Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

Infermiere impugna provvedimento sospensione dell’Ordine Professionale. Il diritto alla salute di tutti vale più dello stipendio.

13/01/2022 n. 7 – Tar Calabria sezione Catanzaro

LA MASSIMA

Richiamata, in proposito, la giurisprudenza secondo cui “il diritto soggettivo individuale al lavoro ed alla conseguente retribuzione è sì meritevole di protezione, ma solo fino all’estremo limite in cui la sua tutela non sia suscettibile di arrecare un pregiudizio all’interesse generale (nella specie, la salute pubblica), di fronte al quale è destinato inesorabilmente a soccombere, sicché, ove il singolo intenda consapevolmente tenere comportamenti potenzialmente dannosi per la collettività, violando una disposizione di legge che quell’interesse miri specificamente a proteggere, deve sopportarne le inevitabili conseguenze” (Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G).
Non deve essere sospesa la delibera del Consiglio Direttivo dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche che ha sospeso dall’Albo degli infermieri un infermiere che si è sottratto dall’obbligo vaccinale senza accampare un elemento ostativo alla vaccinazione ma la mancanza di un atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda Sanitaria e l’impossibilità, da parte dell’Ordine professionale, di surrogarsi a detta azienda nel compito di accertare un fatto (la mancata sottoposizione a vaccinazione) le cui conseguenze sono vincolativamente determinate dal legislatore.

sul ricorso numero di registro generale 1899 del 2021, proposto da

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Elisa Lupis, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ordine delle Professioni Infermieristiche di Catanzaro, non costituito in giudizio;

per l’annullamento

previa sospensione dell’efficacia,

– della delibera del Consiglio Direttivo dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Catanzaro del -OMISSIS-, avente ad oggetto la “-OMISSIS–OMISSIS-”;

– di tutti gli atti presupposti, consequenziali o comunque connessi;

e per il risarcimento del danno ingiusto subito.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l’art. 55 c.p.a.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 il dott. Francesco Tallaro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Osservato che l’odierno ricorso non riguarda un atto di gestione del rapporto di lavoro intercorrente tra il ricorrente e l’Azienda Ospedaliera -OMISSIS-, ma ha ad oggetto il provvedimento, di carattere autoritativo benché vincolato, di sospensione dall’Albo degli Infermieri, sicché, alla cognizione sommaria tipica della presente fase, appare correttamente individuata la giurisdizione di questo plesso di giustizia amministrativa (Cons. Stato, Sez. III, ord. 23 dicembre 2021, n. 6796; TAR Friuli Venezia Giulia, 13 settembre 2021, n. 276);

Osservato che è fuori discussione l’inosservanza, da parte del ricorrente, dell’obbligo, sancito dall’art. 4 d.l. 1 aprile 2021, n. 44, conv. con mod.con l. 28 maggio 2021, n. 76, di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19, obbligo della cui conformità a Costituzione questo Tribunale (così come la più autorevole giurisprudenza sin qui pronunciatasi: cfr. Cons. Stato, Sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) non dubita, essendo coerente con i migliori approdi conoscitivi cui è pervenuta la comunità scientifica e costituendo espressione del principio di solidarietà sociale;

Osservato che il ricorrente non ha dedotto, in questa sede giurisdizionale, la sussistenza di elementi ostativi alla sottoposizione, da parte sua, alla vaccinazione obbligatoria;

Osservato che, di contro, il ricorso si incentra solo sulla mancanza di un atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda Sanitaria Provinciale e sull’impossibilità, da parte dell’Ordine professionale, di surrogarsi a detta azienda nel compito di accertare un fatto (la mancata sottoposizione a vaccinazione) le cui conseguenze sono vincolativamente determinate dal legislatore;

