Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

La quarantena non è incostituzionale

Corte Costituzionale n. 127 6 aprile – depositata il 26 maggio26 maggio 2022

LA MASSIMA

I «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose». Si è, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

Questa è l’opinione della Corte Costituzionale espressa nella sentenza n. 127 emessa il 6 aprile e depositata il 26 maggio scorso.

La rimessione prese spunto da una causa penale. incardinata presso il Tribunale di Reggio Calabria. dove all’imputato fu contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

LE NORME CENSURATE

La sentenza ha respinto le questioni di incostituzionalità degli artt.  2. 1, comma 6° e 2, comma 3° del decreto-legge 16/05/2020, n. 33, convertito, con modificazioni, nella legge 14/07/2020, n. 74.  (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19).

L’art. 1, comma 6, stabilisce che «è fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, aggiunge che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

SENTENZA N. 127 ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, promosso dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, nel procedimento penale a carico di M. A., con ordinanza del 15 aprile 2021, iscritta al n. 141 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2022 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021), il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

L’art. 1, comma 6, censurato stabilisce che «[è] fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, censurato aggiunge che «[s]alvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

Il giudice rimettente riferisce di dover giudicare un imputato tratto a giudizio direttissimo, tra l’altro, in relazione alla contravvenzione così punita, perché tale persona «non avrebbe osservato un ordine legalmente dato per impedire la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo».

Sarebbe perciò palese la rilevanza della questione, che investe la legittimità costituzionale della norma incriminatrice.

In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che il divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora avrebbe un contenuto «assolutamente identico» alla restrizione imposta mediante gli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 del codice di procedura penale, ovvero mediante la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Gli istituti di diritto penale appena citati inciderebbero senza dubbio sulla libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost.

Il rimettente ne deduce che analoga conclusione debba essere formulata quanto al divieto di mobilità oggetto di causa.

Infatti, la quarantena obbligatoria implicherebbe una limitazione positiva legata alla persona, anziché negativa in relazione ai luoghi: ovvero, essa «non impone un divieto di recarsi in determinati luoghi», ma «un divieto di muoversi a determinati soggetti».

Il giudice a quo ne conclude che il provvedimento di adozione del divieto comporti una restrizione della libertà personale, anziché della libertà di circolazione tutelata dall’art. 16 Cost., e che quindi esso debba essere adottato dall’autorità giudiziaria, o soggetto a convalida di quest’ultima.

Il giudice a quo, escluso che la lettera delle disposizioni impugnate permetta in via interpretativa di ritenere che il provvedimento sia soggetto a convalida dell’autorità giudiziaria, dubita perciò della legittimità costituzionale del divieto di mobilità e del regime penale che ne accompagna la violazione, per lesione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

L’Avvocatura ritiene che la misura alla quale è sottoposto chi si ammala vada ricondotta alla sfera della libertà di circolazione, anziché all’art. 13 Cost., deducendone l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

Ciò sulla base, sia del criterio cosiddetto quantitativo, sia del criterio cosiddetto qualitativo, che sarebbero stati elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte e che determinerebbero, altresì, la non fondatezza della questione.

Infatti, secondo la difesa statale, la restrizione, nel caso di specie, avrebbe carattere lieve e non comprometterebbe la dignità della persona, sottoponendola ad un trattamento degradante.

Tali considerazioni, che sottraggono al campo proprio dell’art. 13 Cost. i trattamenti sanitari obbligatori, varrebbero anche per i «cordoni sanitari» istituiti per contenere il contagio, anche se con provvedimenti diretti nei confronti di singoli individui.

Il divieto di mobilità per cui è causa sarebbe perciò una misura limitativa della libertà di circolazione, di natura provvisoria, e subordinata al «mero accertamento della positività al virus Covid-19».

L’assenza di ogni carattere coercitivo renderebbe, inoltre, improprio il riferimento operato dal giudice rimettente agli istituti degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare, che invece comportano «forme di coazione fisica», quale l’applicazione del regime carcerario, in caso di inosservanza delle misure.

3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, limitandosi a reiterare gli argomenti già svolti in sede di intervento.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021) il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

Il rimettente giudica un imputato al quale è contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

Il giudice a quo reputa il combinato disposto delle norme censurate difforme dall’art. 13 Cost., perché esse non prevedono che il provvedimento dell’autorità sanitaria, con il quale il malato è sottoposto alla cosiddetta quarantena obbligatoria, sia convalidato entro 48 ore dall’autorità giudiziaria.

2.– Nella fase iniziale della pandemia il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, aveva approntato una risposta penale per ogni violazione delle «misure di contenimento» attuate, sulla base di tale fonte primaria, a mezzo di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Tuttavia, fin dall’entrata in vigore del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35, il legislatore ha preferito riservare la sanzione penale alla trasgressione ritenuta più grave, nell’ottica del contenimento del contagio, ovvero alla violazione del «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, purché risultate positive al virus», a condizione che tale misura fosse stata attivata con gli strumenti di cui all’art. 2 di tale testo normativo, ovvero d.P.C.m. o ordinanze del Ministro della salute (art. 1, comma 2, lettera e, del d.l. n. 19 del 2020).

Con le disposizioni oggi censurate è direttamente la legge, senza la successiva intermediazione di un d.P.C.m., a porre il «divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’ autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata» (art. 1, comma 6, del d.l. n. 33 del 2020, come convertito), nonché a stabilire che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265» (art. 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020).

Tale figura contravvenzionale di reato mantiene analoga forma, quanto agli elementi costitutivi della fattispecie e alla pena comminata, con il sopravvenuto art. 4, comma 1, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza), che «a decorrere dal 1° aprile 2022» introduce l’art. 10-ter nel testo del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52 (Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 giugno 2021, n. 87.

Quest’ultima disposizione, saldandosi all’art. 13, comma 2-bis, del d.l. n. 52 del 2021, come introdotto a propria volta dall’art. 11, comma 1, lettera b), del d.l. n. 24 del 2022, continua a comportare che sia incriminato, con la medesima pena, il fatto descritto dalle disposizioni del d.l. n. 33 del 2020, in forza delle quali l’imputato viene giudicato nel processo principale.

Pertanto, è palese che lo ius superveniens non interferisce con l’attuale questione di legittimità costituzionale.

2.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità della questione, perché il rimettente avrebbe errato nel ricondurre la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria allo statuto giuridico della libertà personale (art. 13 Cost.), anziché a quello della libertà di circolazione (art. 16 Cost.), che non contiene in sé, diversamente dal primo, la riserva di giurisdizione.

L’eccezione non è fondata, posto che essa attiene con ogni evidenza al merito della questione, e non già ai suoi profili preliminari.

3.– Nel merito, la questione non è fondata.

3.1.– Il dubbio del rimettente nasce dalla convinzione che una misura così limitativa della facoltà di libera locomozione, da impedire l’uscita dalla propria abitazione durante la malattia, non possa che ricadere nella sfera giuridica della libertà personale, al pari di misure che il giudice a quo reputa del tutto affini quanto al grado di afflittività, ovvero gli arresti domiciliari, che sono una misura cautelare (art. 284 del codice di procedura penale), e la detenzione domiciliare, ovvero una misura alternativa alla detenzione (art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»).

È evidente che la facoltà di autodeterminarsi quanto alla mobilità della propria persona nello spazio, in linea di principio, costituisce una componente essenziale sia della libertà personale, sia della libertà di circolazione.

Tuttavia, i criteri che il rimettente suggerisce per qualificare la fattispecie ai sensi dell’art. 13 Cost., anziché in base all’art. 16 Cost., non hanno mai trovato corrispondenza nella ormai pluridecennale giurisprudenza maturata da questa Corte sul punto controverso.

Questa Corte, con la sentenza n. 68 del 1964, ha già rilevato che i «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose».

Perciò, in linea di principio, e impregiudicato ogni ulteriore profilo concernente la legittimità costituzionale di tali misure, non si può negare che un cordone sanitario volto a proteggere la salute nell’interesse della collettività (art. 32 Cost) possa stringersi di quanto è necessario, secondo un criterio di proporzionalità e di adeguatezza rispetto alle circostanze del caso concreto, per prevenire la diffusione di malattie contagiose di elevata gravità.

A seconda dei casi, in particolare, e sempre alla luce della evoluzione della pandemia, il legislatore potrà orientarsi, sia nel senso di prescrivere un divieto generalizzato a recarsi in determinati luoghi, per esempio quando il fattore di contagio alberghi solo in questi ultimi (ciò che il rimettente definisce «limitazioni negative» legate al luogo, attribuendole all’art. 16 Cost.), sia nel senso di imporre un divieto di spostarsi a determinate persone, specie quando queste ultime, in ragione della libertà di circolare, siano, a causa della contagiosità, un pericoloso vettore della malattia (ciò che il giudice a quo sostiene erroneamente comportare una «limitazione positiva» prescritta all’individuo, come tale in ogni caso presidiata dall’art. 13 Cost.).

3.2.– Si tratta di stabilire, anzitutto, se le modalità con le quali una simile, gravosa misura siano state adottate non trasmodino, in concreto, in restrizione della libertà personale.

3.3.– Inoltre, una volta che si sia giunti alla conclusione che la limitazione introdotta dal legislatore appartenga, a buon titolo, al campo governato dall’art. 16 Cost., e si sia quindi potuto escludere ogni rilievo all’art. 13 Cost., ugualmente occorrerebbe valutare la conformità della misura adottata ai limiti costituzionali che il legislatore incontra in tema di compressione della libertà di circolazione.

Quest’ultima, pur priva della riserva di giurisdizione, resta assistita da garanzie consone al fondamentale rilievo costituzionale che connota la facoltà di locomozione, anche quale base fattuale per l’esercizio di numerosi altri diritti di primaria importanza.

Tuttavia, tale secondo aspetto del problema non è stato sottoposto all’attenzione di questa Corte dal giudice rimettente, che ha invece circoscritto il dubbio di costituzionalità alla violazione dell’art. 13 Cost., sicché è solo a quest’ultima che deve riservarsi ora l’attenzione, restando invece impregiudicato ogni profilo afferente all’osservanza dell’art. 16 Cost.

4.– Nella giurisprudenza costituzionale, il nucleo irriducibile dell’habeas corpus, tutelato dall’art. 13 Cost. e ricavabile per induzione dal novero di atti espressamente menzionati dallo stesso articolo (detenzione, ispezione, perquisizione personale), comporta che il legislatore non possa assoggettare a coercizione fisica una persona, se non in forza di atto motivato dell’autorità giudiziaria, o convalidato da quest’ultima entro quarantotto ore, qualora alla coercizione abbia invece provveduto l’autorità di pubblica sicurezza.

L’impiego della forza per restringere la capacità di disporre del proprio corpo, purché ciò avvenga in misura non del tutto trascurabile e momentanea (sentenze n. 30 del 1962 e n. 13 del 1972), è quindi precluso alla legge dalla lettera stessa dell’art. 13 Cost., se non interviene il giudice, la cui posizione di indipendenza e imparzialità assicura che non siano commessi arbitri in danno delle persone.

Qualora, pertanto, il legislatore intervenga sulla libertà di locomozione, indice certo per assegnare tale misura all’ambito applicativo dell’art. 13 Cost. (e non dell’art. 16 Cost.) è che essa sia non soltanto obbligatoria (tale, vale a dire, da comportare una sanzione per chi vi si sottragga), ma anche tale da richiedere una coercizione fisica.

Per detta ragione, questa Corte ha ritenuto che un mero ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, la cui esecuzione sia affidata alla collaborazione spontanea di chi lo riceve, afferisca alla libertà di circolazione, ma che, diversamente, ove l’ordine comporti la traduzione fisica della persona, esso debba essere assistito dalle garanzie di cui all’art. 13 Cost. (sentenze n. 2 del 1956 e n. 45 del 1960). Parimenti, il respingimento dello straniero con accompagnamento coattivo alla frontiera, a differenza dell’ordine di espulsione, restringe la libertà personale in ragione di tale «modalità esecutiva» (sentenza n. 275 del 2017; in precedenza, sentenza n. 222 del 2004).

L’«assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale» contraddistingue anche il trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza, in quanto l’autorità competente, «avvalendosi della forza pubblica» adotta misure che impediscono di abbandonare il luogo (sentenze n. 105 del 2001; si veda, inoltre, la sentenza n. 23 del 1975).

