trovare applicazione anche alla vaccinazione qui contestata, che soddisfa tutti i requisiti, rigorosi, richiesti dal diritto convenzionale per giustificare l’intromissione pubblica nella sfera privata e familiare.

37.7. Né devono essere enfatizzate le espressioni con cui l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, peraltro con una raccomandazione che non è vincolante sul piano giuridico per gli Stati, ha raccomandato – e non certo imposto – nella risoluzione n. 2361/2021 la non obbligatorietà dei vaccini, perché l’affermazione citata e estrapolata dagli appellanti dal testo della raccomandazione si lega saldamente, invece, proprio alla finalità – punto 7.3 – di assicurare un’alta diffusione del vaccino – «with respect to ensuring high vaccine uptake» – anche adottando – punto 7.3.3 – «effective measures to counter misinformation, disinformation and hesitancy regarding Covid-19 vaccinead e, cioè, misure efficaci a contrastare la cattiva informazione, la disinformazione e l’esitazione vaccinale ed evitare, appunto, quell’atteggiamento di opposizione, presente o latente nelle contemporanee societés de la défiance dell’Occidente, che potrebbe essere aggravato e non certo evitato dall’obbligatorietà della vaccinazione.

37.8. In questa prospettiva, come pure questo Collegio ha già chiarito sopra in conformità all’orientamento della Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, la raccomandazione, per la sua spinta “gentile”, accompagna e favorisce lo sviluppo dell’autodeterminazione, benché anche questa spinta incida anch’essa in profondità sul processo formativo del volere nel consenso informato, senza la costrizione e l’extrema ratio dell’obbligo, aumenta la fiducia dei cittadini nella scienza e nell’intervento pubblico, ma – come pure ha notato la Corte – in ambito medico dalla raccomandazione all’obbligo il passo è breve, sicché non è precluso perciò al legislatore, per assicurare la maggior copertura vaccinale possibile, in vista della c.d. immunità di gregge, e arginare la diffusione del contagio e l’aumento incontrollabile e irrimediabile di malati e morti, soprattutto tra i soggetti più fragili, ove il convincimento anche insistito e modulato nelle più varie forme non sia sufficiente ad assicurare questa copertura, imporre lo strumento dell’obbligo, se particolari esigenze e particolari contingenze, la cui durata nel tempo deve essere oggetto comunque di monitoraggio costante per adattare la legislazione al divenire degli eventi, rendano inevitabile, e improcrastinabile, il ricorso all’azione autoritativa a fronte di una emergenza epidemiologica in corso e al cospetto di una irrazionale, ingiustificabile, diffusa sfiducia e, dunque, in un contesto di crescente esitazione vaccinale.

37.9. In eguale direzione, si noti, si è mosso lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica, nel suo parere, I vaccini Covid-19. Aspetti etici per la ricerca il costo e la distribuzione, allorquando ha raccomandato di rispettare – a p. 13 – il principio che nessuno dovrebbe subire un trattamento sanitario contro la sua volontà, preferendo l’adesione spontanea rispetto all’imposizione autoritativa, ove il diffondersi del senso di responsabilità individuale e le condizioni complessive della diffusione della pandemia lo consentano, ma ha anche soggiunto che, nell’eventualità che perduri la gravità della situazione sanitaria e l’insostenibilità a lungo termine delle limitazioni alle attività sociali ed economiche, «non vada esclusa l’obbligatorietà dei vaccini, soprattutto per gruppi professionali che sono a rischio di infezione e trasmissione di virus; tale obbligo dovrà essere revocato qualora non sussista più un pericolo significativo per la collettività».

38. E proprio ciò il legislatore ha inteso fare, con la previsione dell’obbligo vaccinale introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021.

38.1. Resta tuttavia il dato, incontestabile alla luce del diritto vivente, che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e quella delle Corti supreme in altri Stati (v., ad esempio, Jacobson v. Mass., 197, U.S. 11, 26), non ha affatto escluso la legittimità delle vaccinazioni obbligatorie a tutela della salute pubblica e, in particolare, dei soggetti più vulnerabili, a cominciare dai minori.

38.2. Nemmeno nella prospettiva e dall’analisi del c.d. costituzionalismo multilivello, fatta valere dagli odierni appellanti con la censura in esame, emerge la contrarietà della misura ai valori generalmente riconosciuti a livello sovranazionale o internazionale, in ambito europeo ed extraeuropeo.

38.3. Quanto in sintesi esposto induce, ovviamente e conclusivamente, alla reiezione sia della seconda censura (pp. 65-66 del ricorso) che della terza censura (p. 66 del ricorso), con le quali gli appellanti, rispettivamente, deducono l’illegittimità derivata di tutti gli atti amministrativi, qui impugnati, che hanno fatto applicazione dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, in ipotesi contrastante con il diritto eurounitario e con quello convenzionale, sia la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE per la questione interpretativa degli artt. 3 della Carta e dell’art. 8 della CEDU, in relazione all’art. 52 della Carta, posto che, a tutto concedere, la questione sarebbe dovuta essere rimessa alla Corte costituzionale per valutare l’esistenza di questo contrasto, con conseguente, se del caso, declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 del citato d.l. n. 44 del 2021.

39. Con la quarta censura (pp. 66-67 del ricorso), ancora, gli appellanti deducono l’illegittimità, per vizi propri, degli atti impugnati in quanto essi obbligano alla vaccinazione anche coloro che hanno già contratto la malattia e, pertanto, hanno acquisito la c.d. immunità naturale.

39.1. Ciò, si lamenta, in mancanza di qualsivoglia evidenza scientifica che deponga nel senso per cui la contrazione della malattia non rende immuni da una nuova infezione.

39.2. Così non sarebbe, tuttavia, perché lo stesso Ministero della Salute ha previsto, con la circolare del 3 marzo 2021, che i soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2, decorsa in maniera sintomatica o asintomatica, non possono vaccinarsi prima di tre mesi di distanza dalla documentata infezione.

39.3. La previsione di tale termine, come dimostrerebbe l’esistenza di diversi studi che hanno dimostrato la persistenza di una forte risposta immunitaria a distanza di mesi, sarebbe evidente sintomo di incertezza circa le garanzie di sicurezza che la vaccinazione offre a coloro che già hanno una gran quantità di anticorpi per aver contratto il virus.

39.4. Sarebbe qui evidente l’illegittimità degli atti impugnati laddove, non consentendo di significare all’amministrazione procedente il proprio stato di guarito dal virus, obbligherebbero gli appellanti a sottoporsi ad un trattamento sanitario inutile e, si sostiene, presumibilmente dannoso.