Ritenuto, alla stregua di tali rilievi, che la domanda cautelare non possa trovare accoglimento; non sussiste, infatti, per il ricorrente il pericolo di un danno grave e irreparabile: egli, infatti, potrà agevolmente rimuovere gli effetti negativi dell’atto impugnato sottoponendosi alla vaccinazione anti Covid-19, così adempiendo a un preciso obbligo derivante dalla legge e, ancor prima (cfr. Cons. Stato, Sez. III, decr. 1 dicembre 2021, n. 6401), dal giuramento professionale (cfr. anche Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G., che parla di “una sorta di condizione risolutiva potestativa” (…) “il cui accadimento rientra nella disponibilità del lavoratore il quale in qualunque momento, con un comportamento volontario – che, anzi, sarebbe doveroso atteso lo specifico obbligo vigente a suo carico – può far cessare gli effetti della sua sospensione dal lavoro e dalla conseguente retribuzione”);

Osservato, d’altra parte, che nel bilanciamento tra gli interessi in gioco, quello del ricorrente all’esercizio dell’attività sanitaria e alla correlativa percezione della remunerazione in violazione dell’obbligo vaccinale è destinato a soccombere a fronte delle pressanti esigenze di tutela della salute pubblica e, soprattutto della salute di chi si rivolga al personale sanitario;

Richiamata, in proposito, la giurisprudenza secondo cui “il diritto soggettivo individuale al lavoro ed alla conseguente retribuzione è sì meritevole di protezione, ma solo fino all’estremo limite in cui la sua tutela non sia suscettibile di arrecare un pregiudizio all’interesse generale (nella specie, la salute pubblica), di fronte al quale è destinato inesorabilmente a soccombere, sicché, ove il singolo intenda consapevolmente tenere comportamenti potenzialmente dannosi per la collettività, violando una disposizione di legge che quell’interesse miri specificamente a proteggere, deve sopportarne le inevitabili conseguenze” (Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G,);

Ritenuto, quanto alle spese, che non vi sia luogo a provvedere, stante la mancata costituzione dell’amministrazione intimata;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) rigetta l’istanza di tutela cautelare.

Nulla sulle spese.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’amministrazione ed è depositata presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Giovanni Iannini, Presidente

Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore

Manuela Bucca, Referendario

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Responsabilità infermiere struttura privata per manomissione cartella infermieristica

10/03/2020 n. 9393 – Cassazione penale – sez. V (ud. 16/12/2019, dep. 10/03/2020)

MASSIMA

L ‘infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva. 

Due in infermieri hanno falsificato la scheda infermieristica indicando di avere effettuato il controllo dei valori della diuresi e delle verifiche posturali.

Il primo quale materiale esecutore ed il secondo quale istigatore, attestato falsamente nelle schede infermieristiche i valori della diuresi e delle verifiche posturali eseguite su alcuni pazienti, nonchè il primo, sempre su istigazione del secondo, apponendo su tali schede anche la firma del secondo.

L‘infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

Questo anche se operano in struttura privata – Più volte questa Corte ha evidenziato come debba essere riconosciuta la qualifica di incaricati di un pubblico servizio ad infermieri ed operatori tecnici addetti all’assistenza, con rapporto diretto e personale, del malato .Tale inquadramento non risulta scalfito dal fatto che l’espletamento di tale attività sanitaria avvenga in strutture private accreditate (come quella nella quale si sono svolti i fatti, secondo l’elenco pubblicato dalla ASL , ovvero che per essa si sia fatto ricorso a strumenti privatistici, o comunque che la disciplina del rapporto di lavoro sia retta dalle norme del codice civile, poichè la rilevanza pubblica dell’attività svolta non risulta eliminata, siccome determinata dalle oggettive finalità di tutela e dal rapporto diretto e personale dell’infermiere con il malato (arg. ex. Sez. 2, n. 769 dell’11/11/2005, Rv. 232989).

Nel momento in cui l’infermiere redige la cartella infermieristica esercita anche un’attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del Pubblico Ufficiale.

Le false attestazioni circa i valori della diuresi e delle verifiche posturali dei pazienti apposte nelle schede infermieristiche oggetto di contestazione devono dunque ritenersi ideologicamente false, ai sensi degli artt. 476-479 c.p.