Sempre in osservanza del fondamentale criterio che attiene alla coercizione fisica, questa Corte ha ricondotto all’art. 13 Cost. l’esecuzione di un prelievo ematico nel corso di un procedimento penale «quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva» (sentenza n. 238 del 1996), ma ha invece escluso l’applicabilità di tale disposizione costituzionale al test alcolemico, ove proposto a chi sia sospettato di aver guidato in stato di ebbrezza, considerato che la persona, pur commettendo reato in caso di rifiuto ingiustificato, «non subisce coartazione alcuna, potendosi rifiutare in caso di ritenuto abuso di potere da parte dell’agente» di pubblica sicurezza (sentenza n. 194 del 1996).

Ed è bene precisare che qualora sia previsto il ricorso alla forza fisica al fine di instaurare o mantenere in essere, con apprezzabile durata, una misura restrittiva della facoltà di libera locomozione, allora la circostanza che la legge abbia introdotto tale misura in via generale per motivi di sanità non comporta che essa vada assegnata alla garanzia costituzionale offerta dall’art. 16 Cost., e sfugga così alla riserva di giurisdizione, posto che detto elemento coercitivo implica necessariamente che sia l’autorità giudiziaria ad applicare la restrizione, o a convalidarne l’esecuzione provvisoria.

Così, in particolare, la garanzia di cui all’art. 13 Cost. raggiunge certamente misure disposte o protratte coattivamente, anche se sorrette da finalità di cura, perché «quanto meno allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come “obbligatorio” – con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso, ma anche come “coattivo” – potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana – le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona» (sentenza n. 22 del 2022).

4.1.– Ciò premesso, l’obbligo, per chi è sottoposto a quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria, in quanto risultato positivo al virus COVID-19, di non uscire dalla propria abitazione o dimora, non restringe la libertà personale, anzitutto perché esso non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia.

Il destinatario del provvedimento è infatti senza dubbio obbligato ad osservare l’isolamento, a pena di incorrere nella sanzione penale, ma non vi è costretto ricorrendo ad una coercizione fisica, al punto che la normativa non prevede neppure alcuna forma di sorveglianza in grado di prevenire la violazione. In definitiva, chiunque sia sottoposto alla “quarantena” e si allontani dalla propria dimora incorrerà nella sanzione prevista dalla disposizione censurata, ma non gli si potrà impedire fisicamente di lasciare la dimora stessa, né potrà essere arrestato in conseguenza di tale violazione.

Non può a tale proposito sfuggire la marcata differenza che separa tale fattispecie dalle ipotesi normative evocate dal rimettente per giustificare l’applicazione dell’art. 13 Cost.

Sia la misura cautelare degli arresti domiciliari (art. 284 cod. proc. pen.), sia la misura alternativa alla detenzione costituita dalla detenzione domiciliare (art. 47-ter della legge n. 354 del 1975) sono, infatti, coattivamente imposte e mantenute in vigore, al punto che l’art. 3 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e di buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, consente l’arresto di chi sia evaso anche al di fuori dei casi di flagranza.

Non vi è quindi, su questo piano, alcun paragone possibile tra l’introduzione, da parte delle norme censurate e a pena di commettere una contravvenzione, del solo obbligo di non uscire di casa se malati, al fine di scongiurare ulteriori contagi, e l’esecuzione di provvedimenti tipici del diritto penale, ai quali è connaturata la coercibilità, perlomeno per i casi di inosservanza.

5.– Fin dagli esordi della sua giurisprudenza, questa Corte ha riconosciuto che l’art. 13 Cost. deve trovare spazio non soltanto a fronte di restrizioni mediate dall’impiego della forza fisica, ma anche a quelle che comportino l’«assoggettamento totale della persona all’altrui potere», con le quali, vale a dire, viene compromessa la «libertà morale» degli individui (sentenza n. 30 del 1962), imponendo loro «una sorta di degradazione giuridica» (sentenza n. 11 del 1956).

Tale criterio di lettura ha trovato ripetutamente applicazione, ove si è trattato di qualificare sul piano costituzionale i limiti imposti alla facoltà di libera locomozione, che non fossero accompagnati da forme di coercizione (sentenze n. 144 del 1997; n. 193 e n. 143 del 1996; n. 210 del 1995; n. 419 del 1994; n. 68 del 1964; n. 45 del 1960), e che, di conseguenza, si prestavano, in linea astratta, a convergere verso il campo di applicazione dell’art. 16 Cost.

Questa Corte ha tenuto ferma, al contrario, la necessità che simili restrizioni, ove implicanti «degradazione giuridica», fossero assistite dalle piene garanzie dell’habeas corpus offerte dallo statuto della libertà personale.

Specie a fronte di un vasto apparato di misure di prevenzione, che la legislazione dei tempi affidava alla gestione della sola autorità di pubblica sicurezza, si è infatti ritenuto che la medesima esigenza costituzionale di preservare la libertà dell’individuo, comprimibile solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge, dovesse essere avvertita non soltanto innanzi allo spiegamento di forme coercitive (il cui esercizio segna la più icastica manifestazione del monopolio statale della forza), ma anche per quei casi nei quali la legge assoggetta l’individuo a specifiche prescrizioni che si riflettono sulla facoltà di disporre di sé e del proprio corpo, compresa quella di locomozione, recando al contempo «una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona» (sentenze n. 419 del 1994 e n. 68 del 1964).

Si tratta, è appena il caso di precisarlo, di un criterio che è stato utilizzato nella giurisprudenza di questa Corte solo per allargare lo scudo protettivo dell’art. 13 Cost., e in nessun caso per ridimensionarlo: in altri termini, ove la restrizione sia ottenuta mediante coercizione fisica, essa continua ad afferire alla libertà personale, quand’anche non rechi degradazione giuridica.

Nel caso opposto, prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l’individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità.

5.1.– Naturalmente, può essere complicato, talvolta, distinguere, tra le incisioni della facoltà di locomozione, quelle che convergono, in quanto degradanti, verso la libertà personale, e quindi di competenza dell’autorità giudiziaria, e quelle che, invece, afferiscono alla libertà di circolazione.

Basti pensare, a tale proposito, che questa Corte ha ravvisato la pertinenza dell’art. 13 Cost. a fronte dell’obbligo, non coercibile, di comparire presso un ufficio di polizia durante lo svolgimento di manifestazioni sportive (sentenze n. 193 e n. 143 del 1996), ma la ha invece esclusa con riguardo al divieto di accedere agli stadi, perché l’assenza di un contatto con la pubblica autorità, in tal caso, determina una «minore incidenza sulla sfera della libertà del soggetto», ovvero non ne comporta una degradazione giuridica afferente alla dignità della persona (sentenza n. 193 del 1996).

Non vi è in questi casi, e salvo eccezioni, quel sottostante giudizio sulla personalità morale del singolo, e la incidenza sulla pari dignità sociale dello stesso, che reclamano, ove posti a base di una misura restrittiva pur non coercitiva, l’apparato di garanzie predisposto a tutela della libertà personale. Tuttavia, non è detto che questo sia sufficiente sul piano costituzionale, e che non debbano invece aggiungersi a ciò, in casi del tutto particolari, le garanzie offerte dall’art. 13 Cost., alla luce delle peculiarità con cui si è eventualmente manifestato l’intervento legislativo.

6.– Sulla base di questi principi deve ritenersi che, nel caso di specie, è palese che la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria recata dall’art. 1, comma 6, censurato non determina alcuna degradazione giuridica di chi vi sia soggetto e quindi non incide sulla libertà personale.

Si è qui, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

6.1.– Va infine ribadito che il paragone che il giudice rimettente instaura con le misure degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare è insostenibile.

In tali casi si è infatti in presenza di misure proprie del diritto penale, la cui applicazione è inscindibilmente connessa ad una valutazione individuale della condotta e della personalità dell’agente, da parte dell’autorità giudiziaria a ciò costituzionalmente competente.

Sono, questi, elementi che danno pienamente conto delle ragioni per le quali non è dubitabile che simili misure siano soggette alla riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost., ma che, al contempo, servono a chiarire perché non lo debba invece essere la cosiddetta quarantena obbligatoria, che non fa seguito ad alcun tratto di illiceità, anche solo supposta, nella condotta della persona, ma alla sola circostanza, del tutto neutra sul piano della personalità morale e della pari dignità sociale, di essersi ammalata a causa di un agente patogeno diffuso nell’ambiente.

Per tale ragione, sebbene il legislatore abbia costruito la figura di reato sull’inosservanza del provvedimento che sottopone la singola persona alla quarantena a seguito di positività al test del virus Covid-19, non solo non vi è alcun obbligo ai sensi dell’art. 13 Cost. che tale provvedimento sia convalidato dall’autorità giudiziaria, ma di quest’ultimo provvedimento amministrativo non vi sarebbe neppure stata la necessità costituzionale.

Il legislatore ben potrebbe, infatti, configurare come reato la condotta di chi, sapendosi malato, lasci la propria abitazione o dimora, esponendo gli altri al rischio del contagio, senza la necessità della sopravvenienza di un provvedimento dell’autorità sanitaria. Ciò infatti è accaduto durante la vigenza del d.l. n. 19 del 2020, il cui art. 4, comma 6, aveva provveduto proprio in tal senso.

Del resto, la natura del virus, la larghissima diffusione di esso, l’affidabilità degli esami diagnostici per rilevarne la presenza, sulla base di test scientifici obiettivi, fugano ogni pericolo di «arbitrarietà e di ingiusta discriminazione» (sentenza n. 68 del 1964), tale da chiamare in causa il giudice, affinché la misura dell’isolamento sia disposta, o convalidata tempestivamente; fermo restando che il malato non solo, come si è visto, può sottrarsi alla misura obbligatoria, ma non coercitiva (pur sostenendone le conseguenze penali), ma può altresì far valere le proprie ragioni, in via di urgenza, innanzi al giudice comune, perché ne sia accertato il diritto di circolare, qualora difettino i presupposti per l’isolamento.

7.– In definitiva, la questione di legittimità degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020 non è fondata, in riferimento all’art. 13 Cost., perché la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione, anziché restringere la libertà personale.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, sollevata, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

Continua a leggere...

Ministero Salute. Sanitario guarito da Covid19. Nessuna revoca della sospensione se non completato il ciclo vaccinale.

Il Ministero della Salute, con nota del 17/02/2022 in allegato, ha chiarito che l’avvenuta guarigione da Covid19 non permette la revoca della sospensione se il sanitario non ha completato il ciclo vaccinale.

Il Ministero chiarisce che l’unico modo per ottenere la revoca della sospensione è produrre la documentazione di avvenuta vaccinazione.

Tar lombardia respinge ricorso sanitari novax ma apre alle telemedicina

LA MASSIMA

È legittima l’imposizione  del trattamento sanitario obbligatorio, se questo apporta benefici non solo alla salute dell’obbligato ma anche alla salute collettiva e se le eventuali conseguenze negative per la salute dell’obbligato si assestino nei limiti della normale tollerabilità dei rischi avversi, conseguenti a tutti i trattamenti sanitari (Corte costituzionale, 18 gennaio 2018, n. 5; 14 dicembre 2017, n. 268).

Questa è la posizione espressa dalla prima sezione del  Tar della Lombardia che ha richiamato numerose pronunce della Corte Costituzionale sul tema in tre sentenze consecutive (140141 del 24/01/2022)  ed una leggermente diversa che ha parzialmente accolto una eccezione del sanitario ( 109 del 17/01).

Il Collegio ritiene che, alla luce della giurisprudenza costituzionale sopra citata, l’indifferibile esigenza di affrontare l’emergenza sanitaria in atto e di predisporre idonei ed efficaci strumenti di contenimento dei contagi da Sars-Cov-2 nonché la necessità di consentire a tutti gli individui l’accesso alle cure sanitarie in condizioni di sicurezza e, in applicazione del principio solidaristico, di tutelare la salute individuale dei soggetti più fragili, per età o per pregresse patologie, giustifichino il temporaneo sacrificio dell’autonomia decisionale degli esercenti le professioni sanitarie, in ordine alla somministrazione del vaccino.

All’affidamento che i pazienti ripongono nella somministrazione delle cure in condizioni di sicurezza, che assicurino, oltre alla sicurezza intrinseca della somministrazione della cura, anche la sicurezza dei luoghi nei quali la stessa viene somministrata, consegue necessariamente l’adozione di tutte le precauzioni possibili per evitare che essi incorrano in concreti rischi di contagio.

