Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

Tar lombardia respinge ricorso sanitari novax ma apre alle telemedicina

LA MASSIMA

È legittima l’imposizione  del trattamento sanitario obbligatorio, se questo apporta benefici non solo alla salute dell’obbligato ma anche alla salute collettiva e se le eventuali conseguenze negative per la salute dell’obbligato si assestino nei limiti della normale tollerabilità dei rischi avversi, conseguenti a tutti i trattamenti sanitari (Corte costituzionale, 18 gennaio 2018, n. 5; 14 dicembre 2017, n. 268).

Questa è la posizione espressa dalla prima sezione del  Tar della Lombardia che ha richiamato numerose pronunce della Corte Costituzionale sul tema in tre sentenze consecutive (140141 del 24/01/2022)  ed una leggermente diversa che ha parzialmente accolto una eccezione del sanitario ( 109 del 17/01).

Il Collegio ritiene che, alla luce della giurisprudenza costituzionale sopra citata, l’indifferibile esigenza di affrontare l’emergenza sanitaria in atto e di predisporre idonei ed efficaci strumenti di contenimento dei contagi da Sars-Cov-2 nonché la necessità di consentire a tutti gli individui l’accesso alle cure sanitarie in condizioni di sicurezza e, in applicazione del principio solidaristico, di tutelare la salute individuale dei soggetti più fragili, per età o per pregresse patologie, giustifichino il temporaneo sacrificio dell’autonomia decisionale degli esercenti le professioni sanitarie, in ordine alla somministrazione del vaccino.

All’affidamento che i pazienti ripongono nella somministrazione delle cure in condizioni di sicurezza, che assicurino, oltre alla sicurezza intrinseca della somministrazione della cura, anche la sicurezza dei luoghi nei quali la stessa viene somministrata, consegue necessariamente l’adozione di tutte le precauzioni possibili per evitare che essi incorrano in concreti rischi di contagio.

Esigere che la somministrazione del vaccino al personale sanitario sia condizionata alla manifestazione di un consenso libero ed informato non consentirebbe pertanto di perseguire efficacemente ed in tempi ristretti l’obiettivo di ridurre la diffusività del contagio e di decongestionare il sistema sanitario nazionale.

La previsione di un obbligo vaccinale settoriale e non generalizzato, esteso a tutti gli operatori del settore sanitario, si rivela pertanto coerente con la tutela della salute dei pazienti e con l’affidamento che gli stessi ripongono nella somministrazione delle cure in condizioni di massima sicurezza, proprio negli ambienti sanitari che, secondo l’id quod plerumque accidit, comportano un maggior rischio di trasmissione virale.

La sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportino comunque il rischio di diffusione del contagio non può però coincidere con la sospensione dall’iscrizione all’albo professionale, ancorché la vaccinazione sia stata elevata a <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati>> ( Tar lombardia 109/2022).

L’OBBLIGO VACCINALE NON CONTRASTA CON LA NORMATIVA EUROPEA

I ricorrenti tuti  esercenti le professioni sanitarie od operatori di interesse sanitario,  domandavano, previa sospensione della loro efficacia, l’annullamento degli inviti, comunicati dalle competenti Agenzie di tutela della salute (ATS), a sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria nonché il risarcimento dei danni conseguenti alla lesione delle libertà di autodeterminazione e di esercizio dell’attività lavorativa.

Eccepirono,  in  particolare, il contrasto della norma impositiva dell’obbligo vaccinale con il diritto euro-unitario e convenzionale, in particolare con gli articoli 3 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nonché con il principio di proporzionalità, per cui la stessa, in ossequio al principio di primazia del diritto dell’Unione europea.

Il Collegio ha ritenuto insussistenti i presupposti dell’obbligo di disapplicazione della norma interna confliggente con il diritto euro-unitario, in particolare con l’articolo 3, comma 2, della Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella parte in cui prevede che, nell’ambito della medicina e della biologia, devono essere rispettati <<il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge>>, e con l’articolo 52, comma 2, della stessa, nella parte in cui prevede che le eventuali limitazioni all’integrità fisica e psichica degli individui devono corrispondere effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui, sempre che venga rispettato il contenuto essenziale dei diritti e delle libertà tutelati dalla Carta.