39.5. Nell’ipotesi in cui questo Consiglio non ritenesse che nessuna attività istruttoria sia imposta alla pubblica amministrazione, in ragione del tenore dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, gli appellanti hanno chiesto la sospensione del giudizio e la rimessione della questione alla Corte costituzionale per la sospetta illegittimità della norma nella parte in cui non prevede, tra le ipotesi di differimento o di omissione dell’obbligo vaccinale, la situazione dei soggetti che abbiano già contratto la malattia e, quindi, posseggano la c.d. immunità naturale, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 Cost.

39.6. Difetterebbero infatti, anche in tale caso, entrambi i requisiti di idoneità e necessità della misura che, pertanto, si porrebbe in evidente contrasto con il principio di proporzionalità e paleserebbe, così, la propria irragionevolezza.

39.7. L’interpretazione dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 propugnata dagli appellanti è all’evidenza forzata e irragionevole perché l’ipotesi della persona che abbia già contratto il virus e che sia, quindi, ancora in possesso di una carica anticorpale che sconsiglia nell’immediato la somministrazione del vaccino deve essere ricondotta all’appropriata sedes materiae del comma 2 dell’art. 4 dell’art. 44 del 2021, laddove consente che la somministrazione del vaccino sia posticipata, senza essere omessa, sin quando dal test sierologico non sia emerso che il titolo anticorpale si sia ridotto e sia, così, rientrato nei livelli fisiologici che rendono necessaria la somministrazione – monodose – del vaccino.

39.8. Il fatto che l’immunità naturale, la quale non conferisce certo una patente di immunità perenne, abbia una durata limitata e richieda di accertare la presenza di anticorpi ben può e deve essere coordinato insomma, senza seguire interpretazioni che tendano ad aggravare spropositatamente l’entità dell’obbligo vaccinale e, quindi, a patrocinare una lettura invalidante della sua previsione, con la previsione del comma 2, differendo la somministrazione del vaccino, sul piano cronologico, al momento in cui venga meno l’effetto schermante prodotto dalla immunità naturale.

39.9. Ne segue che la censura, seguendo tale interpretazione, costituzionalmente orientata, dell’art. 4, che consente una ragionevole applicazione dell’obbligo vaccinale anche in ipotesi di immunità naturale, debba essere respinta, in quanto la relativa questione si configura, a questa stregua, come manifestamente infondata, tenendo anche presente il dato, non secondario, che lo stesso Ministero della Salute, con l’aggiornamento della circolare del 21 luglio 2021, ha previsto che «è possibile considerare la somministrazione di un’unica dose di vaccino anti Sars-CoV-2/COVID-19 nei soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 (decorsa in maniera sintomatica o asintomatica), purché la vaccinazione venga eseguita preferibilmente entro i 6 mesi dalla stessa e comunque non oltre 12 mesi dalla guarigione».

40. Per tutte le ragioni sin qui esposte, da richiamarsi qui per intero senza inutili ripetizioni contrarie al principio di sinteticità, deve essere respinta anche la quinta censura, sollevata dagli appellanti (pp. 68-69 del ricorso), con cui si prospetta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, più volte citato, per la dedotta violazione degli artt. 11 e 117, comma secondo, Cost., in relazione agli artt. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, dell’art. 8 della CEDU e del principio di proporzionalità.

40.1. I dedotti profili, per le ragioni ampiamente esposte, sono tutti inconsistenti, anche in relazione al principio di proporzionalità, di cui si dirà meglio in seguito.

41. Con la sesta censura (pp. 69-72), ancora, gli odierni appellanti censurano l’imposizione dell’obbligo vaccinale per il contrasto con l’art. 32 Cost. e con il diritto di autodeterminazione che esso riconosce alla persona.

41.1. Essi sostengono, ancora una volta, che l’imposizione di un determinato trattamento sanitario obbligatorio non può prescindere dalla garanzia delle condizioni di sicurezza ed efficacia del trattamento medesimo, che costituiscono condiciones sine quibus non di una imposizione che, per definizione, non incontra il consenso del destinatario.

41.2. Ma ancora una volta, richiamando qui tutte le motivazioni sopra esposte, le censure degli appellanti muovono da un presupposto scientifico errato, secondo cui le vaccinazioni non sarebbero efficaci e sicure, mentre, come si è visto, esse sono state autorizzate all’esito di procedure rigorose e di sperimentazioni solide e, come dimostrano i dati più recenti e la comparazione delle diverse evidenze della malattia tra soggetti vaccinati e non vaccinati, si stanno dimostrando efficaci sia nel contenimento della malattia, quanto ai sintomi più gravi, che nella diffusione del contagio.

41.3. La tesi degli appellanti pecca di astrattezza perché nessun farmaco, come si è detto, è a rischio zero e i risultati della sperimentazione clinica condotta in tempi rapidi da numerosi ricercatori, con uno sforzo a livello globale senza precedenti, hanno portato alla conclusione, unanimemente condivisa dalla comunità scientifica internazionale, che il rapporto tra rischi e benefici è largamente favorevole per i soggetti che si sottopongono a vaccinazione.

41.4. Ne discende che la vaccinazione rispetta tutti i requisiti fissati dal nostro ordinamento e ribaditi da ultimo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018 per configurare un trattamento sanitario obbligatorio legittimo, non ultimo quello, di cui si dirà, relativa alla indennizzabilità dell’eventuale danno conseguente, con la conseguente manifesta infondatezza della questione di costituzionalità qui sollevata.

42. Con la settima censura (pp. 72-75 del ricorso), ancora, gli appellanti censurano l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 in rapporto all’art. 3 Cost. sotto i diversi profili della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’uguaglianza.

42.1. Quanto al primo profilo, inerente alla ragionevolezza, essi sostengono che il vaccino non costituirebbe misura idonea allo scopo poiché non vi è certezza che il soggetto vaccinato non sia in grado di trasmettere il virus Sars-CoV-2 e, dunque, non si può ritenere che la sua somministrazione soddisfi il fine pubblico al quale è preordinata.

42.2. Quanto al secondo profilo, inerente alla proporzionalità, gli appellanti lamentano che nel perseguimento dell’interesse generale il legislatore avrebbe dovuto prediligere gli strumenti che comportavano il minor sacrificio per gli interessi contrastanti – ad esempio, misure di distanziamento, utilizzo di guanti e mascherine, disinfettanti e paratie in plexiglass oppure sottoposizione degli operatori sanitari a tamponi molecolari o salivari, in grado si svelare, con elevata probabilità, lo stato di salute di chi vi si sottopone – mentre l’imposizione dell’obbligo avrebbe dovuto costituire, in una logica di equilibrato bilanciamento tra gli opposti valori in gioco, l’extrema ratio.