Esigere che la somministrazione del vaccino al personale sanitario sia condizionata alla manifestazione di un consenso libero ed informato non consentirebbe pertanto di perseguire efficacemente ed in tempi ristretti l’obiettivo di ridurre la diffusività del contagio e di decongestionare il sistema sanitario nazionale.

La previsione di un obbligo vaccinale settoriale e non generalizzato, esteso a tutti gli operatori del settore sanitario, si rivela pertanto coerente con la tutela della salute dei pazienti e con l’affidamento che gli stessi ripongono nella somministrazione delle cure in condizioni di massima sicurezza, proprio negli ambienti sanitari che, secondo l’id quod plerumque accidit, comportano un maggior rischio di trasmissione virale.

La sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportino comunque il rischio di diffusione del contagio non può però coincidere con la sospensione dall’iscrizione all’albo professionale, ancorché la vaccinazione sia stata elevata a <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati>> ( Tar lombardia 109/2022).

L’OBBLIGO VACCINALE NON CONTRASTA CON LA NORMATIVA EUROPEA

I ricorrenti tuti  esercenti le professioni sanitarie od operatori di interesse sanitario,  domandavano, previa sospensione della loro efficacia, l’annullamento degli inviti, comunicati dalle competenti Agenzie di tutela della salute (ATS), a sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria nonché il risarcimento dei danni conseguenti alla lesione delle libertà di autodeterminazione e di esercizio dell’attività lavorativa.

Eccepirono,  in  particolare, il contrasto della norma impositiva dell’obbligo vaccinale con il diritto euro-unitario e convenzionale, in particolare con gli articoli 3 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nonché con il principio di proporzionalità, per cui la stessa, in ossequio al principio di primazia del diritto dell’Unione europea.

Il Collegio ha ritenuto insussistenti i presupposti dell’obbligo di disapplicazione della norma interna confliggente con il diritto euro-unitario, in particolare con l’articolo 3, comma 2, della Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella parte in cui prevede che, nell’ambito della medicina e della biologia, devono essere rispettati <<il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge>>, e con l’articolo 52, comma 2, della stessa, nella parte in cui prevede che le eventuali limitazioni all’integrità fisica e psichica degli individui devono corrispondere effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui, sempre che venga rispettato il contenuto essenziale dei diritti e delle libertà tutelati dalla Carta.

Ai sensi dell’articolo 51 della CDFUE, l’obbligo di promuovere l’applicazione delle disposizioni della Carta è infatti limitato all’attuazione delle competenze dell’Unione, tra le quali non rientra l’intervento sanitario in tema di vaccinazioni obbligatorie, il quale è regolato esclusivamente dalla normativa interna degli Stati membri.

SOSPESA LA DETERMINA ATS CHE SOSPENDE ANCHE LE MANSIONI NON A RISCHIO

Il tema è stato trattato dalla stessa sezione nella sentenza  109/2022, forse più importante ed intrigante per le questioni trattate,  che ha accolto il punto del ricorso che riguardava i limiti della normativa rispetto al diritto al lavoro dando una interpretazione costituzionalmente orientata per definire lo stretto spartiacque tra diritto alla salute collettiva e diritto al lavoro. Tema già trattato dal Tribunale del lavoro di Viterbo (Sole24ore sanità 24/01/2022).

Il Tar ha accolto l’eccezione del sanitario ed  annullato l’atto di accertamento adottato dall’ATS nella parte in cui estende la sospensione dal diritto di svolgere le prestazioni professionali anche a quelle prestazioni che, per loro natura o per le modalità di svolgimento, non implicano contatti interpersonali o non sono rischiose per la diffusione del contagio da Sars-CoV-2.

Un’apertura importante in quanto legittima i datori di lavoro ad utilizzare comunque il sanitario in lavori, magari demansionati o diversi, che possono essere svolti a distanza. Indicazione non da poco se si considera la pressione in cui versa il sistema sanitario dove ogni competenza può essere utile.

Al comma 1 dell’articolo 4, il legislatore ha qualificato la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da Sars-CoV-2 come <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati>>.

Nella direttiva quadro del Consiglio 2000/78/CE del 27 novembre 2000, all’articolo 4, paragrafo 1, è previsto che gli Stati membri, <<per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui viene espletata>> possono stabilire <<un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato>>.

Il Collegio ritiene, pertanto, che l’unica interpretazione della norma che consenta di perseguire il fine primario della tutela precauzionale della salute collettiva e della sicurezza nell’erogazione delle prestazioni sanitarie in una situazione emergenziale, senza comprimere in modo irragionevole – sia pure temporaneamente – l’interesse del sanitario a svolgere un’attività lavorativa, sia quella di limitare, come espressamente enunciato dall’articolo 4, comma 6, gli effetti dell’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale allo svolgimento delle prestazioni e delle mansioni che comportano contatti interpersonali e di quelle che, pur non svolgendosi mediante un contatto interpersonale, comportino un rischio di diffusione del contagio da Sars-CoV-2.

La locuzione <<in qualsiasi altra forma>>, che il legislatore ha utilizzato per colorare il divieto di svolgimento di prestazioni o mansioni diverse da quelle che implicano contatti interpersonali, postula comunque che l’attività lavorativa si risolva in un rischio concreto << di diffusione del contagio da SARS-CoV-2>>. Osserva il Collegio che, nell’ambito delle professioni sanitarie, esistono delle attività, praticabili grazie alla tecnologia sanitaria, che il personale sanitario può svolgere senza necessità di instaurare contatti interpersonali fisici, quali ad esempio l’attività di telemedicina, di consulenza, di formazione e di educazione sanitaria, di consultazione a distanza mediante gli strumenti telematici o telefonici, particolarmente utili per effettuare una prima diagnosi sulla base di referti disponibili nel fascicolo sanitario telematico e per fornire un’immediata e qualificata risposta alla crescente domanda di informazione sanitaria, le quali non potrebbero essere svolte in caso di sospensione dall’esercizio della professione sanitaria.

L’ordinamento ricollega, prosegue la sentenza,  allo svolgimento di attività per le quali è richiesta l’iscrizione in un albo professionale, nell’ipotesi in cui questa sia stata temporaneamente sospesa, conseguenze di notevole rilievo sotto il profilo disciplinare, civile (ai sensi dell’articolo 2231 del codice civile, il contratto stipulato con il professionista che non sia iscritto all’albo è nullo e non conferisce alcuna azione, neppure quella sussidiaria di cui all’articolo 2041 del codice civile, per il pagamento della retribuzione) e penale (la giurisprudenza ritiene che soggetto attivo del delitto di esercizio abusivo della professione, previsto e punito dall’articolo 348 del codice penale, sia anche il professionista sospeso dall’albo).

La sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportino comunque il rischio di diffusione del contagio non può dunque coincidere con la sospensione dall’iscrizione all’albo professionale, ancorché la vaccinazione sia stata elevata a <<requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati>>.

IL DIRITTO DEL PAZIENTE DI SAPERE SE IL SANITARIO NON È VACCINATO

Il Collegio non ignora che un interesse di notevole rilievo, coinvolto nel procedimento disciplinato dall’articolo 4, sia anche quello dei pazienti di essere informati dell’avvenuto adempimento dell’obbligo vaccinale da parte dei professionisti ai quali si rivolgono, specialmente ove la domanda di prestazioni sanitarie avvenga per scelta diretta del professionista e non tramite il filtro dell’accesso ad una struttura sanitaria – pubblica o privata – che si faccia garante delle condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Il diritto dei pazienti ad essere informati è infatti un corollario del diritto alla sicurezza delle cure, che l’articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 2017, n. 24, individua come parte costitutiva del diritto alla salute.

Orbene, se è vero che la sospensione dall’albo professionale è idonea a realizzare la funzione notiziale della inidoneità temporanea del sanitario a svolgere le prestazioni professionali, tale funzione ben può essere garantita mediante specifiche e adeguate forme di pubblicità, la cui individuazione rientra nella competenza degli Ordini professionali.

Saranno in ogni caso demandate all’autonomia ed all’autogoverno dei singoli Ordini professionali, ai quali è riservato in via esclusiva il compito di tenere aggiornato l’albo degli iscritti, sia la predisposizione delle modalità di annotazione dell’atto di accertamento di cui all’articolo 4, comma 6, che l’esercizio della fondamentale funzione di vigilanza sul rispetto della misura interdittiva di natura preventiva.

Resta fermo, tuttavia, che l’esercizio della professione al di fuori degli stretti limiti sopra evidenziati è idoneo ad integrare un comportamento illecito, rilevante a tutti gli effetti di legge.

Continua a leggere...

Sanitario non vaccinato. L’impugnazione della decisione clinica dell’Azienda Sanitaria si propone al giudice ordinario

Tar Veneto Sezione terza 20/01/2022 n. 142

Sull'insussistenza della giurisdizione del g.a. in merito alla controversia inerente l'atto di accertamento dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale emesso da un'azienda sanitaria nei confronti di un esercente la professione sanitaria

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 1456 del 2021, proposto da
-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avv. Mauro Sandri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Azienda Ulss n. -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa
dall’avv. Maria Luisa Miazzi, dall’avv. Chiara Tomiola e dall’avv. Angela Rampazzo, con domicilio eletto presso il loro studio in Padova, Corso Garibaldi, 5;

per l’annullamento, previa sospensiva:

  • dell’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale emesso da AULSS -OMISSIS- in data 15.09.2021 (prot. n. -OMISSIS-), e di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale lesivo degli interessi della parte ricorrente.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Vista la costituzione di Azienda Ulss -OMISSIS-;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 il dott. Paolo Nasini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con ricorso depositato in data 6 dicembre 2021 la ricorrente, biologa nutrizionista libera professionista, ha impugnato gli atti indicati in epigrafe, chiedendone l’annullamento sulla scorta dei seguenti motivi, in sintesi:

  1. violazione dell’art. 4, comma 9, l. n. 76/2021, sotto il profilo del verificarsi della condizione di inefficacia della norma, per esaurimento del c.d. Piano vaccinale;
  2. violazione di legge (in particolare art. 4, comma 5), per mancato rispetto del primo avviso, finalizzato a consentire l’acquisizione della documentazione di esenzione e/o differimento, con conseguente impossibilità di deposito della documentazione di cui all’art. 4, comma 2;
  3. la parte ricorrente presenterebbe una pluralità di gravi patologie e familiarità che necessitano da un lato di ulteriori approfondimenti diagnostici e dall’altra sussisterebbe, comunque, il perfezionamento formale richiesto dall’art. 4, comma 2, attraverso l’attestazione del Medico di Medicina Generale; tale norma, poi, risulterebbe incostituzionale e, comunque, violativa delle normative europee perchè determinerebbe un onere probatorio a carico della parte ricorrente; inoltre, sussisterebbe una grave violazione del principio di precauzione, tenuto conto della ristrettezza dei termini temporali di accertamento di eventuali patologie incompatibili con la vaccinazione;
  4. il medico di medicina generale deve meramente “attestare” il quadro anamnestico alla luce della documentazione prodotta dalla paziente, nessun terzo soggetto avendo la facoltà di accedere alla visione dei referti specialistici stante il necessario rispetto dei principi di tutela assoluta di riservatezza di dati personali sensibile; per il principio di precauzione, non sarebbe legittimo un obbligo vaccinale rispetto ad un vaccino non sperimentato in ordine alle interazioni con patologie come quelle di cui sarebbe portatrice parte ricorrente, non “testate” dai produttori del vaccino medesimo; le patologie sofferte dalla parte ricorrente si porrebbero quali limite della prevalenza della salute pubblica rispetto a quella individuale;
  5. secondo parte ricorrente la possibilità di limitare l’esercizio della professione per motivi estranei all’idoneità conseguita, nonché avulsi dal concreto riferimento allo svolgimento dell’attività, deve ritenersi illegittima se non preceduta dal vaglio dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, con conseguente violazione del diritto unionale;
  6. il provvedimento impugnato, così come la disciplina normativa “a monte”, si fonda sull’equivoco che i vaccini non sono stati testati in relazione alla loro capacità di prevenire il contagio, non sussistendo alcuna certezza in relazione al fatto che i vaccinati si possano infettare (secondo le case produttrici: in modo asintomatico) e contagiare altre persone, mentre le norme in materia di autorizzazioni e di utilizzo di farmaci impongono che ciascuno di essi debba essere utilizzato per la specifica finalità per cui è stato sperimentato ed autorizzato, e che non possa essere utilizzato al di fuori di questo perimetro;
  7. violazione, da parte dell’art. 4, l. n.76 del 2021, dell’art. 32 Cost. e del principio di precauzione ex art. 191 tfue, in quanto i vaccini non sarebbero in grado di tutelare la salute pubblica e di raggiungere gli obiettivi dichiarati dalla L. 76/2021;
  8. l’art. 4, D.L. n. 44/2021, come convertito da l. 76/2021, nell’imporre l’obbligo vaccinale ai sanitari si porrebbe in illegittimo contrasto con fonti superiori di origine europea e internazionale che devono trovare immediata applicazione nel diritto interno;
  9. violazione dell’art. 117 Cost. sotto il profilo della contrarietà alla normativa dell’unione europea e al Regolamento (UE) n. 2021/953 del 14 giugno 2021;
  10. violazione dell’art. 3 Cost. e violazione dell’art. 191 tfue: illegittima disparità di trattamento nel diritto al lavoro tra la parte ricorrente e gli altri sanitari europei nonché gli altri cittadini italiani non giustificata da alcuna esigenza di tutela della sanità pubblica;

Si è costituita in giudizio l’Ulss -OMISSIS- contestando l’ammissibilità e fondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.