LA SENTENZA
1.Con sentenza dell’11.12.2018 la Corte d’Appello di Salerno ha confermato la sentenza del Tribunale di Salerno del 20.06.2017 di condanna di Omissis. e Omissis alla pena di mesi nove di reclusione, per i reati di cui agli artt. 81 cpv., 476 e 479 c.p. per avere entrambi, quali infermieri della casa di cura, Campolongo Hospital s.p.a., il primo quale materiale esecutore ed il secondo quale istigatore, attestato falsamente nelle schede infermieristiche i valori della diuresi e delle verifiche posturali eseguite su alcuni pazienti, nonchè il primo, sempre su istigazione del secondo, apponendo su tali schede anche la firma del secondo.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo del difensore di fiducia, lamentando con due motivi:

-con il primo motivo, l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), avendo la Corte territoriale errato nel ritenere che i due imputati fossero investiti di funzioni pubblicistiche rilevanti ex art. 357 c.p.: se ciò può valere per gli infermieri delle strutture pubbliche con riferimento alla compilazione delle cartelle cliniche, da considerarsi alla stregua di atti pubblici, a diversa soluzione deve pervenirsi relativamente alle cartelle redatte dal personale di strutture non accreditate con il servizio sanitario nazionale, assimilabili a mere scritture private, redatte e conservate al fine di promemoria dell’attività svolta; da ciò consegue l’insussistenza del reato contestato, potendosi al più parlare del reato di cui all’art. 485 c.p., depenalizzato;

-con il secondo motivo, la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e); invero la prova risulta travisata la prova, atteso che la teste P., esperta in grafologia, ha riconosciuto la falsità delle firme apposte a nome di M.M. sui fogli infermieristici, ma non ha riferito le stesse al F. e gli infermieri di turno al momento del fatto erano quattro; tali firme sono state ricondotte alla mano del F., considerato autore di queste, soltanto per la circostanza fortuita di essere stato colto nella disponibilità delle schede infermieristiche.

3. In data 9.12.2019 la Casa di Cura Campolongo Hospital s.p.a., a mezzo del difensore, ha depositato memoria con la quale ha concluso per l’inammissibilità od infondatezza dei ricorsi, non confrontandosi con il nucleo delle argomentazioni della sentenza impugnata.

 IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili, siccome manifestamente infondati.

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, atteso che gli imputati non si confrontano con la natura delle funzioni da essi esercitate e con la natura degli atti (schede infermieristiche) da essi falsamente redatte.

1.1. Ed invero, l’infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

1.2. Più volte questa Corte ha evidenziato come debba essere riconosciuta la qualifica di incaricati di un pubblico servizio ad infermieri ed operatori tecnici addetti all’assistenza, con rapporto diretto e personale, del malato (Rv. 204520). Tale inquadramento non risulta scalfito dal fatto che l’espletamento di tale attività sanitaria avvenga in strutture private accreditate (come quella nella quale si sono svolti i fatti, secondo l’elenco pubblicato dalla ASL di (OMISSIS)), ovvero che per essa si sia fatto ricorso a strumenti privatistici, o comunque che la disciplina del rapporto di lavoro sia retta dalle norme del codice civile, poichè la rilevanza pubblica dell’attività svolta non risulta eliminata, siccome determinata dalle oggettive finalità di tutela e dal rapporto diretto e personale dell’infermiere con il malato (arg. ex. Sez. 2, n. 769 dell’11/11/2005, Rv. 232989).

Nel momento in cui l’infermiere redige la cartella infermieristica esercita anche un’attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del P.U..

Solo quando l’attività svolta dagli infermieri – per la quale viene percepito un corrispettivo, risulti estranea alle attribuzioni di ufficio ed al particolare rapporto intercorrente con il malato, siccome compiuta nell’esercizio della loro professione sanitaria – può parlarsi di attività svolta da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, la cui falsificazione è punita a norma dell’art. 481 c.p..

1.3.Nel contesto indicato correttamente agli imputati sono stati ascritti i reati di cui agli artt. 476 e 479 c.p. per le false attestazioni descritte nelle imputazioni, proprio perché, come accennato, l’incaricato di un pubblico servizio, nel momento in cui compila la cartella infermieristica o le schede che la compongono – atti pubblici destinati a confluire nella cartella clinica, per quanto si dirà esercita poteri certificativi connessi alla sua attività, che si esplicano attraverso il rilascio di documenti aventi efficacia probatoria. Peraltro, la disposizione dell’art. 493 c.p. non dilata l’area degli atti pubblici (sono tali solo quelli formati nell’esercizio di una pubblica funzione), ma equipara quelli redatti dagli incaricati di un pubblico servizio agli atti pubblici, estendendo ai primi la tutela penale predisposta per i secondi.