Ai sensi dell’articolo 51 della CDFUE, l’obbligo di promuovere l’applicazione delle disposizioni della Carta è infatti limitato all’attuazione delle competenze dell’Unione, tra le quali non rientra l’intervento sanitario in tema di vaccinazioni obbligatorie, il quale è regolato esclusivamente dalla normativa interna degli Stati membri.

SOSPESA LA DETERMINA ATS CHE SOSPENDE ANCHE LE MANSIONI NON A RISCHIO

Il tema è stato trattato dalla stessa sezione nella sentenza  109/2022, forse più importante ed intrigante per le questioni trattate,  che ha accolto il punto del ricorso che riguardava i limiti della normativa rispetto al diritto al lavoro dando una interpretazione costituzionalmente orientata per definire lo stretto spartiacque tra diritto alla salute collettiva e diritto al lavoro. Tema già trattato dal Tribunale del lavoro di Viterbo (Sole24ore sanità 24/01/2022).

Il Tar ha accolto l’eccezione del sanitario ed  annullato l’atto di accertamento adottato dall’ATS nella parte in cui estende la sospensione dal diritto di svolgere le prestazioni professionali anche a quelle prestazioni che, per loro natura o per le modalità di svolgimento, non implicano contatti interpersonali o non sono rischiose per la diffusione del contagio da Sars-CoV-2.

Un’apertura importante in quanto legittima i datori di lavoro ad utilizzare comunque il sanitario in lavori, magari demansionati o diversi, che possono essere svolti a distanza. Indicazione non da poco se si considera la pressione in cui versa il sistema sanitario dove ogni competenza può essere utile.

Al comma 1 dell’articolo 4, il legislatore ha qualificato la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da Sars-CoV-2 come <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati>>.

Nella direttiva quadro del Consiglio 2000/78/CE del 27 novembre 2000, all’articolo 4, paragrafo 1, è previsto che gli Stati membri, <<per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui viene espletata>> possono stabilire <<un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato>>.

Il Collegio ritiene, pertanto, che l’unica interpretazione della norma che consenta di perseguire il fine primario della tutela precauzionale della salute collettiva e della sicurezza nell’erogazione delle prestazioni sanitarie in una situazione emergenziale, senza comprimere in modo irragionevole – sia pure temporaneamente – l’interesse del sanitario a svolgere un’attività lavorativa, sia quella di limitare, come espressamente enunciato dall’articolo 4, comma 6, gli effetti dell’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale allo svolgimento delle prestazioni e delle mansioni che comportano contatti interpersonali e di quelle che, pur non svolgendosi mediante un contatto interpersonale, comportino un rischio di diffusione del contagio da Sars-CoV-2.

La locuzione <<in qualsiasi altra forma>>, che il legislatore ha utilizzato per colorare il divieto di svolgimento di prestazioni o mansioni diverse da quelle che implicano contatti interpersonali, postula comunque che l’attività lavorativa si risolva in un rischio concreto << di diffusione del contagio da SARS-CoV-2>>. Osserva il Collegio che, nell’ambito delle professioni sanitarie, esistono delle attività, praticabili grazie alla tecnologia sanitaria, che il personale sanitario può svolgere senza necessità di instaurare contatti interpersonali fisici, quali ad esempio l’attività di telemedicina, di consulenza, di formazione e di educazione sanitaria, di consultazione a distanza mediante gli strumenti telematici o telefonici, particolarmente utili per effettuare una prima diagnosi sulla base di referti disponibili nel fascicolo sanitario telematico e per fornire un’immediata e qualificata risposta alla crescente domanda di informazione sanitaria, le quali non potrebbero essere svolte in caso di sospensione dall’esercizio della professione sanitaria.

L’ordinamento ricollega, prosegue la sentenza,  allo svolgimento di attività per le quali è richiesta l’iscrizione in un albo professionale, nell’ipotesi in cui questa sia stata temporaneamente sospesa, conseguenze di notevole rilievo sotto il profilo disciplinare, civile (ai sensi dell’articolo 2231 del codice civile, il contratto stipulato con il professionista che non sia iscritto all’albo è nullo e non conferisce alcuna azione, neppure quella sussidiaria di cui all’articolo 2041 del codice civile, per il pagamento della retribuzione) e penale (la giurisprudenza ritiene che soggetto attivo del delitto di esercizio abusivo della professione, previsto e punito dall’articolo 348 del codice penale, sia anche il professionista sospeso dall’albo).

La sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportino comunque il rischio di diffusione del contagio non può dunque coincidere con la sospensione dall’iscrizione all’albo professionale, ancorché la vaccinazione sia stata elevata a <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati>>.

IL DIRITTO DEL PAZIENTE DI SAPERE SE IL SANITARIO NON È VACCINATO

Il Collegio non ignora che un interesse di notevole rilievo, coinvolto nel procedimento disciplinato dall’articolo 4, sia anche quello dei pazienti di essere informati dell’avvenuto adempimento dell’obbligo vaccinale da parte dei professionisti ai quali si rivolgono, specialmente ove la domanda di prestazioni sanitarie avvenga per scelta diretta del professionista e non tramite il filtro dell’accesso ad una struttura sanitaria – pubblica o privata – che si faccia garante delle condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Il diritto dei pazienti ad essere informati è infatti un corollario del diritto alla sicurezza delle cure, che l’articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 2017, n. 24, individua come parte costitutiva del diritto alla salute.

Orbene, se è vero che la sospensione dall’albo professionale è idonea a realizzare la funzione notiziale della inidoneità temporanea del sanitario a svolgere le prestazioni professionali, tale funzione ben può essere garantita mediante specifiche e adeguate forme di pubblicità, la cui individuazione rientra nella competenza degli Ordini professionali.

Saranno in ogni caso demandate all’autonomia ed all’autogoverno dei singoli Ordini professionali, ai quali è riservato in via esclusiva il compito di tenere aggiornato l’albo degli iscritti, sia la predisposizione delle modalità di annotazione dell’atto di accertamento di cui all’articolo 4, comma 6, che l’esercizio della fondamentale funzione di vigilanza sul rispetto della misura interdittiva di natura preventiva.

Resta fermo, tuttavia, che l’esercizio della professione al di fuori degli stretti limiti sopra evidenziati è idoneo ad integrare un comportamento illecito, rilevante a tutti gli effetti di legge.

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Tribunale di Roma. Dipendente di un villaggio turistico rifiuta la vaccinazione. Legittimo sospenderlo dalla retribuzione se a contatto con il pubblico ed a dirlo è il medico competente

Tribunale di Roma, Sez. 2 Lav., 28 luglio 2021, n. 18441
Il Giudice dott.ssa Renata Quartulli, sciogliendo la riserva che precede, esaminati gli atti

osserva
Dalla documentazione in atti risulta quanto segue:
-la ricorrente, sottoposta a visita di idoneità dal medico competente è stata dichiarata: “Idoneo con limitazioni” , ovvero: “Evitare carichi lombari maggiori/uguali a 7 Kg …Altro non può essere in contatto con i residenti del villaggio” ( cfr doc 5 in atti resistente) stante il rifiuto di sottoporsi a vaccinazione contro il virus Sars covid.

  1. Tale giudizio non risulta impugnato dalla lavoratrice;
  • a seguito di tale giudizio la – omissis – le ha comunicato , ai sensi dell’articolo 42 dlgs 81/08, la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con efficacia dall’1.07.2021, ” Data in cui si tornerà ad operare in modalità ordinaria, ovvero, non in smart working” fino a un eventuale giudizio revisione del giudizio di idoneità o cessazione delle limitazioni . ( cfr doc 6)
  • dall’organigramma prodotto in atti non risultano posizioni lavorative confacenti alla professionalità della ricorrente (né per la verità vi è alcuna deduzione al riguardo in ricorso) e quindi la possibilità di reimpiegare diversamente la ricorrente.

È evidente, quindi, che, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, la comunicazione datoriale non costituisce un provvedimento disciplinare per il rifiuto di sottoporsi a vaccinazione, bensì di un doveroso provvedimento di sospensione adottato stante la parziale inidoneità alle mansioni della lavoratrice. In questi casi, infatti, il datore dì lavoro ha l’obbligo di sospendere in via momentanea il dipendente dalle mansioni alle quali è addetto ai sensi dell’ art. 2087 c.c.