All’esito dell’udienza del 12 gennaio 2022 la causa è stata trattenuta in decisione e viene decisa in forma semplificata sussistendone i presupposti.

  1. In via pregiudiziale: in punto giurisdizione.

Il Collegio, all’udienza che precede, ha rilevato d’ufficio un profilo di possibile difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo in relazione alla controversia oggetto causa, e, in via generale, in ordine alle controversie derivanti dall’applicazione dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, mod. da l. 28 maggio 2021, n. 76.

1.1. In termini generali, si rammenta che, in forza del combinato disposto degli artt. 24, 103, 113 Cost. e 7 c.p.a., il criterio generale di riparto della giurisdizione è fondato sulla natura della situazione giuridica dedotta (c.d. causa petendi o petitum sostanziale), il Giudice amministrativo potendo essere adito esclusivamente laddove la posizione giuridica fatta valere in giudizio sia qualificabile in termini di interesse legittimo (c.d. giurisdizione di legittimità), salvi i casi, specificamente previsti dalla legge, nei quali, essendo stabilita la giurisdizione esclusiva del G.A., quest’ultimo possa anche eccezionalmente conoscere di situazioni di diritto soggettivo.

Tanto la giurisdizione di legittimità, quanto anche la giurisdizione esclusiva, d’altronde, presuppongono che nell’agire della Pubblica Amministrazione – che nei casi di giurisdizione esclusiva comprende anche “i comportamenti” – vi sia sempre un collegamento, più o meno stringente, con un potere pubblico esercitato dalla Pubblica Amministrazione (si veda in tal senso, Corte Cost., 06 luglio 2004, n. 204 e, poi, Corte Cost. 11 maggio 2006, n. 191; id., 27 aprile 2007, n. 140).

In tal senso, l’art. 7, comma 1, c.p.a. indica, quale criterio di corretta individuazione delle controversie che ricadono nella giurisdizione generale del g.a., l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo che si manifesta attraverso provvedimenti, atti o omissioni.

L’agire della P.a., cioè, deve assumere un carattere autoritativo, l’Amministrazione esercitando il potere di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del privato, ancorché siano ammessi, ma solo in via sostitutiva, modificativa e integrativa, moduli convenzionali ex art. 11, l. n. 241 del 1990.

L’art. 7, comma 3, c.p.a., prevede, come detto, la giurisdizione esclusiva anche in relazione ai comportamenti, purché, però, abbiano un collegamento anche solo mediato con il potere pubblico.

Quindi, in ogni caso, deve sussistere un collegamento tra il comportamento della P.a. e una manifestazione autoritativa pubblica, in mancanza non potendo configurarsi nemmeno la giurisdizione esclusiva.

Il comma 1 bis, l. n. 241 del 1990, significativamente, prevede che <>: possono, infatti, sussistere atti, cioè manifestazioni anche di volontà dell’Amministrazione, non a carattere provvedimentale e, comunque, non costituenti esercizio di potere autoritativo.

Si tratta di atti che si possono porre al di fuori della giurisdizione del g.a., nonostante siano, comunque, necessariamente funzionalizzati al perseguimento di interessi pubblici, in conformità all’art. 97 Cost.

Affinché, quindi, possa configurarsi una situazione di interesse legittimo, in relazione alla tutela tanto di un interesse pretensivo quanto oppositivo, è necessaria l’interposizione di un potere autoritativo della Pubblica Amministrazione.

Deve essere configurabile una situazione giuridica di preminenza, dispositiva della sfera giuridica del privato, che si manifesta, quindi, come una vera situazione giuridica attiva cui corrisponde la diversa situazione giuridica, anch’essa attiva, del privato titolare dell’interesse legittimo (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7).

Per contro, ogni qual volta l’ordinamento, pur approntando una disciplina orientata alla tutela di uno o più interessi pubblici, non attribuisce concretamente alla P.a. un potere-dovere nel senso sopra esposto tale da conformare in via immediata e diretta la sfera giuridica del privato, non può configurarsi nemmeno correlativamente la giurisdizione del Giudice amministrativo.

A tale riguardo, con riferimento all’attività di certificazione medica, è rilevante rammentare come tanto la disciplina dell’art. 41, d.lgs. 81 del 2008, quanto quella di cui all’art. 55 octies, d.lgs. n. 165 del 2001, prevedono l’adozione da parte dei medici competenti di atti certificativi che, pur essendo finalizzati a tutelare interessi anche pubblici come quello della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro (non solo cioè a beneficio del singolo lavoratore eventualmente inidoneo alla prestazione lavorativa), assumono specifica rilevanza nell’ambito del singolo rapporto lavorativo e non solo non hanno forza vincolante per il giudice di merito (in tal senso si vedano Cass. civ., sez. lav., 10 ottobre 2013, n. 23068; id., 02 agosto 2018, n. 20468), ma, a monte, non costituiscono manifestazione di potere autoritativo, così come non assumono autonoma rilevanza, dovendo formare oggetto di contestazione, avanti al Giudice ordinario, unitamente all’eventuale provvedimento adottato dal datore di lavoro.

1.2. L’art. 4, comma 1, d.l. 1 aprile 2021, n. 44, conv . con mod. da l. 28 maggio 2021, n. 76, ha introdotto l’obbligo vaccinale per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, l. 1 febbraio 2006, n. 43: questi ultimi in

Sebbene l’imposizione dell’obbligo vaccinale nei confronti dei sanitari sia dichiaratamente strumentale alla soddisfazione di due interessi pubblici, quello alla tutela della salute collettiva, da un lato, e quello al mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza nell’esercizio delle prestazioni “sanitarie” (che contemplano cura e assistenza), dall’altro, il legislatore non ha inteso declinare le conseguenze di tale imposizione mediante la previsione di “sanzioni” (amministrative, disciplinari, penali) con attribuzione del relativo potere autoritativo di irrogazione in capo ad un’Amministrazione pubblica (anche, eventualmente, sanitaria), ma ha orientato tutta la disciplina correlata all’adempimento del suddetto obbligo in funzione della possibilità, per il professionista o l’operatore sanitario, di svolgere la sua attività lavorativa, sia essa autonoma o subordinata.

Lo stesso comma 1, infatti, prosegue precisando che la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati.

In questo senso, quindi, pur avendo l’obbligo vaccinale la sua genesi in una finalità spiccatamente di interesse pubblico, l’intera disciplina approntata dal legislatore con l’art. 4 in esame, si rivolge al lato strettamente “privatistico – lavorativo” dell’idoneità dell’operatore sanitario, in quanto lavoratore, sia esso autonomo o subordinato, di svolgere l’attività sanitaria.

La vaccinazione, cioè, viene ad essere declinata, dai commi 2 e seguenti, quale requisito imprescindibile per svolgere l’attività professionale, che deve sussistere inizialmente, ai fini dell’iscrizione nell’albo e deve permanere nel tempo pena la sospensione della professione, conseguenza quest’ultima ex lege, non intermediata dall’esercizio di un potere autoritativo dell’Amministrazione sanitaria.

In questo modo, il legislatore ha sostanzialmente introdotto una fattispecie ex lege di inidoneità del “lavoratore della sanità” incidendo, quindi, a monte e senza l’intermediazione dell’esercizio di potere da parte di alcuna Pubblica Amministrazione, sullo “statuto lavorativo” del sanitario conformando alla tutela dell’interesse pubblico il diritto allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Non solo, ma è lo stesso legislatore che, conformata negativamente la sfera giuridica del sanitario con l’obbligo vaccinale, operando un bilanciamento tra i contrapposti interessi, ha previsto al comma 2 gli unici casi nei quali è possibile differire o omettere il vaccino senza incorrere nell’inadempimento all’obbligo e, quindi, all’inidoneità lavorativa tout court: in particolare, si tratta dell’accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale.

Più avanti verrà approfondita la specifica problematica che, in punto giurisdizione, può condurre la previsione in esame in uno con quelle successive relative ai compiti attribuiti alle Aziende Sanitarie.

1.3 Coerentemente a quanto sopra esposto, quindi, il legislatore ha “tratteggiato” l’intera disciplina successiva ai commi 1 e 2, proprio ed esclusivamente in relazione al profilo “privatistico-lavorativo” dell’idoneità del sanitario allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Viene, infatti, descritta una serie di atti e termini, peraltro non particolarmente complessa, tutta finalizzata, da un lato e in prima battuta, a consentire al sanitario l’adempimento all’obbligo, così assolvendo all’onere di munirsi della speciale idoneità all’esercizio della prestazione lavorativa, dall’altro lato e in seconda battuta, a far emergere con una apposita “fotografia” della situazione di fatto, l’eventuale inadempimento del sanitario all’obbligo medesimo.

In particolare, nella prima fase:

  • in via preparatoria, entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, è stato imposto, da un lato, a ciascun Ordine professionale territoriale competente di trasmettere l’elenco degli iscritti, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma in cui ha sede; dall’altro lato, ai datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali, di trasmettere l’elenco dei propri dipendenti con tale qualifica, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio operano i medesimi dipendenti;
  • sempre in via preparatoria, entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi predetti, le regioni e le province autonome, per il tramite dei servizi informativi vaccinali, verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi; quando dai sistemi informativi vaccinali a disposizione della regione e della provincia autonoma non risulta l’effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell’ambito della campagna vaccinale in atto, la regione o la provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all’azienda sanitaria locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati;
  • quindi, ricevuta la segnalazione di cui al comma 4, l’azienda sanitaria locale di residenza si limita ad invitare l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell’invito, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione (perché potrebbe avervi già provveduto autonomamente) o l’omissione o il differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1;
  • in caso di mancata presentazione della documentazione di cui al primo periodo, l’azienda sanitaria locale, successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo di cui al comma 1;
  • in caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’azienda sanitaria locale invita l’interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.

Nella seconda fase, invece, il comma 6, prima parte, prevede che, decorsi i termini sopra detti per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale, l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza.

La seconda parte del comma 6, precisa che l’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Quindi, con l’adozione dell’atto di accertamento e la notizia dello stesso data ai soggetti sopra ricordati, terminano i compiti ascritti alle Aziende sanitarie.

A fronte dell’effetto sospensivo previsto dal legislatore, da un lato, viene imposto all’Ordine professionale di appartenenza esclusivamente l’obbligo di comunicazione dello stesso all’interessato (così il comma 7); dall’altro lato, ricevuta la comunicazione di cui al comma 6, il datore di lavoro (sia esso pubblico che privato), avendo specifici poteri organizzativi e di gestione del lavoro e, quindi, delle mansioni dei singoli lavoratori, viene obbligato, ove possibile, ad adibire il sanitario sospeso a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.

Pur operando la sospensione immediatamente e ipso iure, in conseguenza dell’inadempimento all’obbligo e, quindi, al verificarsi dell’inidoneità certificata dall’Amministrazione sanitaria, (non avendo il datore di lavoro alcun potere in ordine all’adozione di tale misura, a differenza di quanto previsto dagli artt. 41, d.lgs. n. 81 del 2008 e 55 octies, d.lgs. n. 165 del 2001), il datore di lavoro è comunque chiamato a cercare di “superare” tale effetto attraverso l’assegnazione a mansioni diverse non “pericolose”, soluzione che, quando non è possibile, comporta che per il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione, né altro compenso o emolumento, comunque denominato.