1.4. La cartella infermieristica e le schede che la compongono, contiene la registrazione dei dati, dei rilievi effettuati, delle informazioni raccolte, e l’insieme dei documenti di pertinenza infermieristica in relazione ad un determinato paziente, contribuendo ad assicurare il piano di assistenza personalizzato dello stesso. La cartella infermieristica e le schede che di essa fanno parte è componente integrante della cartella clinica, in quanto completa la documentazione sanitaria del paziente e andrà ricongiunta con l’archiviazione, ad essa. Costituendo, dunque, parte integrante della cartella clinica ne condivide la natura di atto pubblico munito di fede privilegiata (Sez. 5, n. 31858 del 16/04/2009 Rv. 244907), con riferimento alla sua provenienza e ai fatti da questi attestati come avvenuti in presenza dell’autore.

Le false attestazioni circa i valori della diuresi e delle verifiche posturali dei pazienti apposte nelle schede infermieristiche oggetto di contestazione devono dunque ritenersi ideologicamente false, ai sensi degli artt. 476-479 c.p..

2. Manifestamente infondato si presenta il secondo motivo di ricorso, circa la non riferibilità al F. delle false annotazioni e firme apposte a nome di ” M.M.” sui fogli infermieristici. In proposito, i ricorrenti non si confrontano con quanto evidenziato nella sentenza impugnata, che ha ritenuto corretto il percorso logico seguito dal primo giudice, in merito alla riferibilità ad entrambi gli imputati delle false attestazioni contestate. In proposito, quanto al F., la Corte territoriale, senza incorrere in vizi, ha ritenuto l’imputato autore materiale dei falsi sulla base: 1) delle dichiarazioni rese dalla Dott.ssa C., medico in servizio presso la Casa di Cura, la quale ebbe a sorprendere il F. con le schede tra le mani, e insospettitasi provvedeva a controllare uno dei pazienti ricoverati, verificando così che la quantità urine raccolte nella sacca era diversa da quella riportata nella scheda; inoltre, risultava già annotato il dato della diuresi del paziente in ordine alle ore notturne, però ancora non trascorse, mentre la firma apposta sulla scheda era quella del M., ancora non in servizio; 2) dell’accertamento grafologico dal quale è emersa la falsità delle annotazioni apposte sulle schede a firma del M.; 3) delle ammissioni degli stessi imputati, che hanno confermato nelle lettere di risposta alla contestazione disciplinare i fatti oggetto di imputazioni, tanto che il giudice del lavoro ha ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento. A fronte di tali valutazioni il F. ha sviluppato censure del tutto generiche e pertanto inammissibili. Sul punto vale la pena richiamare i principi più volte espressi da questa Corte, secondo cui i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato. (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013).

3. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè, trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile a colpa dei ricorrenti (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento a favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare per ciascuno in Euro tremila a favore della Cassa delle Ammende, oltre alla rifusione delle spese della parte civile liquidate in complessivi Euro tremilacinquecento oltre accessori.

P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno a favore della Cassa delle Ammende, oltre alla rifusione delle spese della parte civile liquidate in complessivi Euro tremilacinquecento oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2020

Medico ed infermiere manomettono i dispositivi medici ed il paziente muore

Cassazione penale 03/01/2022 n. 1 – Sez. TERZA PENALE

LA MASSIMA

Ci si trova, di fronte ad una fattispecie in cui un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

IL FATTO

Con sentenza n. 33253 del 2019 la Quarta Sezione penale della Corte di cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza del 18 maggio 2015 con la quale la Corte di appello di Bologna aveva confermato la precedente decisione del Tribunale di Bologna, che, ritenuta la penale responsabilità di  XY in ordine al reato di cui all’art. 589 cod. pen., per avere, in cooperazione colposa con altri, cagionato, con la sua imperizia, imprudenza e negligenza, la morte di XXX, paziente ricoverato presso il Reparto di terapia intensiva cardiologica dell’Ospedale Maggiore di Bologna, la aveva condannata alla pena ritenuta di giustizia.