42.3. Quanto al terzo profilo, inerente al principio di uguaglianza, si deduce la natura discriminatoria della vaccinazione, imposta al solo personale sanitario, senza ragione alcuna, a differenza di tutti gli altri cittadini, in quanto la libertà di autodeterminazione non potrebbe essere sacrificata solo in nome di esigenze di interesse pubblico che, nel caso in esame, stante la mancanza di garanzie in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei vaccini, oltre che all’inidoneità di questi ad evitare la trasmissione del virus Sars-CoV-2, evidentemente non sarebbero configurabili.

42.4. Anche queste censure, tuttavia, devono essere respinte perché le relative questioni di costituzionalità sono manifestamente infondate.

42.5. In merito alla dedotta irragionevolezza della disposizione, infatti, si è già ampiamente chiarito che i quattro vaccini sono efficaci e sicuri, allo stato delle conoscenze acquisite e delle sperimentazioni cliniche eseguite (c.d. trials), e rispondono pienamente allo scopo perseguito dal legislatore e, cioè, quello di evitare la diffusione del contagio tra la popolazione, con particolare riferimento, in questo caso, ai pazienti a gli utenti del sistema sanitario, pubblico e privato, tendenzialmente più esposti al rischio di infezione nei luoghi di cura e assistenza, dove sono ospitati numerosi pazienti o transitano numerosi utenti bisognosi di cura, e per definizione più vulnerabili.

42.6. In merito alla dedotta mancanza di proporzione, ancora, occorre rilevare che le evidenze registrate negli ultimi mesi, a vaccinazione avviata, e oggetto di studi – anche osservazionali – dimostrano come solo la vaccinazione stia producendo il risultato di limitare la diffusione del contagio, in generale, e nelle strutture sanitarie, ospedaliere e residenziali, in particolare, impedendo che la trasmissione avvenga proprio nei luoghi di cura, a danno dei soggetti più fragili (malati e anziani), proprio per via del personale medico o infermieristico non vaccinato, in quanto le altre misure, indicate dall’appellante, per quanto utili e raccomandate non sono state decisive nel limitare il contagio, come dimostrano la prima e la seconda ondata della pandemia.

42.7. Quanto alla natura discriminatoria della previsione, infine, il carattere selettivo della vaccinazione obbligatoria è giustificato non solo dal principio di solidarietà verso i soggetti più fragili, cardine del sistema costituzionale (art. 2 Cost.), ma immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, relazione che postula, come detto, la sicurezza delle cure, impedendo che, paradossalmente, chi deve curare e assistere divenga egli stesso veicolo di contagio e fonte di malattia.

42.8. Non può essere seguita la tesi degli appellanti, quando invocano la prevalenza del diritto di autodeterminazione, pur fondamentale nel nostro ordinamento, come si è detto, in quanto diretta espressione della dignità della persona, a scapito dell’interesse pubblico alla vaccinazione obbligatoria degli operatori sanitari, poiché quella stesso valore supremo nella gerarchia dei principî costituzionali e, cioè, la dignità della persona (v., sul punto, Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258) – di ogni persona e non di un astratto, intangibile, invulnerabile, inafferrabile soggetto di diritto – esige la protezione della salute di tutti, quale interesse collettivo, conformemente, del resto, al principio universalistico a cui si ispira il Servizio sanitario in Italia (art. 1 della l. n. 833 del 1978), e in particolare la tutela primaria delle persone più vulnerabili, che entrano, lo si ribadisce, in una relazione di cura e di fiducia – art. 2, comma 1, della l. n. 219 del 2017 – con il personale sanitario.

42.9. La logica dei cc.dd. diritti tiranni e, cioè, di diritti che non entrano nel doveroso bilanciamento con eguali diritti, spettanti ad altri, o con diritti diversi, pure tutelati dalla Costituzione, e pretendono di essere soddisfatti sempre e comunque, senza alcun limite, è del resto estranea ad un ordinamento democratico, perché «il concetto di limite è insito nel concetto di diritto» (Corte cost., 14 giugno 1954, n. 1) ed è stata espressamente sempre ripudiata anche dalla Corte costituzionale che, come noto, ha chiarito che tutti i diritti tutelati dalla Costituzione – anche quello all’autodeterminazione – si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri perché, se così non fosse, si verificherebbe «la illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette» (Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85).

43. Occorre qui ancora e di nuovo richiamare il fondamentale valore della solidarietà, cardine, come pure si è detto, del nostro ordinamento costituzionale e, insieme con esso, quei fondamentali obblighi di reciproca assistenza e protezione, per sé e per gli altri, anche essi parimenti posti a fondamento della nostra Costituzione (art. 2 Cost.), obblighi che legano ciascun individuo all’altro, indissolubilmente, in una “social catena” e in quel “patto di solidarietà” tra individuo e collettività che, secondo la stessa Corte costituzionale, sta alla base di ogni vaccinazione, obbligatoria o raccomandata che sia (Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118).

43.1. Spetta al decisore pubblico, nell’esercizio del c.d. biopotere, fissare le regole e i limiti entro i quali l’esercizio dell’autodeterminazione da parte di ciascuno, senza divenire un diritto tiranno e indifferente alle sorti dell’altro, si possa accordare con la tutela della salute degli altri secondo una legge universale di libertà, ma questo delicato bilanciamento, per tutte le ragioni sin qui viste, non ha varcato nel caso di specie, ad avviso di questo Consiglio, i limiti della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’eguaglianza, sicché ogni dubbio al riguardo è e deve ritenersi manifestamente infondato anche in rapporto ai valori protetti dall’art. 2 Cost.

44. Con l’ottava censura (pp. 75-78 del ricorso), ancora, gli appellanti denunciano l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, in rapporto agli artt. 2 e 32 Cost., per la mancata previsione dell’indennizzo per il caso in cui, dalla somministrazione, dovesse derivare un pregiudizio grave e/o permanente per l’integrità fisica del soggetto al quale il vaccino è inoculato.

44.1. Le caratteristiche della vaccinazione obbligatoria qui contestata, frutto di una imposizione temporanea – fino al 31 dicembre 2021 – dovuta all’emergenza epidemiologica ad alcune categorie di cittadini, avrebbero imposto la specifica previsione di un indennizzo per il caso di conseguenze lesive e/o permanenti derivanti dalla somministrazione, invece, inammissibilmente non previsto dalla disposizione in esame.

