Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

Strumenti correttivi disabilità ora più accessibili. Il ruolo del medico di famiglia

Il Decreto Legge 669/1996, convertito dalla Legge 30/1997, introdusse alcune agevolazioni per l’acquisto di sussidi tecnici e informatici volti a favorire l’autonomia e l’autosufficienza delle persone con disabilità.
Questi benefici sono concessi sia al momento dell’acquisto (IVA agevolata) che, sotto forma di detrazione, in fase di dichiarazione annuale dei redditi.
Furono estese le agevolazioni già previste per gli ausili in senso stretto, anche a prodotti di comune reperibilità che possano essere utili per l’autonomia delle persone con disabilità.

Con il decreto del MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE IN DATA 7 aprile 2021, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 4 maggio 2021, sono state modificate le condizioni e le modalità alle quali è subordinata l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta del 4% per l’acquisto di sussidi tecnici ed informatici rivolti a facilitare l’autosufficienza e l’autonomia delle persone con disabilità.
Il provvedimento segue la modifica inserita nel “decreto semplificazioni” del 16 luglio 2020 n. 76, poi convertito nella Legge 11 settembre 2020 n. 120 con l’inserimento dell’art. 29 bis, proprio riguardante l’accesso alle agevolazioni fiscali sui cosiddetti sussidi tecnici e informatici.
Norme che hanno modificato il decreto del Ministro delle finanze del 14 marzo 1998, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 77 del 2 aprile 1998.

Sparisce il collegamento obbligato tra dispositivo e medico specialista.
Anche il medico generale ed il pediatra di libera scelta possono emettere il certificato per la prescrizione autorizzativa.
Con la nuova normativa, le agevolazioni si ampliano fino a ricomprendere tutti quegli strumenti anche di nuova tecnologia o di semplice uso comune, necessari o utili, a rendere la vita del disabile più inclusiva ed autonoma.

Resta immutala la definizione di sussidi tecnici ed informatici contenuta nel primo comma dell’articolo 2 del Decreto del Ministero delle Finanze del 14 marzo 1998: si considerano sussidi tecnici ed informatici rivolti a facilitare l’autosufficienza e l’integrazione dei soggetti portatori di handicap le apparecchiature e i dispositivi basati su tecnologie meccaniche, elettroniche o informatiche, appositamente fabbricati o di comune reperibilità, preposti ad assistere la riabilitazione, o a facilitare la comunicazione interpersonale, l’elaborazione scritta o grafica, il controllo dell’ambiente e l’accesso alla informazione e alla cultura in quei soggetti per i quali tali funzioni sono impedite o limitate da menomazioni di natura motoria, visiva, uditiva o del linguaggio. Rientrano nel beneficio le apparecchiature e i dispositivi basati su tecnologie meccaniche, elettroniche o informatiche, sia di comune reperibilità sia appositamente fabbricati.

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Tribunale di Verona Sez. Lav., 24 maggio 2021, n. 446- La Oss rifiuta il vaccino. Legittima l’aspettativa non retribuita

Proseguono le sentenze contrarie ai lavoratori sanitari novax.
Il Tribunale di Verona, Sez. Lav., sentenza 24 maggio n. 446, è entrato nel merito di uno dei primi ricorsi dopo l’entrata in vigore dell’art. 4 del D.L. 44/2021 ed ha respinto il ricorso d’urgenza proposto da una OSS di una casa di riposo che rifiutò il vaccino e fu posta in aspettativa non retribuita. La sentenza chiarisce anche i limiti dell’obbligo vaccinale respingendo l’eccezione d’incostituzionalità svolta dalla lavoratrice.
La disposizione menzionata non si presta a censure di illegittimità costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della libera sottoposizione a trattamenti sanitari (art. 32 Cost).
L’obbligo di vaccinazione, afferma la sentenza, è circoscritto a settori del tutto peculiari, nel cui ambito è particolarmente avvertita l’esigenza di tutela della salute di soggetti fragili. Lo stesso articolo 4 del D.L. in questione, sancisce che la finalità di tale normativa, è quella di “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”, indice di come l’interesse prevalente, che qui dev’essere tutelato, risulta essere quello dei soggetti assistiti.
La vaccinazione, benché non azzeri né il rischio di contrazione della malattia né il rischio della sua trasmissione, tuttavia diminuisce entrambi gli eventi avversi, ossia tanto la possibilità di contagio per il soggetto che si sottopone ad essa tanto la probabilità che lo stesso possa infettare altri soggetti con cui venga a contatto .
Gli studi clinici condotti finora, afferma la sentenza richiamando il documento dell’Istituto Superiore Sanità prodotto dalla ricorrente, hanno permesso di dimostrare l’efficacia dei vaccini nella prevenzione delle forme clinicamente manifeste di COVID-19, anche se la protezione, come per molti altri vaccini, non è del 100%. Inoltre, non è ancora noto quanto i vaccini proteggano le persone vaccinate anche dall’acquisizione dell’infezione.
È possibile, infatti, che la vaccinazione non protegga altrettanto bene nei confronti della malattia asintomatica (infezione) e che, quindi, i soggetti vaccinati possano ancora acquisire SARS-CoV-2, non presentare sintomi e trasmettere l’infezione ad altri soggetti. Ciononostante, è noto che la capacità di trasmissione da parte di soggetti asintomatici è inferiore rispetto a quella di soggetti con sintomi, in particolare se di tipo respiratorio.
Essendo l’ente convenuto una RSA di non rilevanti dimensioni (la stessa ospita 60 anziani), appare nuovamente legittimo il provvedimento dell’Azienda con relativa sospensione della retribuzione, in considerazione dell’impossibilità di assegnare la ricorrente a mansioni che garantiscano la sua operatività lavorativa in spazi separati e non comunicanti con la struttura di accoglienza degli ospiti e vista la ferma volontà di parte ricorrente, formalizzata anche in udienza, di non sottoporsi alla somministrazione del vaccino.