A questo riguardo si richiamano le condivisibili argomentazioni espresse dal Tribunale di Modena ( ordinanza del 19.5.21) che, dopo aver richiamato il disposto di cui all’art. 20 D. Lgs. 81/2008 secondo cui: “1. Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi fomiti dal datore di lavoro.

  1. I lavoratori devono in particolare:

a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;

b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale;…”

ha affermato : “Da una piena lettura della disposizione in esame si evince che il prestatore di lavoro, nello svolgimento della prestazione lavorativa, è tenuto (non solo a mettere a disposizione le proprie energie lavorative ma anche) a osservare precisi doveri di cura e sicurezza per la tutela dell’integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto. Il prestatore di lavoro è quindi titolare di precisi doveri di sicurezza e, pertanto, deve essere considerato soggetto responsabile a livello giuridico dei propri contegni… Si osserva poi che, a opinare diversamente e così ad escludere un obbligo (giuridicamente rilevante) di collaborazione da parte del prestatore di lavoro in materia di sicurezza sul lavoro, si depotenzierebbe in misura più che significativa l’obbligo di sicurezza cui il datore di lavoro è sicuramente astretto ai sensi dell’art. 2087 c.c.”

In ordine alla sussistenza dell’obbligo retributivo da parte del datore di lavoro, poi, la giurisprudenza concordemente ritiene che se le prestazioni lavorative sono vietate dalle prescrizioni del medico competente con conseguente legittimità del rifiuto datoriale di riceverle il datore di lavoro non è tenuto al pagamento della retribuzione (cfr. Tribunale di Verona, Sent. n. 6750/2015; Cass., n. 7619/1995).
Peraltro, come è stato osservato: “la protezione e la salvaguardia della salute dell’utenza rientra nell’oggetto della prestazione esigibile. Tutela della salute dell’utenza, penetrata nella struttura del contratto tanto da qualificare la prestazione lavorativa, che non può che attuarsi (anche) mediante la sottoposizione al trattamento sanitario del vaccino contro il virus Sars Cov-2. Con la conseguenza per cui un ingiustificato contegno astensivo rende la prestazione (ove tramontata la possibilità di ricollocamento aliunde) inutile, irricevibile da parte del datore di lavoro poiché inidonea al soddisfacimento dell’interesse creditorio e alla realizzazione del sinallagma, così come obiettivizzatosi nel regolamento contrattuale ( Trib. Modena cit).

Tali considerazioni assumono carattere assorbente e giustificano il rigetto del ricorso.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento di euro 1300 a titolo di compensi professionali oltre oneri di legge

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L’ospedale deve garantire la copertura inail per gli specializzandi

Il  contesto ambientale al cui interno si colloca l'attività di concreta formazione è considerato dalla legge come elemento caratterizzante della imposizione dell'obbligo di assicurare sotto il profilo attivo (per i rischi causati) e passivo (per i danni subiti) l'attività svolta dal medico specializzando.

E’ dunque l’azienda sanitaria, quale titolare della complessiva organizzazione al cui interno si inserisce l’attività degli specializzandi, che è indicata quale destinataria di tali obblighi assicurativi, così realizzandosi una sorta di sdoppiamento quanto al soggetto assicurante, rispetto alla disciplina della copertura assicurativa per l’invalidità e la vecchiaia che attiene a tutele del tutto esterne allo specifico ambiente di lavoro.

(Cassazione civile sez. lav. 13/01/2021, (ud. 20/10/2020, dep. 13/01/2021, n.443).

Il farmacista consegna un farmaco senza ricetta. Medico condannato!

Integra falsità ideologica in certificazione la condotta del medico che prescrive un farmaco senza accertare la sussistenza di condizione patologica del paziente

Il fatto

Un farmacista erogò senza ricetta un farmaco anabolizzante .

In seguito si fece rilasciare da un medico una ricetta bianca a copertura dell’erogazione del farmaco.

Il medico fu stato condannato.

la massima 

Integra il reato di falsità ideologica in certificazione, commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, la condotta del medico che prescriva sul proprio ricettario personale (cd. “ricetta bianca”) un farmaco senza accertare la sussistenza della specifica condizione patologica che ne giustifichi la somministrazione.