44.2. La questione difetta tuttavia di rilevanza perché nessuno degli odierni appellanti si è sottoposto a vaccinazione, obbligo, del resto, non coercibile fisicamente (come essi riconoscono), e dunque la circostanza che dalla somministrazione di questo possa derivare una conseguenza lesiva è una mera eventualità, priva di qualsivoglia concretezza ed attualità nel presente giudizio.

44.3. La censura è comunque manifestamente infondata perché la vaccinazione in questione rientra, a pieno titolo, tra quelle previste dall’art. 1 della l. n. 210 del 1992, a norma del quale «chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge».

44.4. Non è perciò necessaria un’espressa previsione dell’indennizzo nel testo dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, fermo restando ogni eventuale opportuno intervento integrativo da parte del legislatore nel sapiente esercizio della propria discrezionalità anche in riferimento alle ipotesi di vaccinazioni meramente raccomandate, in quanto l’art. 1 della l. n. 210 del 1992, nella costante interpretazione datane dalla Corte costituzionale (v., da ultimo, Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118, si riferisce alle sole vaccinazioni obbligatorie, per legge, come è del resto espressamente, e inequivocabilmente, quella prevista dall’art. 4 del più volte citato d.l. n. 44 del 2021.

44.5. D’altro canto, come ha chiarito la Corte proprio nella sentenza da ultimo citata (ma v. anche Corte cost., 14 dicembre 2017, n. 268), è necessaria la traslazione in capo alla collettività, favorita dalle scelte individuali, degli effetti dannosi che da queste eventualmente conseguano.

44.6. In questa prospettiva la previsione dell’indennizzo completa il “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione.

44.7. La ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo non risiede nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio, ma riposa, piuttosto, sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psicofisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale.

44.8. Per questo, secondo la Corte, la mancata previsione del diritto all’indennizzo in caso di patologie irreversibili derivanti da determinate vaccinazioni raccomandate si risolve in una lesione degli artt. 2, 3 e 32 Cost., perché sono le esigenze di solidarietà costituzionalmente previste, oltre che la tutela del diritto alla salute del singolo, a richiedere che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto, mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del beneficio anche collettivo (sentenze n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012).

44.9. Nel caso in esame, però, l’obbligo di indennizzo è chiaramente garantito dall’applicazione dell’art. 1 della l. n. 210 del 1992, la cui applicazione diretta è incontestabile anche alla vaccinazione obbligatoria prevista dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021.

45.. La questione sollevata, dunque, è irrilevante e, in ogni caso, manifestamente infondata.

46. Con la nona censura (pp. 78-80 del ricorso), ancora, gli odierni appellanti deducono la violazione degli artt. 9 e 33 Cost., in quanto l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 li obbligherebbe ad accettare la vaccinazione, quando essi potrebbero e vorrebbero prediligere misure alternative idonee al raggiungimento della finalità perseguita, nonostante essi stessi siano tutti soggetti legati all’ambiente sanitario, in grado di manifestare dissensi informati e non meramente aprioristici e preconcetti, pur godendo essi di conoscenze specifiche nel settore.

46.1. Ciò impedirebbe, peraltro, anche il progresso della ricerca scientifica, con violazione dell’art. 9 Cost., che tutela la libertà della ricerca scientifica stessa, in riferimento ad altre possibili soluzioni curative.

46.2. Anche queste questioni di costituzionalità, al pari delle altre, sono manifestamente infondate e vanno respinte.

46.3. Quanto al profilo della dedotta violazione dell’art. 33, comma primo, Cost., secondo cui la scienza è libera, non si vede come l’obbligo vaccinale imposto dal legislatore possa ledere tale valore costituzionale, posto che anzi i vaccini sono stati il frutto di una approfondita e libera ricerca scientifica, peraltro avviata già da anni in riferimento ad altri tipi di virus, e sono stati autorizzati all’esito di una procedura che ha visto il rispetto dei più rigorosi standard scientifici.

46.4. Il legislatore non solo non ha violato la c.d. riserva di scienza, in questa materia (v. proprio la sentenza n. 282 del 20 giugno 2002, già sopra menzionata e citata dagli appellanti), attenendosi ai risultati della miglior scienza ed esperienza disponibili su scala mondiale, in accordo, del resto, a quanto è avvenuto in altri ordinamenti europei ed extraeuropei, ma ha anzi adottato e imposto, almeno al personale sanitario, i risultati incoraggianti di questa ricerca a tutela della salute pubblica.

46.5. Né gli appellanti possono addurre, genericamente, di conoscere più degli altri cittadini possibili – ma qui non indicate – terapie alternative, in ragione delle loro specifiche competenze, posto che, come questo Consiglio di Stato ha chiarito, l’esercizio del diritto all’autodeterminazione, che essi rivendicano, non può «comportare un pericoloso soggettivismo curativo o un relativismo terapeutico nel quale è “cura” tutto ciò che il singolo malato vuole o crede, perché nell’alleanza terapeutica è e resta fondamentale l’insostituibile ruolo del medico nel selezionare e nell’attuare le opzioni curative scientificamente valide e necessarie al caso» (Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460).

46.7. In altri termini è la scienza ad indicare al legislatore, ma anche all’individuo le opzioni terapeutiche valide, che questi può scegliere, e non è certo l’individuo, ancorché dotato di proprie personali competenze e di un sapere asseritamente superiore, a forgiarsi una cura da indicare alla scienza e al legislatore, costruendosi una cura “parallela”, “propria”, “privata”, non controllabile da alcuno e non verificabile in base ad alcun criterio scientifico di validazione.

46.8. La libertà e il progresso della scienza invocati dagli appellanti, pur protetti dalla nostra Costituzione negli artt. 9 e 33, non sono né possono essere anarchici o erratici.

46.9. Quel che è certo, comunque, è che l’imposizione della vaccinazione obbligatoria non limita alcuna libertà né progresso della scienza e nessuna prova di tale limite, con riferimento alla ricerca di una cura contro l’infezione da Sars-CoV-2, è stata offerta dagli odierni appellanti.

47. La censura, quindi, deve essere respinta perché la sottesa questione di costituzionalità è, ancora una volta, manifestamente infondata.