Con la sentenza n. 33253 del 2019 la Corte di cassazione aveva rilevato che nel motivare la responsabilità della  la Corte territoriale aveva omesso di considerare quanto, nel determinismo causale della morte di XXX, avevano inciso da una parte la scelta, definita del tutto anomala, di un medico, operante presso la medesima struttura ove la  svolgeva le mansioni di infermiera, di procedere all’espianto del defibrillatore cardiaco impiantabile che era applicato al XXX con un anticipo ritenuto ingiustificato rispetto alla necessità clinica, quest’ultima legata al fatto che quello doveva essere sottoposto ad un intervento di chirurgia cardiaca che avrebbe richiesto il preventivo espianto dell’apparato, e da altra parte il fatto che, dato il momento di congestione che era in corso in quella mattinata nel reparto di terapia intensiva, non vi sarebbe stata in ogni caso la possibilità di intervenire tempestivamente per sopperire alla crisi cardiaca che aveva colpito l’uomo ed alla quale, essendo stato espiantato, non poteva più porre rimedio automaticamente il defibrillatore che questi, sino a poco tempo prima, portava nel suo corpo.

Si rileva, infatti, che secondo la accusa fra le cause della morte del XX vi era stata anche la circostanza che, essendo stato disattivato da un altro infermiere e dalla , o comunque senza la consapevole opposizione della XY , durante il turno notturno da costoro svolto, il meccanismo di attivazione dell’allarme sonoro della esistenza di eventuali malesseri cardiaci che era installato presso il letto occupato dal paziente XXX (così come per tutti gli altri pazienti ricoverati in terapia intensiva), e non avendo gli stessi provveduto né alla riattivazione dell’allarme, una volta terminato il loro servizio notturno, né ad informare di tale loro iniziativa gli infermieri che li avevano sostituiti nel turno diurno, la crisi cardiaca che aveva colpito il XXX non era stata rilevata nella sua immediatezza ma solamente quanto essa aveva già in buona parte spiegato i suoi effetti perniciosi.

Adita, pertanto, quale giudice del rinvio, la Corte di appello di Bologna, nuovamente investita della questione attinente alla responsabilità della , questa ha ribadito la responsabilità della donna, osservando che non vi erano elementi per affermare che l’evento morte del XXX fosse intervenuto a seguito di uno sviamento della ordinaria serie causale degli eventi, legato alla iniziativa di espiantare intempestivamente il defibrillatore automatico (fattore quest’ultimo che, peraltro, la Corte di Bologna ritiene non essere certo, non essendovi una tempistica standard in merito al momento in cui, in vista di un successivo intervento chirurgico, debba essere espiantato il defibrillatore impiantabile) né per sostenere, con la dovuta certezza, che, ove la crisi che aveva colpito il citato paziente fosse stata immediatamente percepita dal personale medico e paramedico in servizio presso il reparto in questione, comunque non sarebbe stato possibile ovviare ad essa nei ristretti tempi che la clinica medica ritiene utili.

 La Corte di Bologna ha, pertanto, confermato la affermazione della responsabilità della donna, limitandosi a ridurre la pena a questa inflitta, portandola da anni 2 di reclusione, come stabilito dal Tribunale di Bologna, ad anni 1 di reclusione, salvo il resto.

Avverso la sentenza in questione ha interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore fiduciario, la Coppolla, articolando due motivi di impugnazione.

Il primo motivo riguarda la erronea applicazione della legge penale in relazione alla rilevazione del nesso di causalità fra la condotta della  e l’evento morte oggetto di contestazione; in sostanza, rileva la ricorrente difesa, la Corte di Bologna, disattendendo le conclusioni cui era peraltro già giunta la Corte di cassazione, ha ritenuto che la condotta del dott. XX, che ha espiantato intempestivamente il defibrillatore dalla persona del XXX, non avrebbe costituito un autonomo ed autosufficiente elemento di rischio atto ad interrompere il nesso di causalità fra l’evento e la condotta della XY, laddove, invece, gli elementi istruttori in atti depongono per la irritualità dell’intervento del dott. XX, il quale non solo non aveva comunicato a tutti gli altri addetti alla terapia intensiva quanto da lui fatto, ma neppure si era preoccupato di verificare la funzionalità del sistema di allarme, tale quindi da introdurre un fattore di novità della precedente serie causale.