Dalla lettura del comma 9 della disposizione si comprende che, come si preciserà anche nel prosieguo, la sospensione quale conseguenza dell’inadempimento all’obbligo vaccinale non è una sanzione, ma è semplicemente l’inevitabile effetto dell’impossibilità temporanea all’esecuzione della prestazione lavorativa, derivante dal verificarsi di un’ipotesi di inidoneità lavorativa parimenti temporanea: la sospensione di cui al comma 6, infatti, mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021.

Vanno sottolineate, infine, anche le previsioni di cui ai commi 10 e 11.

Il comma 10, per i sanitari “dipendenti”, infatti, prevede che, salvo in ogni caso il disposto dell’art. 26, commi 2 e 2 bis, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv., con mod., da l. 24 aprile 2020, n. 27, per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Il comma 11, per i lavoratori autonomi, stabilisce che per il medesimo periodo di cui al comma 10, al fine di contenere il rischio di contagio, nell’esercizio dell’attività libero-professionale, i soggetti di cui al comma 2 adottano le misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

1.4. Da quanto precede, emerge chiaramente, come accennato, che la previsione della sospensione, quale conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, non è stata strutturata dal legislatore in termini di “sanzione” (amministrativa, penale, disciplinare; pecuniaria o personale), ma esclusivamente in termini di inidoneità temporanea alla prestazione lavorativa, categoria tipicamente riconducibile alle fattispecie tanto del lavoro privato (art. 41, d.lgs. n. 81 del 2008) che del pubblico impiego (art. 55 octies, d.lgs. n. 165 del 2001), e che, nella specie, viene valorizzata dal legislatore anche, in termini più generali, ai fini del corretto esercizio della professione regolamentata in albi.

Coerentemente, infatti, il legislatore si rivolge al datore di lavoro precisando che egli ha l’obbligo, ove possibile, di assegnare il sanitario a diverse mansioni non inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, comunque, con forme che non comportino rischi di diffusione del contagio da Sars – CoV-2, quindi, non implichino contatti interpersonali o facciano sorgere, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Risulta evidente, quindi, l’intento del legislatore nel disciplinare un’ipotesi di sospensione obbligatoria preventivamente determinata ex lege: “sottrarre” il potere discrezionale di sospensione al datore di lavoro e agli ordini professionali di riferimento, senza, al contempo attribuire ad alcun altro soggetto, né pubblico, né privato, tale potere, in modo da rendere certa, effettiva e uguale per tutti, l’impossibilità per il sanitario non vaccinato di svolgere l’attività, essendo inidoneo, sia pure temporaneamente, allo svolgimento dell’attività lavorativa.

La sospensione non è intermediata da alcun provvedimento irrogativo da parte di soggetto privato o pubblico (sull’atto di accertamento dell’Amministrazione sanitaria, infatti, si dirà a breve), tanto che lo stesso legislatore si è limitato a prevedere in via automatica la cessazione della predetta misura cautelare nel caso di ottemperanza dell’obbligo vaccinale, senza la previsione di un “contrarius actus” anche solo in termini di “revoca”.

Poiché, d’altronde, non si tratta di una sanzione, ma di una necessaria conseguenza legata all’inidoneità del sanitario allo svolgimento della prestazione lavorativa del sanitario, il legislatore, come visto, non ha potuto, né voluto, esautorare del tutto i datori di lavori.

La sospensione, quindi, non appartiene alla sfera del diritto pubblico, ma assume anch’essa – così come la declinazione dell’obbligo vaccinale in funzione di idoneità alla prestazione lavorativa – un rilievo, in via diretta, strettamente privatistico perché incide direttamente sul rapporto di lavoro o sullo svolgimento della prestazione lavorativa autonoma, quale effetto della sopravvenuta impossibilità temporanea per inidoneità a svolgere l’attività sanitaria; ciò, si ripete, nonostante che la finalità ultima, ma mediata, del legislatore sia quella di tutela della salute pubblica.

1.5. Quanto precede consente di meglio definire la questione pregiudiziale di giurisdizione.

In primo luogo, deve escludersi che, con riferimento alle contestazioni e censure conseguenti all’applicazione dell’art. 4 in esame, si verta in una delle fattispecie di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133 c.p.a.

In particolare, non sussistono i presupposti per affermare la sussunzione della tipologia di azioni esperibili nelle ipotesi relativa a controversie inerenti “servizi pubblici”.

La fattispecie disciplinata dall’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, infatti, pur avendo certamente un riflesso mediato sul corretto ed efficiente espletamento del servizio pubblico sanitario, riflesso discendente dal fatto che, a monte, l’obbligo vaccinale è stato giustificato proprio per consentire tale funzionalità, in realtà è strettamente correlata e finalizzata, in via immediata, alla conformazione del rapporto di lavoro ovvero dello statuto della prestazione professionale, venendo, quindi, in gioco, il diritto del sanitario all’esercizio della prestazione lavorativa, e mediatamente, il diritto dello stesso, eventualmente, a non vaccinarsi.

La causa petendi, quindi, in nessun caso, può inerire, in via diretta, il servizio pubblico sanitario in sé considerato.

Non vengono in gioco, infatti, diritti sociali o il diritto ad ottenere una determinata prestazione del servizio sanitario o, comunque, un provvedimento amministrativo inerente specificamente l’espletamento verso l’utenza di tale servizio e nemmeno un atto di organizzazione generale dello stesso, ma solo atti ed istituti che si inseriscono nell’ambito di singoli e specifici rapporti di lavoro o di singole prestazioni di lavoro autonomo.

1.6. Posto che, pertanto, si verte in un’ipotesi di giurisdizione di legittimità, occorre approfondire il ruolo attribuito dal legislatore all’Amministrazione sanitaria (le Aziende sanitarie incaricate).

Come emerge chiaramente dal dettato normativo, il legislatore ha conformato “a monte” (con l’obbligo vaccinale) e “a valle” (con la sospensione), la sfera giuridica del sanitario-lavoratore/professionista, al contempo incidendo sulla sfera decisionale tanto dei datori di lavoro (parzialmente) quanto degli ordini professionali: per altro verso, per garantire il necessario raccordo tra gli “ordinari” “strumenti” previsti dall’ordinamento per la verifica delle idoneità lavorative nell’ambito del lavoro subordinato privato e nel pubblico impiego (attraverso i c.d. medici del lavoro) e lo svolgimento del c.d. piano vaccinale, ha inteso, attribuire all’Amministrazione sanitaria (l’Azienda sanitaria locale di residenza dei sanitari) il doppio compito, materiale, da un lato, di attuazione dell’obbligo vaccinale, e, dall’altro, quello esclusivamente ricognitivo dell’inadempimento all’obbligo medesimo, e, quindi, dell’inidoneità allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Il legislatore, sotto il secondo dei due profili appena indicati, ha in sostanza attribuito all’Amministrazione sanitaria quegli stessi compiti normalmente previsti per il medico del lavoro, solo limitati al caso particolare dell’inadempimento vaccinale e non solo in funzione dei lavoratori subordinati, ma anche dei professionisti lavoratori autonomi del settore sanitario: il fatto che un tale incombente sia stato attribuito all’Azienda sanitaria deve ritenersi esclusivamente giustificato dal fatto, come detto, che si tratta di Ente già preposto in via autonoma e a prescindere dalla fattispecie in esame, all’attuazione del c.d. piano vaccinale, come ricordato dallo stesso comma 1 dell’art. 4, ma che, ai fini dell’accertamento dell’inadempimento, rileva solo come organo tecnico ausiliario e strumentale per l’espletamento di attività ricognitiva, strettamente funzionale al corretto svolgimento del rapporto lavorativo e della prestazione d’opera.

1.7. Con riferimento all’obbligo vaccinale, il legislatore ha conformato “negativamente” la sfera giuridica del privato ponendo a carico dello stesso una situazione passiva senza per contro attribuire alcun potere conformativo all’Amministrazione sanitaria, che non può modificare o, comunque, incidere sulla titolarità di tale obbligo.

Nessun potere è riconoscibile, quindi, in capo alle Aziende sanitarie, perché esse non possono né obbligare il sanitario a vaccinarsi, (essendo obbligato ex lege, “a monte”), né adottano specifici provvedimenti di esonero o differimento (l’operatore sanitario, infatti, non deve richiedere l’intermediazione delle Aziende sanitarie per ottenere l’esonero o il differimento), il legislatore avendo solo assegnato ad esse il compito di verificare che vi sia un certificato del medico di base che riconosca i presupposti per il differimento o l’esonero dal vaccino e – qualora si ritenga che la normativa attribuisca all’Amministrazione sanitaria tale facoltà – che tale valutazione sia corretta o, comunque, che sussistano in capo al sanitario le condizioni medicalmente accertabili contrarie alla vaccinazione, sia pure solo immediata.

Alle Aziende sanitarie, quindi, non è riconosciuto alcun potere autoritativo, sia esso vincolato o discrezionale, idoneo a disporre della situazione giuridica del privato incidendola unilateralmente.

Parimenti, l’Azienda sanitaria non può nemmeno incidere sulle conseguenze a valle, in parte strettamente predeterminate dalla legge (la sospensione) senza che vi sia un puntuale atto impositivo, in parte demandate, significativamente, ad altro soggetto (il datore di lavoro).

Anche il ruolo degli Ordini è meramente ausiliario e informativo: prima, infatti, devono trasmettere alla Regione o alla Provincia autonoma in cui ha sede, l’elenco integrale di tutti gli iscritti; successivamente ricevono, unitamente al sanitario interessato e al datore di lavoro, dalle Aziende sanitarie la comunicazione scritta dell’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale; infine, devono comunicare all’interessato la sospensione conseguente all’inadempimento così come accertato.

La sospensione non è disposta dagli ordini, così come non è disposta dall’Amministrazione sanitaria, ma è una conseguenza dell’inadempimento meramente “fotografato” da quest’ultima mediante l’atto di accertamento, che gli Ordini si limitano a comunicare al professionista, cioè è un mero obbligo informativo, previa presa d’atto e senza alcuna valutazione di merito, riportando l’annotazione relativa all’albo.

L’atto dell’Amministrazione sanitaria, quindi, non ha alcun effetto dispositivo: l’impiego nel testo dell’art. 4 del verbo “determina”, associato all’accertamento, non va inteso nel senso che la sospensione sia un effetto dell’atto medesimo, ma nel senso che essa è la conseguenza dell’inadempimento e, quindi, dell’inidoneità temporanea all’esercizio della prestazione – che preesiste, ma viene – certificata dall’atto di accertamento, così come il medico del lavoro certifica l’inidoneità allo svolgimento della prestazione lavorativa da parte del singolo lavoratore.

1.8. Appurato che, per le ragioni sopra viste, non risulta essere stato attribuito alcun potere autoritativo all’Amministrazione sanitaria, va esaminata, specularmente. la posizione giuridica azionata in giudizio dal sanitario che si ritiene leso dall’applicazione dell’art. 4.

Al riguardo, va premesso che tutte le possibili contestazioni sollevabili dal sanitario in relazione all’applicazione della suddetta norma, anche quando concernono il profilo più “a monte” dell’asserita incostituzionalità dell’obbligo vaccinale per la ritenuta lesione di uno o più diritti costituzionalmente tutelati – in particolare il diritto alla salute – coinvolgono una fattispecie che, come detto, concerne precipuamente il profilo relativo al diritto allo svolgimento della prestazione lavorativa in quanto finalizzata a garantire che il lavoratore sanitario soddisfi una determinata condizione di idoneità lavorativa.

In ogni caso, elemento comune a tutte le ipotesi di contestazione che possono discendere dall’attuazione della disposizione in esame, è il fatto che, come detto, rispetto alle situazioni giuridiche che il sanitario assume o può assumere essere lese, all’Azienda sanitaria non è stato attribuito alcun potere pubblico autoritativo o comunque dispositivo delle situazioni giuridiche medesime, di modo da poter giustificare la giurisdizione del Giudice Amministrativo.

Ne consegue, che rispetto all’atto di accertamento dell’Azienda sanitaria la situazione giuridica del sanitario non è qualificabile in termini di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo.

La contestazione dell’accertamento di inadempimento, in tal senso, non si risolve nell’impugnativa di un provvedimento o atto amministrativo costituente esercizio di potere, ma nella richiesta di verificare l’effettiva situazione di fatto e diritto sottostante al fine di escludere l’effetto sospensivo ovvero l’insussistenza o la non coercibilità dell’obbligo vaccinale.