48. Con la decima censura (p. 80 del ricorso), infine, gli odierni appellanti lamentano la violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. perché la conseguenza prevista per l’inadempimento dell’obbligo e, cioè, la sospensione dell’esercizio professionale, autonomo o dipendente, confliggerebbe con la tutela del principio lavoristico, sul quale è fondata la Repubblica (art. 1 Cost.), sopprimendo di fatto l’esercizio del diritto al lavoro e la percezione di un compenso che fornisca al lavoratore e alla sua famiglia le risorse necessarie ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa.

48.1. Non sarebbe possibile correlare un obbligo violativo della libertà di scelta della cura all’impossibilità di esercitare la propria professione, se non violando gli artt. 1, 2 4 e 36 Cost.

48.2. Anche quest’ultima censura è manifestamente infondata e va respinta.

48.3. Correttamente il legislatore infatti, nel comma 1 dell’art. 4, ha stabilito che vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati.

48.4. Questa previsione risponde non solo ad un preciso obbligo di sicurezza e di protezione dei lavoratori sui luoghi di lavoro, a contatto con il pubblico, obbligo che, secondo una tesi dottrinaria autorevole, già discenderebbe in questa fase di emergenza – ma il tema è discusso – dall’applicazione combinata della regola generale di cui all’art. 2087 c.c. e dalle disposizioni specifiche del d. lgs. n. 81 del 2008, ma anche, come detto, al principio, altrettanto fondamentale, di sicurezza delle cure, rispondente ad un interesse della collettività (art. 32 Cost.).

48.5. Un simile interesse è sicuramente prevalente, nelle attuali condizioni epidemiologiche, sul diritto al lavoro, di cui all’art. 36 Cost., e d’altro canto il legislatore, seguendo un criterio di gradualità, ha stabilito sanzioni proporzionate all’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni perché, come prevede il comma 8, il datore di lavoro deve adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.

48.6. La sospensione dell’attività lavorativa e della retribuzione, peraltro temporanee perché possibili solo fino al 31 dicembre 2021, costituiscono l’extrema ratio ed operano solo quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile sicché, per il periodo di sospensione di cui al comma 9, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato.

48.7. Anche in questo caso il bilanciamento non appare irragionevole, avuto riguardo alla comparazione degli opposti valori, e qui merita solo ricordare che il Conseil constitutionnel in Francia, pronunciandosi con la decisione n. 824 del 5 agosto 2021 su una analoga legge la quale prevede che al lavoratore, che non presenta il passe sanitaire e non scelga di utilizzare ferie e congedi retribuiti, venga comunicata il giorno stesso la sospensione dal lavoro, ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità perché il legislatore ha perseguito l’obiettivo, di valore costituzionale, di proteggere la salute, limitando la propagazione dell’epidemia.

48.8. Analoghe considerazioni non possono che valere a fortiori per il personale sanitario in Italia, con la conseguente manifesta infondatezza della questione di costituzionalità qui sollevata.

49. In conclusione, per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, quanto alla declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto in primo grado dagli odierni appellanti, ma questo ricorso, pur ammissibile, deve essere respinto in tutte le sue censure.

50. Le spese del doppio grado del giudizio, sulle quali il Collegio si è riservato di decidere, ai sensi dell’art. 26 c.p.a., all’esito del complesso esame sin qui condotto delle censure proposte in primo grado, possono essere interamente compensate tra le parti per la complessità delle questioni esaminate, che investono il delicato bilanciamento tra valori costituzionali a fronte di una nuova vaccinazione obbligatoria, introdotta dal legislatore dell’emergenza.

50.1. Rimane definitivamente a carico degli appellanti, per la soccombenza sul piano sostanziale, il contributo unificato richiesto per la proposizione del ricorso in primo e in secondo grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, proposto dagli odierni interessati, lo accoglie ai sensi di cui in motivazione e per l’effetto, dichiarato ammissibile il ricorso di primo grado, lo respinge nel merito.

Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.

Pone definitivamente a carico dei ricorrenti il contributo unificato richiesto per la proposizione del ricorso proposto in primo e in secondo grado.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del d. lgs. n. 196 del 2003 e all’art. 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’art. 2-septies del d. lgs. n. 196 del 2003, come modificato dal d. lgs. n. 101 del 2018, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 14 ottobre 2021, con l’intervento dei magistrati:

Franco Frattini, Presidente

Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore

Stefania Santoleri, Consigliere

Raffaello Sestini, Consigliere

Ezio Fedullo, Consigliere              

L’ESTENSORE                     IL PRESIDENTE

Massimiliano Noccelli                    Franco Frattin                  

IL SEGRETARIO

Vaccino covid19. Se i genitori litigano il figlio di 16 anni ha diritto di dire la sua

La sentenza del Tribunale Bologna sez. I, 13/10/2021

La massima

Qualora, i genitori non siano conviventi (e non sia pendente tra loro giudizio di separazione o di divorzio), lo strumento normativo specificamente deputato alla soluzione del contrasto è dato dall’art. 709 ter c.p.c., che consente al Tribunale adìto, in composizione collegiale, di adottare direttamente, ad esito di un procedimento soggetto a rito camerale, “i provvedimenti opportuni”.

È infatti, imprescindibile valorizzare la volontà della minore, che avendo compiuto 16 anni, deve ritenersi pienamente capace di discernimento, ovvero in grado di manifestare opinioni in merito a ciò che le sembra più opportuno per lei e di esprimere desideri confacenti al proprio benessere.

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Con ricorso depositato il 17 settembre 2021 X rappresentava di aver avuto una relazione sentimentale con Y dalla quale erano nati due figli, R. (n. il omissis) e S. (n. il omissis), riconosciuti da entrambi i genitori; il ricorrente riferiva, altresì, che, cessata la convivenza, il Tribunale di Bologna con decreto del 1.8.2019 aveva recepito gli accordi raggiunti tra i genitori per la gestione della prole, disponendone l’affido condiviso, il collocamento prevalente presso il padre nella ex casa familiare a lui assegnata e dando disposizioni per la regolamentazione delle visite materne e per il contributo materno al mantenimento economico dei figli minori. Ciò posto, il ricorrente spiegava che la primogenita R., sedicenne, aveva recentemente espresso il desiderio di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid19, alla quale la madre si era dichiarata contraria; acquisito il parere favorevole del medico curante, il padre intendeva dare corso alla volontà della figlia minore e, perdurando l’opposizione materna, chiedeva al Tribunale adìto di autorizzarlo alla somministrazione del vaccino anti-Covid19 in favore della figlia.