Quanto all’ulteriore profilo la ricorrente rileva che la valutazione sulla possibile tempestività dell’intervento dei sanitari, ove gli stessi fossero stati  avvisati per tempo, è stata operata in termini del tutto apodittici e senza procedere ad un autonomo e concreto esame delle risultanze probatorie, e senza, peraltro, che sia stato verificato quale sarebbe potuto essere il tempo utile per intervenire fattivamente a salvaguardia della vita del XXX; la necessità della verifica di tale lasso di tempo tanto più sarebbe stata evidente ove si consideri che, non essendo stato informato tutto il personale dell’avvenuto espianto del defibrillatore dal corpo del XXX, non vi era in atto nel personale una condizione di preallarme, posto che si riteneva che alle eventuali emergenze si sarebbe fatto fronte con il dispositivo che il paziente portava addosso.

Conclusivamente la difesa della imputata richiede nuovamente l’annullamento della sentenza della Corte di Bologna.

CONSIDERATO IN DIRITTO

 Il ricorso, essendo risultati manifestamente, infondati i due motivi posti a suo sostegno, deve essere dichiarato inammissibile. Con riferimento al primo motivo di impugnazione, con il quale la difesa della ricorrente lamenta, sotto il profilo della violazione di legge, il fatto che la Corte di Bologna, nell’affermare la penale responsabilità della  in ordine al reato a lei contestato, avrebbe fatto malgoverno degli artt. 40 e 41 del codice sostanziale penale nella parte in cui essi regolano il regime del nesso di causalità, in particolare nel caso in cui un evento sia dovuto alla interazione sotto il profilo causale di una pluralità di fattori genetici, ritiene la Corte che la doglianza sia del tutto priva di fondamento.

Deve, infatti, premettersi la assoluta irritualità del comportamento tenuto dalla  che, per ragioni da lei stessa ascritte alla esigenza di “scongiurare, durante la notte, quello che (la medesima) aveva definito ‘inquinamento acustico’”, aveva provveduto, unitamente all’altro collega svolgente il servizio notturno di assistenza infermieristica, a silenziare (oltre che gli stessi campanelli dell’interfono che consentiva ai pazienti di collegarsi con gli infermieri di guardia, “tanto che questi, per chiedere aiuto, dovevano chiamare ad alta voce’) il sistema di allarme acustico e visivo, (cosiddetto “allarme rosso”) volto a segnalare, onde immediatamente allertare il personale sanitario, la presenza di fenomeni patologici, ivi compresi quelli di aritmia cardiaca, riferibili ai singoli soggetti occupanti le postazioni di terapia intensiva, riguardante il posto letto assegnato al XXX; deve altresì ricordarsi che il detto sistema di allarme non solamente non era stato riattivato dai due al momento della cessazione del loro servizio ma anche che della sua anomala disattivazione i predetti non avevano fatto cenno ai loro colleghi montanti per il turno diurno.

In termini del tutto corretti, pertanto, i giudici del merito hanno attribuito rilevanza causale all’operato della imputata nel determinismo dell’evento morte del paziente XXX, posto che, evidentemente, la disattivazione dell’impianto di allarme acustico e visivo ha comportato un ritardo nell’assistenza prestata al paziente in occasione della crisi cardiaca per lui fatale.