In tal senso, quindi, anche con riferimento alle ipotesi in cui l’azione giudiziale venga strutturata nel senso di introdurre anche solo alcuni tra i motivi di ricorso concernenti l’asserita incostituzionalità della previsione di un obbligo vaccinale, per ritenuto contrasto con diritti fondamentali quali il diritto alla salute, non occorre accedere alle categorie, dottrinali e giurisprudenziali, non sempre lineari e oggetto di critica, dei diritti fondamentali “inaffevolibili”, ai fini del riparto di giurisdizione, perché nel caso di specie, a monte, deve ritenersi esclusa in ogni caso, la configurabilità di un potere autoritativo, a prescindere dalla natura fondamentale o meno del diritto fatto valere.

1.9. Quanto precede, quindi, porta inevitabilmente a declinare la giurisdizione del Giudice amministrativo.

In senso contrario, non può essere valorizzato il fatto che l’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, preveda una serie di atti e termini da rispettare: più precisamente, non può ritenersi né che la sequenza più sopra ricordata sia necessariamente qualificabile in termini di procedimento amministrativo, nè che, comunque, il semplice rispetto di una “procedura” da parte dell’Amministrazione costituisca elemento di per sé dirimente per ritenere sussistente l’attribuzione di potere pubblico e, comunque, la giurisdizione del Giudice amministrativo.

In primo luogo, dall’esame dell’art. 4 emerge come quanto previsto dal legislatore sia una mera scansione procedurale funzionale e necessaria affinché il sanitario adempia l’obbligo vaccinale ed eventualmente, in caso di non giustificato inadempimento al suddetto obbligo, questo possa essere certificato unitamente alla correlata inidoneità allo svolgimento della prestazione lavorativa.

In secondo luogo, il rispetto da parte della P.a. di una procedura (intesa quale sequenza di atti e termini) non comporta automaticamente la qualificazione in termini di “procedimento amministrativo” ai sensi della l. n. 241 del 1990 (tanto più che la disposizione non reca alcun rinvio né esplicito, né implicito alla suddetta normativa), e, comunque, non implica necessariamente la giurisdizione del Giudice amministrativo, come comprovato dal fatto che vi sono fattispecie procedimentalizzate e, nonostante questo, sottoposte alla giurisdizione del giudice ordinario (come nel caso delle sanzioni amministrative conseguenti a violazioni del codice della strada, ai sensi degli artt. 203 e 204 D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285).

Più in generale, il procedimento amministrativo può costituire la manifestazione sensibile della funzione, cioè la forma esterna del potere colta nel suo momento dinamico, in tal senso non potendo incidere sul riparto di giurisdizione, in quanto presuppone l’esercizio del potere, ma non ne dimostra necessariamente la sussistenza.

1.10. Non possono, poi, ricavarsi elementi a favore della giurisdizione amministrativa nel fatto che, secondo un’interpretazione dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, sarebbe demandato all’Azienda sanitaria, in via eventuale, non solo il compito di verificare che il sanitario abbia presentato i certificati previsti dalla suddetta norma, ma che quanto certificato dal medico di medicina generale sia corretto, o comunque che sussistano, nei fatti, i presupposti per l’applicazione del differimento o dell’esonero di cui al comma 2.

In termini generali, qualora non vengano presentati dei certificati medici ai sensi dell’art. 4, o non vengano sollevate questioni in ordine alla non applicabilità dell’obbligo vaccinale, il compito dell’Amministrazione si limita ad un accertamento di un dato di fatto, cioè una semplice attività di certazione, che in nessun modo implica, non solo l’esercizio di un potere decisionale, ma nemmeno valutativo, trattandosi di atto meramente ricognitivo, e come tale inidoneo a radicare la giurisdizione del Giudice amministrativo (si veda, ancorché in fattispecie differente da quella in esame, Cass., sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5825).

Laddove, d’altronde, tali certificati siano presentati o comunque siano indicate circostanze ai fini della giustificazione dell’esonero o del differimento e si ritenga che la disposizione normativa in questione attribuisca all’Amministrazione il compito di esaminarli e valutarne la correttezza tecnica, quest’attività valutativa sarebbe comunque qualificabile esclusivamente come atto di verifica sanitaria, con effetti meramente certativi, similmente all’attività di accertamento del medico del lavoro, della Commissione medica, o dello Spisal.

Come sottolineato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione anche recentemente (con sentenza 15 gennaio 2021, n. 618, in relazione al giudizio della Commissione medica dello Spisal in merito all’idoneità fisica di una lavoratrice allo svolgimento dei servizi di guardia notturni e festivi e di reperibilità), tale valutazione è qualificabile in termini di mero atto di verifica sanitaria, sicché non si pone nemmeno un problema di disapplicazione dell’atto amministrativo, ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 1, ma solo la diversa questione della sua efficacia vincolante e dei limiti del controllo in sede giurisdizionale, in ordine al quale, significativamente, la stessa Corte ha precisato che il giudizio della Commissione medica deve ritenersi sindacabile da parte del giudice ordinario del lavoro adito per l’accertamento della illegittimità del licenziamento avendo egli, anche in riferimento ai principi costituzionali di tutela processuale il potere-dovere di controllare l’attendibilità degli accertamenti sanitari effettuati dalle citate Commissioni (Cass. sez. lav. 16 gennaio 2020 n. 822, Cass. sez. lav. 4 settembre 2018, n. 21620, Cass. sez. lav. 25 luglio 2011, n. 16195, Cass. sez. lav. 8 febbraio 2008 n. 3095, Cass. sez. lav.20 maggio 2002, n. 7311).

Peraltro, la Corte di Cassazione, sia pure in fattispecie diverse da quelle in esame, ha avuto modo di sottolineare come non possa riconoscersi la giurisdizione del Giudice amministrativo qualora l’Amministrazione non sia chiamata dal legislatore a esercitare poteri discrezionali, ma a verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti normativamente previsti nello svolgimento di un’attività vincolata, di carattere meramente ricognitivo, della cui natura partecipa anche il giudizio tecnico (Cass., sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5825)

Quindi, l’attività rimessa all’Amministrazione sanitaria è una mera attività ricognitivo-certificativa, l’atto della P.a. essendo esclusivamente dichiarativo e rigidamente connesso a presupposti o di mero fatto (l’avere o no effettuato in concreto il vaccino nella data stabilita) o, al massimo, ad una stretta valutazione medica.

Si tratta, quindi, di un atto che in nulla conforma direttamente la situazione giuridica dell’operatore sanitario, il quale, come detto, è “stretto” da due determinazioni legislative a monte (l’imposizione dell’obbligo di vaccinarsi) e a valle (la sospensione, che non è imposta né dichiarata dall’Amministrazione, ma è prevista dalla legge come conseguenza ex lege), senza che, quindi, in alcun modo sia evincibile dal dettato normativo la previsione di una manifestazione unilaterale impositiva e direttamente produttiva di effetti giuridici conformativi da parte dell’Amministrazione sanitaria.

Peraltro, la discrezionalità tecnica non comporta di per sé l’esercizio di un potere amministrativo autoritativo, ma, al pari dell’accertamento tecnico, soprattutto nel caso di specie, si concreta nell’esame di un fatto, ancorché più complesso.

La Corte di Cassazione, in tal senso, sia pure con riferimento ad altra tipologia di controversie, ha sottolineato che <> (Cass., sez. un., 23 ottobre 2014, n. 22550).

Peraltro, se, in via interpretativa, si volesse riconoscere una discrezionalità tecnica in capo all’Amministrazione sanitaria, allora si dovrebbe concludere che, a fronte di una mera valutazione medica, l’effettiva o meno sussistenza dei presupposti per l’esonero o il differimento dell’obbligo vaccinale dovrebbe essere accertabile mediante CTU; diversamente (ove si sostenesse l’insindacabilità, nel merito, delle conclusioni dell’Amministrazione sanitaria) si determinerebbe un grave vulnus non solo in via immediata e processuale al diritto di difesa in giudizio, ma, in via mediata e sostanziale, al diritto alla salute del sanitario, sul quale si fondano le deduzioni e contestazioni oggetto del presente giudizio.

1.11 Anche sotto il profilo della tutela effettiva in favore del sanitario deve ritenersi che nessun pregiudizio ne può derivare in caso di devoluzione delle controversie alla Giurisdizione ordinaria, potendo il sanitario agire convenendo in giudizio il datore di lavoro e/o l’ordine di appartenenza al fine di far accertare il suo diritto a svolgere l’attività lavorativa, previa dimostrazione dell’insussistenza dell’inadempimento (eventualmente anche contestando la conformità costituzionale dell’obbligo vaccinale), nonché l’Amministrazione sanitaria, a titolo risarcitorio, per i danni eventualmente subiti in caso di errata certificazione dell’inadempimento e, quindi, dell’inidoneità all’esercizio della prestazione lavorativa.

1.12. Infine, occorre sottolineare come quanto fin qui esposto trovi piena conferma nella recente modifica operata dal legislatore all’art. 4 in esame.

Infatti, l’art. 1, comma 1, lett. b), d.l. 26 novembre 2021, n. 172, ha così novellato la norma:

  1. Al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, in attuazione del piano di cui all’articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita, comprensiva, a far data dal 15 dicembre 2021, della somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, nel rispetto delle indicazioni e dei termini previsti con circolare del Ministero della salute. La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati. La vaccinazione è somministrata altresì nel rispetto delle indicazioni fornite dalle regioni e dalle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità alle previsioni contenute nel piano di cui al primo periodo.
  2. Solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2, non sussiste l’obbligo di cui al comma 1 e la vaccinazione può essere omessa o differita.
  3. Gli Ordini degli esercenti le professioni sanitarie, per il tramite delle rispettive Federazioni nazionali, che a tal fine operano in qualità di responsabili del trattamento dei dati personali, avvalendosi della Piattaforma nazionale digital green certificate (Piattaforma nazionale-DGC) eseguono immediatamente la verifica automatizzata del possesso delle certificazioni verdi COVID-19 comprovanti lo stato di avvenuta vaccinazione anti SARS-CoV-2, secondo le modalità definite con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 9, comma 10, del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87. Qualora dalla Piattaforma nazionale-DGC non risulti l’effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2, anche con riferimento alla dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, nelle modalità stabilite nella circolare di cui al comma 1, l’Ordine professionale territorialmente competente invita l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione della richiesta, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione oppure l’attestazione relativa all’omissione o al differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione, da eseguirsi entro un termine non superiore a venti giorni dalla ricezione dell’invito, o comunque l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1. In caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’Ordine invita l’interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.
  4. Decorsi i termini di cui al comma 3, qualora l’Ordine professionale accerti il mancato adempimento dell’obbligo vaccinale, anche con riguardo alla dose di richiamo, ne dà comunicazione alle Federazioni nazionali competenti e, per il personale che abbia un rapporto di lavoro dipendente, anche al datore di lavoro.

L’inosservanza degli obblighi di comunicazione di cui al primo periodo da parte degli Ordini professionali verso le Federazioni nazionali rileva ai fini e per gli effetti dell’articolo 4 del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233. L’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale è adottato da parte dell’Ordine territoriale competente, all’esito delle verifiche di cui al comma 3, ha natura dichiarativa, non disciplinare, determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie ed è annotato nel relativo Albo professionale.

  1. La sospensione di cui al comma 4 è efficace fino alla comunicazione da parte dell’interessato all’Ordine territoriale competente e, per il personale che abbia un rapporto di lavoro dipendente, anche al datore di lavoro, del completamento del ciclo vaccinale primario e, per i professionisti che hanno completato il ciclo vaccinale primario, della somministrazione della dose di richiamo e comunque non oltre il termine di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021. Per il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato. Il datore di lavoro verifica l’ottemperanza alla sospensione disposta ai sensi del comma 4 e, in caso di omessa verifica, si applicano le sanzioni di cui all’articolo 4-ter, comma 6.
  2. Per i professionisti sanitari che si iscrivono per la prima volta agli albi degli Ordini professionali territoriali l’adempimento dell’obbligo vaccinale è requisito ai fini dell’iscrizione fino alla scadenza del termine di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021.
  3. Per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
  4. Per il medesimo periodo di cui al comma 7, al fine di contenere il rischio di contagio, nell’esercizio dell’attività libero-professionale, i soggetti di cui al comma 2 adottano le misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali, entro il 15 dicembre 2021.
  5. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
  6. Per la verifica dell’adempimento dell’obbligo vaccinale da parte degli operatori di interesse sanitario di cui al comma 1, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 4-ter, commi 2, 3 e 6.