Si costituiva in giudizio Y per chiedere il rigetto della domanda avversaria. La resistente si confermava contraria alla vaccinazione anti-Covd19 della propria figlia spiegandone le ragioni, di seguito sintetizzate (cfr. pagg. 3-6 della costituzione in giudizio): I) il pericolo di danno grave alla salute o di morte da Covid 19 è pressoché prossimo allo zero per i soggetti di età inferiore ai 20 anni; II) i farmaci usati per la vaccinazione anti-Covid19 godono di una “autorizzazione eccezionale”, in quanto “non hanno superato tutte le fasi della necessaria sperimentazione”; III) le reazioni avverse ai vaccini in uso sono statisticamente importanti, oltre ad essere sconosciuti gli effetti nel medio-lungo periodo; IV) non esiste alcuna evidenza scientifica che i vaccini in uso prevengano effettivamente l’infezione dal virus; V) esistono terapie e medicine che consentono il trattamento e la cura del COVID 19; VI e VII) le attività (scolastiche o ludiche) dei minori possono comunque essere svolte anche con l’utilizzo della mascherina e previa acquisizione di un tampone negativo che consenta il rilascio del c.d. Greenpass, possibilità che conferma la non obbligatorietà del vaccino anti-Covid19.

Del procedimento veniva ritualmente notiziato il Pubblico Ministero, a cui gli atti venivano telematicamente trasmessi dalla Cancelleria in data 24 settembre 2021, come da relativa annotazione nel fascicolo d’ufficio.

All’udienza del 5 ottobre 2021 le parti, personalmente presenti, venivano sentite dal Giudice Istruttore delegato dal Collegio; nella stessa udienza veniva sentita la figlia minore della coppia, R.. Ad esito la causa era rimessa al Collegio per la decisione.

Questioni preliminari

Com’è noto, l’affido condiviso di un minore ad entrambi i genitori comporta che questi ultimi esercitino la responsabilità genitoriale di comune accordo, tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio (cfr. art. 316 c.c.).

In caso di contrasto su questioni di particolare importanza, ciascun genitore può ricorrere al giudice per ottenere i provvedimenti ritenuti più idonei.

Qualora il contrasto insorga tra genitori conviventi, lo strumento normativo di risoluzione della controversia è dettato dall’art. 316 c.c., che prevede che “Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio”.

Qualora, invece, i genitori non siano conviventi (e non sia pendente tra loro giudizio di separazione o di divorzio), lo strumento normativo specificamente deputato alla soluzione del contrasto è dato dall’art. 709 ter c.p.c., che consente al Tribunale adìto, in composizione collegiale, di adottare direttamente, ad esito di un procedimento soggetto a rito camerale, “i provvedimenti opportuni”.

Ciò posto in termini generali e di sistema, si osserva che la vertenza in esame è stata introdotta con ricorso ex art. 709 ter c.p.c. da X, padre della minore R., per ottenere dal Tribunale adìto, stante l’opposizione materna al riguardo, l’autorizzazione alla somministrazione alla figlia del vaccino anti Covid 19.

Nel caso di specie, il ricorso ex art. 709 ter c.p.c. in esame è certamente ammissibile, in quanto i genitori della minore, non coniugati, non sono più conviventi e il contrasto tra loro attiene all’esercizio della responsabilità genitoriale sulla figlia R., in affido condiviso, in merito ad una questione di particolare importanza relativa alla salute della minore (quale, nello specifico, quella relativa alla somministrazione (o meno) del vaccino anti Covid 19).

Il procedimento in esame rientra tra quelli in cui è previsto l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero.

Al riguardo, è consolidato il principio giurisprudenziale, a cui questo Ufficio intende attenersi, secondo cui “per l’osservanza delle norme che prevedono l’intervento obbligatorio del P.M. nel processo civile – come nel caso di procedimento di separazione personale dei coniugi – è sufficiente che gli atti siano comunicati all’ufficio del medesimo per consentirgli di intervenire nel giudizio, mentre l’effettiva partecipazione e la formulazione delle conclusioni sono rimesse alla sua diligenza” (cfr. Cass. n. 10894/2005; conf. Cass. n. 1345/2005; Cass. n. 2381/2020, secondo cui “Nelle controversie relative alla modifica delle condizioni patrimoniali imposte con sentenza di divorzio, con riferimento al mantenimento dei figli minori, che rientrano tra quelle per le quali è previsto l’intervento obbligatorio del P.M., ai sensi dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall’art. 13 della legge n. 74 del 1987, è sufficiente, al fine di assicurare l’osservanza di detto precetto normativo, che l’ufficio del P.M. venga ufficialmente informato del procedimento, affinché il suo rappresentante sia posto in grado di intervenire e di esercitare i poteri attribuitigli dalla legge, restando irrilevante che in concreto egli non partecipi alle udienze e non formuli conclusioni”; e, ancora, tra le altre: Cass. n. 12254/2020, Cass. n. 6136/2015, Cass. n. 22567/2013, Cass. n. 21065/2006).

Nel caso di specie, gli atti risultano trasmessi dalla Cancelleria all’Ufficio di Procura in data 24 settembre 2021, come da relativa annotazione presente nel fascicolo d’ufficio, sicché, allo stato, deve ritenersi integro il contraddittorio.

Il merito del giudizio

L’opposizione materna alla vaccinazione anti Covid19 si fonda, essenzialmente, su due rilievi: da un lato, la ritenuta inefficacia ed anzi la pericolosità (in termini di effetti collaterali) della somministrazione dei prodotti vaccinali in uso; dall’altro, la ritenuta assenza di effettivo rischio infettivo (con danno grave alla salute) per i ragazzi dell’età di R..

Al riguardo, è bene ricordare che da quando, l’11 gennaio 2020, è stata pubblicata la sequenza genetica del virus SARS-CoV-2, scienziati, industrie e altre organizzazioni in tutto il mondo hanno collaborato per sviluppare il prima possibile vaccini efficaci contro il COVID-19, ovvero in grado di produrre una risposta immunitaria idonea a neutralizzare il virus e a impedire l’infezione delle cellule.

Alcuni dei vaccini anti Covid 19 sono stati realizzati utilizzando la stessa tecnologia di altri vaccini attualmente in uso, altri sono stati realizzati utilizzando approcci innovativi oppure approcci utilizzati recentemente nello sviluppo di vaccini contro SARS e Ebola.