IL TESTO DELLA SENTENZA

TRIBUNALE DI VERONA
Sezione Lavoro

Il Giudice, dott.ssa Cristina Angeletti, nella causa di lavoro n. 446/2021 promossa dalla Lavoratrice
Contro l’Azienda
Ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

Il Giudice, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 12/05/2021,

PREMESSO CHE

La ricorrente lavora con decorrenza dal 11.6.2019 e con mansioni di operatrice socio sanitaria (OSS) presso l’ente convenuto.
L’Azienda è una RSA avente ad oggetto l’attività di casa di riposo, i servizi alla persona e la promozione dell’assistenza sociosanitaria in favore di persone anziane. La struttura ospita circa 60 anziani, mediamente di anni 80.
In ragione del diniego della ricorrente alla sottoposizione al vaccino anti Covid-19, l’ente resistente ha collocato la stessa in aspettativa non retribuita per l’inidoneità temporanea allo svolgimento delle sue mansioni.
Parte ricorrente chiede, in via principale, accertarsi e dichiararsi l’illegittimità del provvedimento assunto dall’Azienda nei confronti della Lavoratrice, relativo all’aspettativa non retribuita e condannarsi l’Azienda alla reintegra della ricorrente nel suo posto di lavoro con le medesime mansioni e/o mansioni equivalenti/inferiori, oltre che alla corresponsione delle retribuzioni dovute dal momento della sua sospensione.
A fondamento della domanda in via cautelare espone in punto di fumus boni iuris che la vaccinazione non è prevista come obbligatoria e che comunque sarebbe irragionevole imporla atteso che un soggetto vaccinato può contrarre il virus e trasmetterlo ad altri soggetti.

Parte resistente ritiene inammissibili e/o nulle e/o comunque infondate, sia in fatto sia in diritto, le domande di parte ricorrente