La ricetta bianca ha natura attestativa del diritto dell’interessato alla prestazione farmacologica in ragione del suo stato di malattia.

Cassazione penale sez. V, 07/09/2020, n. 28847

Il medico si fida del collega. Non sempre scusa!

In materia di colpa medica nelle attività d'equipe, del decesso del paziente risponde ogni componente dell'equipe, che non osservi le regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte. 
Qualora  vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela .

Il medico che partecipa ad un atto clinico, che sa non essere eseguito correttamente, ha l’obbligo di opporsi e manifestare il proprio dissenso in cartella clinica e deve pretendere l’esame clinico omesso.

La presa in carico del paziente, nel momento dell’effettuazione dell’ intervento chirurgico al quale il medico partecipa, consegue l’ assunzione degli obblighi protettivi nascenti dall’instaurato rapporto protettivo e di controllo.

Questa è l’opinione, espressa dalla quarta sezione della Cassazione Penale, nella sentenza n. 28316 del 29 settembre 2020.

Il fatto

Una dottoressa specializzata in pneumologia fu condannata a quattro mesi di reclusione, pena sospesa, per omicidio colposo.

In primo grado fu assolta ma, a seguito dell’appello del Pubblico Ministero la sentenza fu ribaltata. Sentenza confermata dalla Cassazione.

Il paziente ricoverato nel reparto di pneumologia era affetto da empiema pleurico e focolaio bronco pneumonico destro e fu sottoposto il giorno precedente ai fatti ad intervento di toracentesi.

La dottoressa, in servizio all’inizio del turno, si accorse che le sue condizioni si stavano aggravando e chiese l’intervento del chirurgo che effettuò la prima operazione, il quale lo sottopose d’urgenza sul posto ad intervento di toracentesi senza aspettare la Tac che la dottoressa aveva richiesto e senza ecografia di supporto.

La dottoressa, presente nella stanza di degenza del paziente durante l’intervento del chirurgo, convocò l’infermiera e, onde facilitare le manovre operatorie, ponendosi davanti al paziente che era seduto sulla sponda del letto, lo resse, facendo in modo che assumesse un’idonea posizione.

I chirurghi, a tergo del paziente, commisero l’errore di praticare la toracentesi sul polmone sano, cagionando in tal modo la morte del paziente per arresto cardiocircolatorio dovuto ad asfissia acuta.

Secondo la Cassazione, la dottoressa benchè avesse un ruolo defilato ha comunque  assunto una posizione di garanzia nei confronti del paziente.

Derivante non soltanto dalla sua qualifica di medico pneumologo addetto al reparto in cui questi si trovava ricoverato (ragione per la quale il sanitario decise di richiedere la consulenza dei colleghi chirurghi avendo notato un peggioramento delle condizioni di salute del paziente), ma anche dalla intervenuta partecipazione all’intervento chirurgico, partecipazione sostanziatasi nell’avere prestato materiale ausilio alla sua realizzazione, sia pure attraverso il breve atto di reggere il paziente, facendogli assumere la posizione più idonea per l’intervento, quella cioè destinata a realizzare la maggiore espansione toracica.

Il fatto che la posizione non le permettesse di vedere cosa facessero di colleghi non la esenta da colpa.

L’attività di controllo avrebbe infatti dovuto esperirsi in maniera più ampia, ossia, prima della manovra operatoria, pretendendo l’impiego del mezzo ecografico e, durante la manovra operatoria, facendo in modo di mantenere il contatto visivo che, certamente, la guida ecografica avrebbe consentito.

Il medico per evitare la propria responsabilità avrebbe dovuto manifestare il proprio dissenso in ordine alle modalità operative prospettate e avrebbe dovuto pretendere la guida ecografica, pregiudica l’effetto liberatorio invocato dalla difesa. La mancata individuazione della sede appropriata in cui introdurre l’ago per l’aspirazione, ponendosi come conseguenza non imprevedibile della condotta serbata determina l’impossibilità di attingere alla categoria dei fatti eccezionali sopravvenuti, suscettibili di determinare autonomamente l’evento.

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