Ciò posto si tratta di vedere se correttamente o meno in sede di merito è stato escluso che la serie causale, innescata dalla condotta della , può dirsi essere stata interrotta dal fatto che – in termini temporali verosimilmente anticipati rispetto ad una prassi prudenziale, sebbene sia stato accertato che non vi siano precisi riferimenti cronologici in ordine alla tempistica riguardante la effettuazione di tale, pur nell’occasione indispensabile, operazione – alle ore 8 e 28 minuti del 20 febbraio 2013, data in cui si è verificato l’evento, il cardiochirurgo che, successivamente – in particolare fra la tardissima mattinata ed il primo pomeriggio del medesimo giorno – avrebbe dovuto operare il XXX, aveva provveduto, come peraltro necessario in vista del programmato intervento, a disattivare il “defibrillatore cardiaco impiantabile” portato dal paziente e che, fino a quel momento, anche nella notte immediatamente precedente, aveva ovviato in via automatica, consentendo il ripristino dell’ordinario ciclo, alle non infrequenti anomalie del ritmo cardiaco che il paziente presentava.

Ci si trova, in sostanza, di fronte ad una fattispecie in cui un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

Nella specie si è dato correttamente corso al giudizio di responsabilità della , essendo stata esclusa – proprio per la sua doverosità in quanto necessariamente funzionale all’effettuazione del successivo intervento chirurgico programmato – la eccezionalità, tale da introdurre un fattore di rischio del tutto inatteso ed autonomo, della condotta di rimozione dell’apparecchio ICD tenuta dal sanitario intervenuto nella mattina del 20 febbraio 2013.

Tale operazione, infatti, sebbene inopportuna nella sua tempistica, non si presenta come idonea ad integrare una serie causale di pericolo del tutto autonoma rispetto alla condotta della , posto che, laddove non fossero stati disattivati i meccanismi automatici di allarme, si sarebbe potuto ragionevolmente ritenere che, l’ambiente ove si trovava il XXX, caratterizzato da un elevato grado di presenza di meccanismi automatici di attivazione della assistenza medica, avrebbe garantito a quello, in caso di necessità, una pronta ed adeguata prestazíone terapeutica.

 D’altra parte non può trascurarsi di osservare che – avendo la  e l’altro infermiere che aveva con lei svolto il turno notturno, disattivato l’impianto di allarme acustico che, pur in presenza del defibrillatore automatico, avrebbe segnalato a questi stessi soggetti il fatto che, durante la notte precedente all’evento morte, il XXX aveva presentato diversi episodi di aritmia cardiaca ,come successivamente emerso in occasione dell’esame dell’apparecchio già espiantato che in più di un’occasione era intervenuto a ripristinare il ritmo cardiaco – non era stato possibile apprezzare immediatamente una siffatta circostanza che, con assoluta verosimiglianza, ove, invece, posta a conoscenza del personale sanitario, avrebbe, quanto meno, indotto una particolare cautela sia nella scelta dei tempí per l’esecuzione dell’espianto sia – ove portata a conoscenza di tutto il personale e non del solo medico che, dopo avere eseguíto l’espianto, aveva compiuto l’”interrogatorio telemetrico dell’apparecchiatura”, il quale, a sua volta, aveva informato del suo operato solo alcuni altri addetti – nel monitoraggio, una volta compiuta tale operazione, delle condizioni del paziente.

Particolare attenzione che – pur considerate le peculiarità che caratterizzano in tema di assistenza medica un reparto di terapia intensiva – la non preventivamente rilevata presenza di particolari criticità, “silenziate” per effetto dell’avvenuta disattivazione dell’impianto di segnalazione acustica e visiva delle emergenze, aveva verosimilmente fatto trascurare. In definitiva nel rilevare che non vi era stata alcuna interruzione del nesso di causalità fra la improvvida condotta della  e l’evento da cui dipende l’esistenza del reato a lei ascritto la Corte felsinea non ha fatto cattivo governo dei criteri che regolano la materia in caso di pluralità di fattosi causali, avendo, invece, correttamente applicato il principio, accolto sia in sede normativa che dalla ermeneutica giurisprudenziale, di equivalenza causale, in applicazione del quale l’azione od omissione dell’agente è considerata causa dell’evento nel quale il reato si concretizza, anche se altre circostanze, di qualsiasi genere – a quello estranee, preesistenti, concomitanti o successive, laddove esse non siano state tali da determinare in maniera autonoma e del tutto indipendente dalle precedenti l’evento – concorrono alla sua produzione perché il comportamento dell’agente ha pur sempre costituito una delle condizioni dell’evento (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 26 marzo 1983, n. 2764).