OSSERVA

L’asserita assenza dell’obbligo vaccinale, invocata da parte ricorrente al punto 2 del ricorso ex art 700 c.p.c. a sostegno della domanda di reintegra, è infondata alla luce dell’entrata in vigore del D.L. 44/2021, in data successiva al deposito del ricorso. In seguito all’entrata in vigore del D.L. 44/2021, l’art. 4 dello stesso stabilisce come la vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da Covid-19 costituisca un requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati.
Lo stesso articolo 4 del D.L. in questione, sancisce, inoltre, la finalità di tale normativa, ovvero quella di “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”, indice di come l’interesse prevalente, che qui dev’essere tutelato, risulta essere quello dei soggetti assistiti.
Come affermato in termini qui condivisi nell’ordinanza 328/2021 dal Tribunale di Belluno, è da “ritenere prevalente, sulla libertà di chi non intenda sottoporsi a vaccinazione contro il Covid-19, il diritto alla salute dei soggetti fragili che entrano in contatto con gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario, in quanto bisognosi di cure, e, più in generale, il diritto alla salute della collettività, nell’ambito della perdurante emergenza sanitaria derivante dalla pandemia da Covid-19”.
Ai fini dell’inclusione di un soggetto nell’obbligo vaccinale, occorre che quest’ultimo svolga la propria attività “nelle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali”. Appare chiaro, quindi, come in capo alla parte ricorrente incomba l’obbligo di vaccinazione. Il provvedimento assunto dall’Azienda appare legittimo ed in linea con il dettato normativo precedentemente citato. Con riferimento alla richiesta di parte ricorrente relativa alla reintegrazione in mansioni equivalenti a quelle proprie dell’OSS, questa deve essere vagliata alla luce del dettato normativo del D.L. 44/2021, che all’art. 9, prevede che qualora “ l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione di cui al comma 9, non è dovuta la retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato”. Essendo l’ente convenuto una RSA di non rilevanti dimensioni (la stessa ospita 60 anziani), appare nuovamente legittimo il provvedimento dell’Azienda con relativa sospensione della retribuzione, in considerazione dell’impossibilità di assegnare la ricorrente a mansioni che garantiscano la sua operatività lavorativa in spazi separati e non comunicanti con la struttura di accoglienza degli ospiti e vista la ferma volontà di parte ricorrente, formalizzata anche in udienza, di non sottoporsi alla somministrazione del vaccino.
La disposizione menzionata non si presta a censure di illegittimità costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della libera sottoposizione a trattamenti sanitari (art. 32 Cost.).
L’obbligo di vaccinazione, infatti, è circoscritto a settori del tutto peculiari, nel cui ambito è particolarmente avvertita l’esigenza di tutela della salute di soggetti fragili. Lo stesso documento prodotto da parte ricorrente (doc. 15), ossia il rapporto ISS (Istituto Superiore Sanità) chiarisce come la vaccinazione, benché non azzeri né il rischio di contrazione della malattia né il rischio della sua trasmissione, tuttavia diminuisce entrambi gli eventi avversi, ossia tanto la possibilità di contagio per il soggetto che si sottopone ad essa tanto la probabilità che lo stesso possa infettare altri soggetti con cui venga a contatto (cfr., doc. 15 all. al ricorso: “ Gli studi clinici condotti finora hanno permesso di dimostrare l’efficacia dei vaccini nella prevenzione delle forme clinicamente manifeste di COVID-19, anche se la protezione, come per molti altri vaccini, non è del 100%. Inoltre, non è ancora noto quanto i vaccini proteggano le persone vaccinate anche dall’acquisizione dell’infezione. È possibile, infatti, che la vaccinazione non protegga altrettanto bene nei confronti della malattia asintomatica (infezione) e che, quindi, i soggetti vaccinati possano ancora acquisire SARS-CoV-2, non presentare sintomi e trasmettere l’infezione ad altri soggetti. Ciononostante, è noto che la capacità di trasmissione da parte di soggetti asintomatici è inferiore rispetto a quella di soggetti con sintomi, in particolare se di tipo respiratorio.”).
Sulla base degli studi scientifici attuali, dunque, la vaccinazione è efficace ai fini dell’abbattimento del rischio di contagio per sé e per il prossimo, di tal che l’imposizione di un obbligo in tal senso nello specifico settore sanitario, alla luce del contemperamento fra l’interesse individuale alla libera scelta vaccinale e l’interesse collettivo alla salute pubblica, non è irragionevole.
In ragione della novità delle questioni trattate, è equo compensare integralmente le spese di lite.

P.Q.M.

Rigetta le domande di cui al ricorso. Compensa le spese di lite. Verona, 20/05/2021
IL GIUDICE
dott.ssa Cristina Angeletti

Regione Lombardia. Le nuove linee guida per la formazione dei medici generali

Con DELIBERAZIONE N° XI / 5004 Seduta del 05/07/2021, la Regione Lombardia ha emanato le nuove linee guida per la formazione del medico di medicina generale.

Il principale cambiamento che si intende attivare nell’ambito del Corso di formazione specifica in Medicina Generale riguarda l’attivazione del tirocinio professionalizzante invece della parte di attività svolta in affiancamento presso un ambulatorio MMG.
Con il D.L. 135/2018 convertito con L. 12/2019, con il successivo D.L. 35/2019 convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 2019 e ancor più durante l’emergenza Covid-19, la normativa ha consentito ai tirocinanti MMG di assumere incarichi, compatibili e riconosciuti ai fini del percorso formativo, facendoli contribuire significativamente ai bisogni espressi dal SSR e al contempo integrando la dimensione professionalizzante con quella formativa.
Questa esperienza ha evidenziato molti aspetti positivi, si ritiene perciò utile promuovere una modifica normativa confermando la possibilità per i medici tirocinanti del Corso MMG di concorrere all’assegnazione degli ambiti carenti e ad incarichi di sostituzione a tempo determinato di medici di medicina generale convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale della durata di almeno 6 mesi continuativi.
Per gli incarichi sopra menzionati, volendo valorizzare la formazione nell’ambito territoriale, si propone di vincolare la scelta al territorio dell’ATS/Polo formativo presso il quale il tirocinante svolge il Corso. Una iniziativa di questo genere viene assunta nell’ottica di favorire il radicamento del tirocinante sul territorio dove svolge il Corso. Si ritiene parimenti
opportuno avanzare una proposta di modifica all’Accordo Collettivo Nazionale affinchè il massimale per i tirocinanti che assumono l’incarico nell’ambito delle aree carenti sia significativamente aumentato, fino a 1.000 assistiti, al fine di garantire che il servizio sia compatibile con la sostenibilità economica della gestione dell’ambulatorio, fermo restando che l’impegno orario non dovrà interferire con l’attività didattica.