Com’è noto, lo sviluppo di un vaccino è generalmente un processo lungo, che necessita di anni, durante i quali le ricerche vengono condotte a tappe successive che includono i test di qualità, la sperimentazione preclinica e le fasi della sperimentazione clinica nell’uomo (che sono 3: studi condotti su volontari sani per l’identificazione della dose ottimale e la valutazione della sicurezza nell’uomo, studi a carattere esplorativo e condotti su piccoli gruppi di persone, generalmente meno di 100 e, infine, studi allo scopo confermativo e condotti su migliaia o decine di migliaia di persone).

Gli studi sui vaccini contro il COVID-19 sono iniziati nella primavera 2020 e in meno di un anno (a dicembre 2020) l’EMA, ovvero l’Agenzia Europea competente in merito al vaglio di qualità, sicurezza ed efficacia di qualsiasi prodotto farmaceutico da immettere in commercio nel territorio europeo, ha raccomandato alla Commissione Europea di concedere l’autorizzazione all’immissione in commercio “condizionata” a un primo vaccino a RNA messaggero (prodotto dalla ditta BioNTech/Pfizer), il 6 gennaio 2021 ad un secondo vaccino (prodotto dalla ditta Moderna), il successivo 29 gennaio 2021 ad un terzo vaccino (prodotto dalla ditta Astra-Zeneca in collaborazione con l’Università di Oxford) e, infine, l’11 marzo 2021, ad un quarto vaccino (prodotto dal gruppo Johnson & Johnson).

Il processo di sviluppo dei vaccini anti Covid19 ha subito un’accelerazione senza precedenti a livello globale, ma nessuna tappa dell’iter necessario è venuta meno; ciò è stato possibile grazie al concorso di diversi fattori, quali, ad esempio, l’utilizzo di ricerche già condotte in passato sulla tecnologia a RNA messaggero (mRNA), gli studi sui coronavirus umani correlati al SARS-CoV-2, la conduzione parallela delle varie fasi di valutazione e di studio e, non ultime, le ingenti risorse umane ed economiche messe a disposizione in tempi stretti a livello mondiale.

Nel caso dei vaccini in esame l’autorizzazione concessa è “condizionata”, in quanto, proprio in ragione della situazione di emergenza pandemica mondiale, tutte le procedure necessarie al completamento delle fasi di sviluppo dei vaccini sono state effettuate in tempi e con modalità molto più agili del normale: è importante, tuttavia, rimarcare che questa procedura (c.d. rolling review) garantisce una valutazione il più veloce possibile ma, al contempo, ugualmente completa ed approfondita di tutti i requisiti necessari in termini di sicurezza, efficacia e qualità del prodotto, in quanto gli standard (norme, procedure e protocolli) utilizzati per l’autorizzazione sono identici a quelli utilizzati per qualsiasi altro farmaco o vaccino.

Non risponde, dunque, al vero l’affermazione della Y secondo cui i vaccini antiCovid19 godrebbero di una autorizzazione “eccezionale” non avendo superato tutte le fasi della sperimentazione: l’autorizzazione concessa dall’EMA è “condizionata” e rappresenta, a tutti gli effetti, un’autorizzazione formale, che, sebbene si basi su dati meno completi rispetto a quelli richiesti per una “normale” procedura di approvazione alla immissione in commercio, presuppone comunque il positivo completamento di tutto il processo di valutazione ordinariamente previsto e il riferimento agli stessi standard (di sicurezza, di efficacia e di qualità) utilizzati per autorizzare qualsiasi altro farmaco o vaccino.

Quanto all’efficacia dei vaccini in esame nel produrre una risposta immunitaria idonea a neutralizzare o quantomeno a ridurre la carica patogena del virus e, dunque, indirettamente, a contrastare significativamente la diffusione del contagio, è, invero, l’intera comunità scientifica mondiale ad essere concorde nel ritenere, sulla base di studi continuamente aggiornati, che i vaccini approvati dalle autorità competenti hanno una elevata efficacia nel proteggere dalla malattia grave sia i singoli sia la collettività ed in particolare i soggetti vulnerabili, con un rapporto rischi-benefici in cui i benefici sono decisamente superiori ai rischi in tutte le fasce di età.

I dati disponibili, per ciò che concerne specificamente territorio italiano, confermano, del resto, le evidenze degli studi internazionali: con comunicazione resa in data 9.7.2021 l’Istituto Superiore della Sanità ha, infatti, reso noto che i vaccini anti Covid 19, in caso di completamento delle dosi previste, hanno rivelato efficacia “circa all’80% nel proteggere dall’infezione, e fino al 100% dagli effetti più gravi della malattia, per tutte le fasce di età” (cfr. Comunicato Stampa ISS del 9.7.2021 consultabile sul sito istituzionale dell’ISS).

Allo stato delle conoscenze scientifiche, nazionali ed internazionali, è, dunque, indubitabile che i vaccini di cui disponiamo sono estremamente efficaci nel prevenire le forme gravi della malattia, se viene completato il ciclo vaccinale, ed hanno comunque un’ottima efficacia nella prevenzione delle infezioni; e ciò in tutte le fasce di età, ivi compresa quella dai 12 ai 18 anni nella quale rientra la figlia delle odierne parti in lite.

Quanto, poi, alla prospettata insicurezza dei vaccini sotto il profilo degli effetti collaterali, il Rapporto n. 9 dell’AIFA sulla Sorveglianza dei vaccini COVID-19 (relativo al periodo 27.12.2020-26.9.2021) dedica una specifica sezione di analisi alla fascia di età qui di interesse, ovvero 12-19 anni.

Al riguardo, è bene precisare che alla data del 26/09/2021 sono stati utilizzati per la vaccinazione negli adolescenti i vaccini della ditta BioNTech/Pfizer (la cui indicazione è stata estesa a partire dai 12 anni dal 31/05/2021) e della ditta Moderna (approvato a partire dai 12 anni di età dal 28/07/2021), mentre i vaccini AstraZeneca e Johnson & Johnson sono autorizzati a partire dai 18 anni.

Ebbene, nel richiamato Rapporto AIFA n. 9 (cfr. pag. 21) si attesta che “gli eventi avversi [da intendersi come “qualsiasi episodio sfavorevole che si verifica dopo la somministrazione di un farmaco o di un vaccino, ma che non è necessariamente causato dall’assunzione del farmaco o dall’aver ricevuto la vaccinazione”] più frequentemente segnalati sono la cefalea, l’astenia, la febbre e le reazioni locali nel sito di inoculazione, indipendentemente dalla tipologia di vaccino, dal numero di dose e dalla gravità. Considerato il limitato numero di segnalazioni gravi ricevute (5 casi ogni 100.000 dosi somministrate), la valutazione della distribuzione per tipologia di evento e la relativa valutazione del nesso causale risultano al momento ancora poco rappresentative. Circa 1 segnalazione ogni 100.000 dosi somministrate è risultata grave correlabile alla vaccinazione … La maggior parte di queste segnalazioni riportano un quadro clinico caratterizzato da febbre, dolori articolari e muscolari, cefalea e, più raramente, miocardite, pericardite o miopericardite/perimiocardite dopo somministrazione di vaccini a mRNA, prevalentemente dopo la seconda dose e nei soggetti di sesso maschile. Queste ultime reazioni sono in corso di approfondimento a livello nazionale ed europeo”.