Venendo al secondo motivo di ricorso, il cui oggetto è la ritenuta contraddittorietà o illogicità della motivazione della sentenza impugnata in quanto in essa la Corte felsinea avrebbe, in termini apodittici, rilevato che, ove l’impianto di allarme sonoro disattivato dalla  fosse stato in funzione sarebbe stato possibile intervenire tempestivamente a favore del XXX, va rilevata la inammissibilità anche di questo. Si rileva che sul punto la sentenza impugnata, lungi dal presentare il vizio lamentato dal ricorrente, ha invece minuziosamente ricostruito le fasi che hanno condotto all’exitus del XXX, segnalando il fatto che fra la prima fase di semplice tachicardia ventricolare, iniziata alle ore 8 e 48 minuti, per come oggettivamente risultante dalle registrazioni elettrocardigrafiche operate in via continuativa sui pazienti ricoverati nella rianimazione, e la fase di “asistolia non rettilinea”, rilevata strumentalmente alle ore 9, 0 minuti e 50 secondi, successivamente alla quale, dopo altri 2 minuti circa, sono iniziate le, ormai tardive, manovre di rianimazione, sono intercorsi quasi 13 minuti, tempo indubbiamente più che sufficiente, in un reparto ospedaliero istituzionalmente avvezzo a praticare cure d’urgenza quale è quello della rianimazione cardiologica (nel quale gli apparati “salvavita” sono già allocati accanto al posto letto di ogni degente), per apprestare una risposta che, ad avviso della Corte (e si tratta di valutazione di fatto del tutto plausibilmente basata sulle risultanze consultive di cui la Corte territoriale ha tenuto conto, come tale non censurabile di fronte a questa Corte di legittimità), avrebbe con elevatissima probabilità consentito, se tempestiva, la sopravvivenza del [XXX. Tutto questo, beninteso, solo in quanto l’apparato di costante monitoraggio della condizione del paziente fosse stato correttamente collegato con il sistema di allarme acustico e visivo, dovendo ritenersi, senza alcun ragionevole dubbio, che questo, adempiendo alla sua specifica funzione, avrebbe allertato il personale ospedaliero ben primo di quanto sia, invece, casualmente avvenuto nella fattispecie.

Le doglianze al riguardo formulate dalla difesa della ricorrente, attinenti alla pretesa “costipazione” del personale del reparto al momento in cui è verificata l’emergenza, impegnato in altre e diverse attività, non superano il livello della mera prospettazione fattuale, come tale non rilevante in questa sede, peraltro smentita dalla Corte di Bologna, la quale ha accertato che nel momento in cui si è verificata la crisi cardiaca che ha condotto il paziente a morte nel reparto vi erano, almeno, tre infermieri professionali ed un medico di guardia, nessuno dei quali impegnato in attività aventi una qualche urgenza e che, pertanto, ben avrebbero potuto essere interrotte onde prestare la indispensabile assistenza al XXX; tutto questo, beninteso, si ribadisce, solo in quanto gli strumenti apprestati per segnalare con immediata tempestività la presenza di situazioni di emergenza non fossero stati, con [inescusabile negligenza e gravissima imprudenza, disattivati dalla . Non essendo stata riscontrata, alla luce delle argomentazioni che precedono, alcuna contraddizione né manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata della Corte di appello di Bologna, anche il secondo motivo del ricorso presentato avverso di essa deve essere dichiarato inammissibile e, con esso, l’intera impugnazione.

Conseguentemente a tale statuizione la ricorrente, visto l’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannata al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Della presente pronunzia, essendo divenuta definitiva la condanna della , dipendente di una amministrazione pubblica, deve essere data notizia, ai sensi dell’art. 153-ter disp. att. cod. proc. pen., alla Azienda ospedaliera presso la quale la stessa, quantomeno all’epoca del fatto, prestava servizio.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Visto l’art. 153-ter disp. att. cod. proc. pen., dispone che il presente dispositivo

sia comunicato alla Azienda ospedaliera Ospedale Maggiore di Bologna.

Così deciso in Roma, il 3 novembre 2021