Ai tirocinanti che frequentano il tirocinio professionalizzante assumendo l’ambito carente o l’incarico
temporaneo dovrebbero inoltre essere riconosciuti gli stessi incentivi degli altri MMG, in particolare per quanto riguarda la quota per la medicina di gruppo e la quota per il personale di studio.
L’incarico assunto è riconosciuto come attività pratica e di studio guidato dei periodi formativi di “Ambulatorio MMG” e anche per le parti di “Struttura di base (medicina territoriale)”. Sono riconosciute tutte e soltanto le ore di ambulatorio a contratto, sino al raggiungimento del monte ore previsto di attività pratica per i periodi formativi sopra
indicati, e quelle di studio guidato organizzato secondo le presenti linee guida.
Il tirocinante è costantemente seguito nella sua attività come di seguito indicato e deve garantire la partecipazione alle altre attività didattiche (teoriche e pratiche ospedaliere). Il tirocinio professionalizzante può essere svolto dal primo anno di corso.

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Tribunale di Modena. Legittimo sospendere il lavoratore di una cooperativa che rifiuta la vaccinazione covid

L’ art. 20 D. Lgs. 81/2008 (testo unico sicurezza sul lavoro) stabilisce che: ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre  persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni fornite dal datore di lavoro. Obbligo che comprende, anche, quello di utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione. Tale obbligo grava anche sui liberi professionisti che svolgono attività per conto dei datori di lavoro.

Questa è l’opinione espressa nell’Ordinanza della terza sezione civile lavoro del Tribunale di Modena, depositata il 19 maggio scorso, con la quale è stato respinto il ricorso avverso la sospensione di una lavoratrice di una cooperativa che svolgeva servizi in una Rsa in seguito al suo rifiuto di  fare il vaccino contro il Covid. La sentenza segue di poco quella del Tribunale di Belluno che giunse alle medesime conclusioni.

Entrambe le sentenze trattano casi antecedenti all’art. 4 del D. L. 44/2021 ma sono importanti a chiarirne la portata e le conseguenze per i lavoratori, compresi quelli autonomi, che si sottraggono all’obbligo.

In particolare, prosegue la sentenza, il  prestatore di lavoro è titolare di precisi doveri di sicurezza e, pertanto, deve essere considerato soggetto responsabile a livello giuridico dei propri contegni.

Inoltre, prosegue la sentenza, anche l’art. 2094 del codice civile  ha  avuto modo di chiarire che, mediante la stipula di un contratto di lavoro subordinato, il prestatore, a fronte dell’incameramento di una retribuzione,  si obbliga a mettere a disposizione del datore la propria attività di lavoro.

Dalla  lettura della disposizione in esame si evince che il  prestatore di lavoro, nello svolgimento della prestazione lavorativa, è tenuto (non solo a mettere a disposizione le proprie energie lavorative ma anche) a osservare precisi doveri di cura e sicurezza per la tutela dell’integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto.

Si ritiene, afferma il magistrato,  che la disposizione in esame rivesta natura precettiva, con conseguente sanzionabilità giuridica di comportamenti difformi dalla medesima.

A questo si aggiunge il fatto che il datore di lavoro ha un preciso obbligo di sicurezza sia nei confronti del lavoratore che di tutti quelli che all’interno della struttura vivono e lavorano, come previsto dall’art. 2087 del codice civile.

La disposizione in esame contempla infatti un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare, non solo  le particolari misure tassativamente imposte dalla  legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche tutte le altre misure che in concreto siano richieste dalla specificità del rischio.