Le evidenze del Rapporto AIFA sopra richiamato rendono ragione del livello (elevato) di sicurezza dei vaccini in commercio, specie per la fascia di età della minore di cui qui si discute, nell’ambito della quale gli “eventi avversi” registrati dopo la somministrazione sono di natura lieve e comunque risolubile, solo in 5 casi su 100.000 dosi sono stati ritenuti “gravi” e di questi 1 solo (su 100.000) causalmente correlabile con certezza alla vaccinazione.

Né, d’altro canto, la valutazione positiva sul rapporto rischi/benefici del vaccino può assumere connotazioni diverse in ragione dell’assunto – pure prospettato dalla Y a sostegno della propria indicazione contraria alla vaccinazione della figlia minore – secondo cui i minori sarebbero esenti da rischi immediati per la loro salute in caso di infezione da Covid 19.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla odierna resistente, infatti, va considerato che il più recente Bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità relativo ai casi di infezione da virus SARS-CoV-2 rilevati sul territorio nazionale (pubblicato il 15 ottobre 2021 e consultabile sul sito istituzionale dell’ISS) nel paragrafo dedicato al “Focus età scolare” (cfr. pag. 11) segnala che “dall’inizio dell’epidemia alle ore 12 del 13 ottobre 2021, nella popolazione 0-19 anni sono stati riportati al sistema di sorveglianza integrata COVID-19 765.250 casi confermati di COVID-19, di cui 35 deceduti”, aggiungendo che “nel [solo] periodo 27 settembre – 10 ottobre 2021, in questa popolazione sono stati diagnosticati e segnalati 10.100 nuovi casi, di cui 93 ospedalizzati, 1 ricoverato in terapia intensiva e nessun deceduto”.

Ebbene, R., sentita all’udienza del 5 ottobre 2021, è apparsa ragazza matura e serena, senza incertezze nel manifestare la volontà di ricevere il vaccino anti Covid 19, motivando questa sua convinzione con argomenti che, proprio alla luce delle evidenze scientifiche sopra riportate in merito alla efficacia, alla sicurezza e alla qualità dei vaccini in commercio, devono ritenersi pienamente condivisibili e meritevoli di valorizzazione: “io penso – ha spiegato R. – che il vaccino sia per me una grande fonte di sicurezza, sia per me che per gli altri. Io per andare a scuola prendo mezzi pubblici frequentati da molte persone e spesso non mi sento tutelata dalla sola mascherina. Ho poi molti amici che mi piacerebbe frequentare anche in uscite improvvisate e non riesco a farlo se devo continuamente preoccuparmi di fare il tampone, per esempio per andare a mangiare al ristorante o al cinema o al teatro. Tutte cose che fanno parte o dovrebbero far parte della mia vita di adolescente. Inoltre, dovrei partecipare ad eventi sportivi a ottobre e mi piacerebbe andarci, ma dovendo fare il tampone c’è sempre il rischio e il dubbio di poterlo fare. I miei compagni di classe sono tutti vaccinati. Mia madre è decisamente contraria al vaccino, perché teme che sia per me pericoloso. Io capisco il suo ragionamento e le sue paure, ma credo che per me non farmi vaccinare non sia la cosa giusta”.

Ai fini della risoluzione del contrasto genitoriale che ha dato corso al presente procedimento non va, peraltro, effettuata solo l’analisi dei dati scientifici che sono stati sin qui richiamati e che, nell’ambito di una valutazione complessiva del rapporto rischi/benefici della vaccinazione depongono certamente per l’opportunità di dare corso al trattamento sanitario per la figlia minore della coppia, tenuto anche conto del fatto che risulta acquisita agli atti (come doc. n. 3 allegato al ricorso introduttivo) anche la certificazione del medico di base della minore R., dott.ssa M., che attesta che per la ragazza non vi sono controindicazioni note al trattamento vaccinale di cui si discute.

È infatti, altresì, imprescindibile valorizzare la volontà della minore, che avendo compiuto 16 anni, deve ritenersi pienamente capace di discernimento, ovvero in grado di manifestare opinioni in merito a ciò che le sembra più opportuno per lei e di esprimere desideri confacenti al proprio benessere.

In questo contesto, il rifiuto opposto dalla madre appare non solo decisamente in contrasto con la volontà manifestata dalla figlia, ma anche contrario alla salvaguardia della salute psicofisica della minore, la cui mancanza di copertura vaccinale, soprattutto in presenza di varianti sempre più contagiose, la espone ad un concreto rischio di contrarre la malattia, oltre a costringerla a pregiudizievoli limitazioni alla sua vita di relazione nei più svariati ambiti, scolastico, sportivo, ricreativo e più in generale sociale.

Il conflitto genitoriale va, in definitiva, risolto autorizzando la somministrazione del vaccino a R. e attribuendo al padre la facoltà di condurre la minore in un centro vaccinale e sottoscrivere il relativo consenso informato anche in assenza del consenso dell’altro genitore.

Sulle spese di lite

Considerata la peculiarità della controversia, avente ad oggetto un tema oggetto di ampio dibattito sul quale non si è ancora formato un orientamento consolidato della giurisprudenza, e tenuto altresì conto della natura degli interessi coinvolti, sussistono i giusti motivi per una integrale compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale, come sopra composto, così dispone:

1) ACCOGLIE il ricorso ex art. 709 ter c.p.c. proposto da X nei confronti di Y e, per l’effetto

2) AUTORIZZA la somministrazione del vaccino anti Covid 19 alla minore R., attribuendo al padre la facoltà di condurre la figlia in un centro vaccinale e sottoscrivere il relativo consenso informato anche in assenza del consenso dell’altro genitore;

3) COMPENSA integralmente le spese di lite tra le parti.

Così deciso in Bologna nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile in data 13/10/2021.

IL GIUDICE ESTENSORE

dott.ssa Sonia Porreca

IL PRESIDENTE

dott. Bruno Perla