La disposizione che precede, seppure non applicabile alla fattispecie “ratione temporis”, sotto il profilo interpretativo fa emergere una volta di più come il legislatore abbia del tutto inteso escludere l’intermediazione del potere pubblico: se nella precedente versione, infatti, come sopra detto, alle aziende sanitarie è stato attribuito un compito di verifica certativa eventualmente con profili di mera valutazione medica, nell’attuale versione, addirittura, è stato del tutto escluso un ruolo delle amministrazioni sanitarie ai fini dell’accertamento dell’inadempimento che, peraltro, viene effettuato dagli Ordini sulla scorta di un mero rilievo documentale, per mezzo di un atto definito esplicitamente avente natura dichiarativa e non disciplinare.

1.13. Alla luce di quanto precede, deve ritenersi sussistere il difetto di giurisdizione dell’intestato TAR, con giurisdizione del Giudice ordinario.

Ai sensi dell’art. 11, comma 2, c.p.a. <>.

Le spese di lite devono essere compensate attesa la novità delle questioni esaminate e la particolarità della controversia.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo e la giurisdizione del Giudice ordinario.

Compensa integralmente le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Alessandra Farina, Presidente

Mara Bertagnolli, Consigliere

Paolo Nasini, Referendario, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Paolo Nasini Alessandra Farina

IL SEGRETARIO

Continua a leggere...

Vigile attesa. Il Consiglio di Stato smentisce il Tar

19/01/2022 – Consiglio di Stato Sezione Terza

ANNULLA SEZIONE TERZA DEL TAR LAZIO N. 419 PUBBLICATA IL 15/01/2022

IL PUNTO

La sospensione della circolare, lungi da far “riappropriare” i MMG della loro funzione e delle loro inattaccabili e inattaccate prerogative di scelta terapeutica (che l’atto non intacca) determinerebbe semmai il venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, e che i MMG ben potranno, nello spirito costruttivo della circolazione e diffusione delle informazioni scientifico-mediche, considerare come raccomandabili, salvo scelte che motivatamente, appunto in scienza e coscienza, vogliano effettuare, sotto la propria responsabilità (come è la regola), in casi in cui la raccomandazione non sia ritenuta la via ottimale per la cura del paziente

Il Consiglio di Stato con la sentenza della sez. III, dec., 19 gennaio 2022, n. 207 ha immediatamente sospeso la decisione della sezione terza del  Tar Lazio n. 419  pubblicata  il 15/01/2022 che annullò  la  Circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” affermando che la stessa contrastasse  con la deontologia del medico  e “ con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid19 come avviene per ogni attività terapeutica”.

Il Tar, si ricorda, ritenne vincolante ai fini delle scelte terapeutiche dei medici di medicina generale le raccomandazioni della circolare  per la cura domiciliare dei pazienti Covid. Tra le altre raccomandazioni  la Circolare del Ministero della Salute, poneva l’attenzione nei casi lievi del rischio per il paziente sull’uso routinario di alcuni farmaci ritenuti completamente inappropriati nella gestione dei casi lievi come: corticosteroidi, eparina, antibiotici,  idrossiclorochina e benzodiazepine ad alto dosaggio. Indicava anche quando farmaci molto costosi potessero essere utilizzati in modo appropriato indicando, in particolare, le regole prescrittive per gli anticorpi monoclonali.

La decisione del Consiglio di Stato riporta chiarezza sul confine tra prescrizione a carico del servizio sanitario nazionale e libertà prescrittiva del medico.

Non tutti i farmaci possono essere erogati gratuitamente ma solo quelli che lo Stato rende idonei per una serie di patologie. Fuori da queste regole il medico ha a disposizione la c.d “ricetta bianca” in solvenza del paziente.  

L’art. 13 del codice di deontologia medica, infatti,  gli permette di prescrivere secondo scienza e coscienza la prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione è una diretta, specifica, esclusiva e non delegabile competenza del medico, impegna la sua autonomia e responsabilità e deve far seguito a una diagnosi circostanziata o a un fondato sospetto diagnostico. La prescrizione però deve fondarsi sulle evidenze scientifiche disponibili, sull’uso ottimale delle risorse e sul rispetto dei principi di efficacia clinica, di sicurezza e di appropriatezza in particolare quando i farmaci sono prescritti “off label”  cioè al di fuori delle indicazioni cliniche per le quali il farmaco è stato registrato.

a cura Avv. Paola Maddalena Ferrari

IL TESTO DEL DECRETO

sul ricorso numero di registro generale 411 del 2022, proposto dal Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

-OMISSIS-, non costituiti in giudizio;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. –, resa tra le parti, concernente le linee guida per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-Cov-2 (Covid-19);

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista l’istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.;

Considerato che la sintetica motivazione della sentenza appellata afferma la natura vincolante, ai fini delle scelte terapeutiche dei medici di medicina generale, per la cura domiciliare dei pazienti Covid, della circolare ministeriale;

Ritenuto che, in questa sede di delibazione sommaria, laddove non emerge una puntuale motivazione circa il carattere vincolante censurato, appare invece:

– che il documento contiene, spesso con testuali affermazioni, “raccomandazioni” e non “prescrizioni”, cioè indica comportamenti che secondo la vasta letteratura scientifica ivi allegata in bibliografia, sembrano rappresentare le migliori pratiche, pur con l’ammissione della continua evoluzione in atto;

 che di conseguenza non emerge alcun vincolo circa l’esercizio del diritto-dovere del MMG di scegliere in scienza e coscienza la terapia migliore, laddove i dati contenuti nella circolare sono semmai parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello anche internazionale;

– che, dunque, la sospensione della circolare, lungi da far “riappropriare” i MMG della loro funzione e delle loro inattaccabili e inattaccate prerogative di scelta terapeutica (che l’atto non intacca) determinerebbe semmai il venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato, e che i MMG ben potranno, nello spirito costruttivo della circolazione e diffusione delle informazioni scientifico-mediche, considerare come raccomandabili, salvo scelte che motivatamente, appunto in scienza e coscienza, vogliano effettuare, sotto la propria responsabilità (come è la regola), in casi in cui la raccomandazione non sia ritenuta la via ottimale per la cura del paziente;

P.Q.M.

accoglie l’istanza e, per l’effetto, sospende l’esecutività della sentenza appellata fino alla discussione collegiale che fissa alla camera di consiglio del 3 febbraio 2022.

Il presente decreto sarà eseguito dall’Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti appellate.

Così deciso in Roma il giorno 19 gennaio 2022Edit

Continua a leggere...

Tar Lazio sospende circolare sulla vigile attesa

La Circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021 contrasta con la deontologia del medico  e “ con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid19 come avviene per ogni attività terapeutica”.

Quindi, il contenuto della nota ministeriale, affermano i giudici, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale

Questa è la massima contenuta della sentenza della sezione terza del  Tar Lazio n. 419  pubblicata  il 15/01/2022 annullando il provvedimento che, com’è facilmente immaginabile, sarà impugnata dal Ministero.

Alcuni medici e specialisti  contestarono le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti.

In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

Il termine vietato non è utilizzato neppure una volta nella circolare che si limitava a raccomandare e sconsigliare terapie ritenute inutili e/o inefficaci.

A pagina 10, infatti, si legge chiaramente “le presenti raccomandazioni si riferiscono alla gestione farmacologica in ambito domiciliare dei casi lievi di COVID-19” intendendosi per tali: presenza di sintomi come febbre (>37.5°C), malessere, tosse, faringodinia, congestione nasale, cefalea, mialgie, diarrea, anosmia, disgeusia, in assenza di dispnea, disidratazione, alterazione dello stato di coscienza.

In linea generale, si afferma,  per soggetti con queste caratteristiche cliniche non è indicata alcuna terapia al di fuori di una eventuale terapia sintomatica di supporto.

Per vigile attesa, la circolare intendeva un costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente con misurazione periodica della saturazione ed ossigeno attraverso pulsossimetria nonché norme igieniche di vita.

Mentre dal punto di vista farmacologico, consigliava trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso). Altri farmaci sintomatici potranno essere utilizzati su giudizio clinico.

Raccomandava e sconsigliava, inoltre, di  non utilizzare routinariamente corticosteroidi per le forme lievi da considerare solo  in pazienti con fattori di rischio di progressione di malattia verso forme severe, in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici che richieda l’ossigenoterapia ove non sia possibile nell’immediato il ricovero per sovraccarico delle strutture ospedaliere.

Raccomandava e sconsigliava, inoltre, di  non utilizzare eparina. L’uso di tale farmaco, si afferma nella raccomandazione,  è indicato, solo nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto ed evitare l’uso empirico di antibiotici. La mancanza di un solido razionale e l’assenza di prove di efficacia nel trattamento di pazienti con la sola infezione virale da SARS-CoV2 non consentono di raccomandare l’utilizzo degli antibiotici, da soli o associati ad altri farmaci.

Un ingiustificato utilizzo degli antibiotici può, inoltre, determinare l’insorgenza e il propagarsi di resistenze batteriche che potrebbero compromettere la risposta a terapie antibiotiche future. Il loro eventuale utilizzo è da riservare esclusivamente ai casi nei quali l’infezione batterica sia stata dimostrata da un esame  microbiologico e a quelli in cui il quadro clinico ponga il fondato sospetto di una sovrapposizione batterica.

Sconsigliava di utilizzare idrossiclorochina la cui efficacia era ritenuta dal Ministero non confermata in nessuno degli studi clinici randomizzati fino ad ora condotti.

Ad avviso di chi scrive, il Tar dimentica che la libertà prescrittiva a carico del servizio sanitario nazionale è limitata ai farmaci ritenuti idonei a curare specifiche situazioni cliniche. Il medico ha sempre la possibilità di adattare la terapia scegliendo tra i farmaci che sono indicati come efficaci e prescrivibili su “ricetta rossa”.

La libertà prescrittiva del medico non è limitata in quanto gli è sempre permesso di prescrivere, anche off label, su “ricetta bianca” a carico del cittadino.

È appena opportuno ricordare che un uso inappropriato di farmaci come l’eparina e gli antibiotici  puo’ determinare, soprattutto in una situazione pandemica, rischi di mancati approvvigionamenti del ciclo farmaceutico con rischio di farli mancare  ai  pazienti più fragili.

Avv. Paola M. Ferrari

LA SENTENZA

FATTO e DIRITTO

I ricorrenti sono medici di medicina generale e specialisti.

Con il ricorso oggetto del presente scrutinio, i predetti hanno contestato le linee guida promulgate da AIFA e pedissequamente mutuate con la circolare del Ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti.

Alla camera di consiglio del giorno 4 agosto 2021, il Collegio ha disposto, a mente dell’art. 55, comma 10 cpa, la fissazione della discussione del presente ricorso alla udienza di merito del giorno 7 dicembre 2021.

Alla udienza del giorno 7 dicembre 2021 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

In primo luogo deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla resistente perché, a suo dire, la nota AIFA, recepita nella circolare ministeriale, ha una sua autonomia giuridica e non è stata autonomamente impugnata.

E’ necessario rappresentare che nel momento in cui l’indicata raccomandazione è stata pedissequamente mutuata nella circolare ministeriale essa ha perso ogni singolare valenza, compresa una sua autonoma esistenza giuridica ed ha costituito, pertanto, la sola motivazione del provvedimento contestato.

Conseguentemente l’eccezione deve essere respinta.

Le censurate linee guida, come peraltro ammesso dalla stessa resistente, costituiscono mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli.

In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito.

La prescrizione dell’AIFA, come mutuata dal Ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia COVI 19 come avviene per ogni attività terapeutica.

In merito è opportuno rappresentare che il giudice di appello nello scrutinare una analoga vicenda giudiziaria ( la censura afferente alla sola determinazione dell’AIFA) ha precisato che :”… la nota AIFA non pregiudica l’autonomia dei medici nella prescrizione, in scienza e coscienza, della terapia ritenuta più opportuna, laddove la sua sospensione fino alla definizione del giudizio di merito determina al contrario il venir meno di linee guida, fondate su evidenze scientifiche documentate in giudizio, tali da fornire un ausilio (ancorché non vincolante) a tale spazio di autonomia prescrittiva, comunque garantito”.

Quindi, il contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale.

Per tali ragioni il ricorso deve essere accolto.

La peculiarità della vicenda convince il Collegio a compensare le spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento in epigrafe indicato.

Compensa le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Savoia, Presidente

Paolo Marotta, Consigliere

Roberto Vitanza, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberto Vitanza Riccardo Savoia

IL SEGRETARIO

Continua a leggere...

Infermiere impugna provvedimento sospensione dell’Ordine Professionale. Il diritto alla salute di tutti vale più dello stipendio.

13/01/2022 n. 7 – Tar Calabria sezione Catanzaro

LA MASSIMA

Richiamata, in proposito, la giurisprudenza secondo cui “il diritto soggettivo individuale al lavoro ed alla conseguente retribuzione è sì meritevole di protezione, ma solo fino all’estremo limite in cui la sua tutela non sia suscettibile di arrecare un pregiudizio all’interesse generale (nella specie, la salute pubblica), di fronte al quale è destinato inesorabilmente a soccombere, sicché, ove il singolo intenda consapevolmente tenere comportamenti potenzialmente dannosi per la collettività, violando una disposizione di legge che quell’interesse miri specificamente a proteggere, deve sopportarne le inevitabili conseguenze” (Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G).
Non deve essere sospesa la delibera del Consiglio Direttivo dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche che ha sospeso dall’Albo degli infermieri un infermiere che si è sottratto dall’obbligo vaccinale senza accampare un elemento ostativo alla vaccinazione ma la mancanza di un atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda Sanitaria e l’impossibilità, da parte dell’Ordine professionale, di surrogarsi a detta azienda nel compito di accertare un fatto (la mancata sottoposizione a vaccinazione) le cui conseguenze sono vincolativamente determinate dal legislatore.

sul ricorso numero di registro generale 1899 del 2021, proposto da

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Elisa Lupis, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ordine delle Professioni Infermieristiche di Catanzaro, non costituito in giudizio;

per l’annullamento

previa sospensione dell’efficacia,

– della delibera del Consiglio Direttivo dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Catanzaro del -OMISSIS-, avente ad oggetto la “-OMISSIS–OMISSIS-”;

– di tutti gli atti presupposti, consequenziali o comunque connessi;

e per il risarcimento del danno ingiusto subito.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l’art. 55 c.p.a.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 il dott. Francesco Tallaro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Osservato che l’odierno ricorso non riguarda un atto di gestione del rapporto di lavoro intercorrente tra il ricorrente e l’Azienda Ospedaliera -OMISSIS-, ma ha ad oggetto il provvedimento, di carattere autoritativo benché vincolato, di sospensione dall’Albo degli Infermieri, sicché, alla cognizione sommaria tipica della presente fase, appare correttamente individuata la giurisdizione di questo plesso di giustizia amministrativa (Cons. Stato, Sez. III, ord. 23 dicembre 2021, n. 6796; TAR Friuli Venezia Giulia, 13 settembre 2021, n. 276);

Osservato che è fuori discussione l’inosservanza, da parte del ricorrente, dell’obbligo, sancito dall’art. 4 d.l. 1 aprile 2021, n. 44, conv. con mod.con l. 28 maggio 2021, n. 76, di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19, obbligo della cui conformità a Costituzione questo Tribunale (così come la più autorevole giurisprudenza sin qui pronunciatasi: cfr. Cons. Stato, Sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) non dubita, essendo coerente con i migliori approdi conoscitivi cui è pervenuta la comunità scientifica e costituendo espressione del principio di solidarietà sociale;

Osservato che il ricorrente non ha dedotto, in questa sede giurisdizionale, la sussistenza di elementi ostativi alla sottoposizione, da parte sua, alla vaccinazione obbligatoria;

Osservato che, di contro, il ricorso si incentra solo sulla mancanza di un atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda Sanitaria Provinciale e sull’impossibilità, da parte dell’Ordine professionale, di surrogarsi a detta azienda nel compito di accertare un fatto (la mancata sottoposizione a vaccinazione) le cui conseguenze sono vincolativamente determinate dal legislatore;

Ritenuto, alla stregua di tali rilievi, che la domanda cautelare non possa trovare accoglimento; non sussiste, infatti, per il ricorrente il pericolo di un danno grave e irreparabile: egli, infatti, potrà agevolmente rimuovere gli effetti negativi dell’atto impugnato sottoponendosi alla vaccinazione anti Covid-19, così adempiendo a un preciso obbligo derivante dalla legge e, ancor prima (cfr. Cons. Stato, Sez. III, decr. 1 dicembre 2021, n. 6401), dal giuramento professionale (cfr. anche Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G., che parla di “una sorta di condizione risolutiva potestativa” (…) “il cui accadimento rientra nella disponibilità del lavoratore il quale in qualunque momento, con un comportamento volontario – che, anzi, sarebbe doveroso atteso lo specifico obbligo vigente a suo carico – può far cessare gli effetti della sua sospensione dal lavoro e dalla conseguente retribuzione”);

Osservato, d’altra parte, che nel bilanciamento tra gli interessi in gioco, quello del ricorrente all’esercizio dell’attività sanitaria e alla correlativa percezione della remunerazione in violazione dell’obbligo vaccinale è destinato a soccombere a fronte delle pressanti esigenze di tutela della salute pubblica e, soprattutto della salute di chi si rivolga al personale sanitario;

Richiamata, in proposito, la giurisprudenza secondo cui “il diritto soggettivo individuale al lavoro ed alla conseguente retribuzione è sì meritevole di protezione, ma solo fino all’estremo limite in cui la sua tutela non sia suscettibile di arrecare un pregiudizio all’interesse generale (nella specie, la salute pubblica), di fronte al quale è destinato inesorabilmente a soccombere, sicché, ove il singolo intenda consapevolmente tenere comportamenti potenzialmente dannosi per la collettività, violando una disposizione di legge che quell’interesse miri specificamente a proteggere, deve sopportarne le inevitabili conseguenze” (Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021 in procedimento n. 1637-1/2021 R.G,);

Ritenuto, quanto alle spese, che non vi sia luogo a provvedere, stante la mancata costituzione dell’amministrazione intimata;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) rigetta l’istanza di tutela cautelare.

Nulla sulle spese.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’amministrazione ed è depositata presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Giovanni Iannini, Presidente

Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore

Manuela Bucca, Referendario

Continua a leggere...

Infermiere già in aspettativa ai sensi della legge 104/1992 non può essere sospeso per mancata vaccinazione.

Con la sentenza del 26.11.2021 a firma della Dott.ssa Porcelli, il Tribunale di Milano ha accolto la richiesta di reintegra di un’infermiera sospesa per mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale nonostante la stessa si trovasse in aspettativa retribuita biennale ex lege 104/1992.

Per il Giudice, in particolare, la sospensione presuppone, al momento della sua adozione, lo svolgimento in concreto delle prestazioni professionali da parte del soggetto che astrattamente rientra tra i lavoratori destinatari dell’obbligo di vaccinazione.

Secondo la sentenza il rapporto di lavoro della ricorrente già sospeso per la fruizione dell’aspettativa prevista dalla L. 104/1992 non può essere sospeso per altra motivazione.

Obbligo vaccinale per i cinquantenni

Il Consiglio dei Ministri, ha pubblicato, nella  Gazzetta Ufficiale n. 4 del 7 gennaio 2022, il Decreto n. 1 del 7 gennaio 2022, con misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore.

Queste le principali disposizione :

Il testo introduce l’obbligo vaccinale per tutti coloro che hanno compiuto i 50 anni. Per i lavoratori pubblici e privati con 50 anni di età sarà necessario il Green Pass Rafforzato per l’accesso ai luoghi di lavoro a far data dal 15 febbraio prossimo.

Senza limiti di età, l’obbligo vaccinale è esteso al personale universitario così equiparato a quello scolastico.

È esteso l’obbligo di Green Pass ordinario a coloro che accedono ai servizi alla persona; pubblici uffici, servizi postali, bancari e finanziari, attività commerciali fatte salve eccezioni che saranno individuate con atto secondario per assicurare il soddisfacimento di esigenze essenziali e primarie della persona.

Cambiano le regole per la gestione dei casi di positività.

Scuola dell’infanzia

Già in presenza di un caso di positività, è prevista la sospensione delle attività per una durata di dieci giorni.

Scuola primaria (Scuola elementare)

Con un caso di positività, si attiva la sorveglianza con testing. L’attività in classe prosegue effettuando un test antigenico rapido o molecolare appena si viene a conoscenza del caso di positività (T0), test che sarà ripetuto dopo cinque giorni (T5).

In presenza di due o più positivi è prevista, per la classe in cui si verificano i casi di positività, la didattica a distanza (DAD) per la durata di dieci giorni.

Scuola secondaria di I e II grado (Scuola media, liceo, istituti tecnici etc etc)

Fino a un caso di positività nella stessa classe è prevista l’auto-sorveglianza e con l’uso, in aula, delle mascherine FFP2.

Con due casi nella stessa classe è prevista la didattica digitale integrata per coloro che hanno concluso il ciclo vaccinale primario da più di 120 giorni, che sono guariti da più di 120 giorni, che non hanno avuto la dose di richiamo. Per tutti gli altri, è prevista la prosecuzione delle attività in presenza con l’auto-sorveglianza e l’utilizzo di mascherine FFP2 in classe.

Con tre casi nella stessa classe è prevista la DAD per dieci giorni

Scarica il decreto legge 7 gennaio 2022

Continua a leggere...

Obbligo vaccinale sanitari. Il Ministero della Salute chiarisce i dubbi degli Ordini

Con nota del Ministero della Salute 68503 del 28/12/2021 l’ufficio legislativo del Ministero della Salute ha chiarito alcuni dubbi degli Ordini Professionali. In sintesi:

  • Gli Ordini possono accedere autonomamente alla verifica della certificazione Verde. E’ necessario che gli ordini procedano ad un accertamento generale e automatizzato della situazione vaccinale dei singoli scritti, così come comprovata dal possesso della certificazione verde. Tale accertamento, quindi, concerne tutti gli iscritti ivi inclusi coloro che siano già destinatari di un provvedimento di sospensione.
  • Gli ordini sono legittimati a richiedere direttamente all’interessato di fornire riferimenti del proprio datore di lavoro in occasione dell’invito a produrre la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione oppure l’attestazione relativa l’omissione o al differimento della stessa.
  • La sospensione non ha natura disciplinare, quindi le relative comunicazioni non dovranno essere inviate agli enti di cui all’articolo 49 del DPR 221 del 1950 (Dell’inizio e dell’esito di ogni giudizio disciplinare è data immediata comunicazione, a cura del presidente, al prefetto ed al procuratore della Repubblica territorialmente competenti per l’Albo cui è iscritto l’incolpato, nonché alle medesime autorità di altra circoscrizione che abbiano promosso il giudizio. I provvedimenti di sospensione dall’esercizio professionale e di radiazione, quando siano divenuti definitivi, sono comunicati a tutti gli Ordini o Collegi della  categoria a cui appartiene il sanitario sospeso o radiato e alle autorità ed agli enti ai quali deve essere inviato l’Albo a norma dell’art. 2).
  • Nel caso in cui gli iscritto non produca documentazione comprovante l’ eseguita vaccinazione o la prenotazione della vaccinazione,  l’Ordine procederà ad emettere provvedimento di sospensione fino a che non risulti completato il ciclo vaccinale primario o, per coloro che abbiano già completato il ciclo primario da più di 5 mesi fino alla somministrazione della dose di richiamo.
  • Nella prima fase del contraddittorio l’interessato ha la possibilità di mettersi in regola presentando la prenotazione nel successivo termine di 20 giorni. Nel caso in cui il professionista non si sottoponga alla vaccinazione nel termine e conseguentemente si è dato corso alla sospensione, per poter riprendere l’esercizio della professione non potrà più limitarsi ad esibire la prenotazione ma dovrà dimostrare di avere eseguito l’intero ciclo vaccinale.
  • Il requisito dell’ l’avvenuta vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati e, secondo il ministero costituisce un requisito anche per l’iscrizione all’albo da parte del professionista punto da parte degli ordini. Il riscontro dovrà avvenire mediante acquisizione dei certificati vaccinali dagli scriventi avendo cura di adottare adeguate misure per la custodia e la sicurezza dei dati relativi alla salute in essi contenuti.

Scarica il documento del Ministero della Salute