Benchè la vaccinazione non era ancora resa obbligatoria all’interno degli ambienti sanitari , al contempo, afferma la pronuncia,  costituiva e ancora ad oggi costituisce misura sanitaria utile a depotenziare la diffusione dell’agente patogeno di rischio (v. es. art. 1, co. 457, L. 178/2020 “per garantire il più efficace contrasto alla diffusione del virus SARS-CoV-2, che il   Ministro della salute ha adottato  con proprio decreto avente natura non regolamentare ( Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2), finalizzato a garantire il massimo livello di copertura vaccinale sul territorio nazionale” e ribadito con l’obbligo di vaccinazione per i lavoratori con rilevanza sanitaria di cui all’art. 4 del D. L. 44/2021.

Trattamento sanitario la cui mancata sottoposizione comporta, salvo l’ipotesi derogatoria di cui al co. 2,  e salva la possibilità del datore di lavoro  di adibire  mansioni diverse e in luoghi in cui non si verifichi ii rischio di contagio, la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali e dal diritto a percepire la retribuzione.

La mancata e non giustificabile collaborazione del prestatore di lavoro alla creazione di un ambiente di lavoro salubre e sicuro per se e per gli altri (mediante non sottoposizione ad un trattamento  sanitario  utile  a  contingentare  gli  effetti  negativi  scaturenti  dall’emergenza pandemica in atto) costituisce, afferma la sentenza,  o un contegno che incide in misura significativa sul sinallagma, tanto  da comportare  o una modifica  delle mansioni in concreto  affidabili o addirittura la sospensione temporanea del rapporto.

Il pdf della Sentenza

Il quesito. Il sanitario che non si vaccina non può lavorare?

La norma di legge


Il comma 6 dell’art. 4 recita: “Decorsi i termini per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale di cui al comma 5, l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza.
L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”.

Non sussiste un obbligo assoluto di svolgere la professione se applicata in settori dove non vi è contatto con il pubblico come per esempio teletriage, refertazione al di fuori dei reparti di degenza, televisita ecc .

Gli obblighi della struttura

Una volta accertato che il sanitario non si è vaccinato, la struttura sanitaria non ha un obbligo di mutare l’organizzazione ed ha il divieto, pena responsabilità verso il paziente, di far svolgere attività in presenza a personale non vaccinato e può disporne la sospensione e/o messa in ferie fino al mese di DIcembre 2021.

E’ vietata qualunque attività e presenza di personale sanitario non vaccinato a contatto con il pubblico e nei reparti di degenza.

Cosa rischia il medico non vaccinato che opera in presenza

Il medico può essere denunciato per esercizio non autorizzato di professione sanitaria e nel caso in cui il paziente venga infettato sarà responsabile civilmente e penalmente.

L’ordine professionale può assumere nei suoi confronti le sanzioni disciplinari più gravi come la sospensione e/o nel caso di diffusione del contagio tra i suoi pazienti anche sanzioni più gravi.

Cosa rischia il medico non vaccinato che opera non in presenza

Il tema deontologico è controverso, a mio avviso, in ragione di una interpretazione Costituzionalmente orientata, il medico è responsabile anche deontologicamente se svolge attività in presenza.

Sullo stesso tema

I Giudici hanno espresso alcune opinioni in proposito.

la-rsa-ha-diritto-a-mettere-in-ferie-il-dipendente-che-rifiuta-il-vaccino

Sole24ore sanità. Cassazione/ Porto d’armi, legittima la comunicazione della cartella clinica. Ma il sistema non è coordinato

La massima
È legittima la comunicazione della cartella clinica, da parte di un’azienda sanitaria all’autorità di pubblica sicurezza, in relazione ad un procedimento per la revoca del porto d’armi purché il trattamento avvenga in modo corretto e riservato, secondo le modalità fissate dalla legge e senza una indiscriminata diffusione verso “soggetti indeterminati”.
Questa è l’opinione della prima sezione civile, espressa nella sentenza 11800 del 5 maggio scorso, che è entrata in un tema delicatissimo come quello della comunicazione di dati sensibili al di fuori della relazione medico e paziente con problemi di dipendenza e/o psichiatrici. Tema divenuto di tragica attualità dopo la strage di Ardea. Occasione che ha permesso alla Corte di ricordare i principi, anche sanitari, che governano il rilascio del porto d’armi.

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Tar lazio sentenza n.7333/2021. Richiesta accesso atti trasmissione Report.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 198 del 2021, proposto da
Omissis, rappresentato e difeso dagli avvocati Paola Balzarini, Andrea Mascetti, Filippo Nicolo’ Boscarini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Rai – Radiotelevisione Italiana S.p.A., rappresentato e difeso dagli avvocati Massimo Luciani, Piermassimo Chirulli, Patrizio Ivo D’Andrea, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Massimo Luciani in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio, n. 9;

nei confronti

Giorgio Mottola, Sigfrido Ranucci non costituiti in giudizio;

per l’annullamento

PER L’ANNULLAMENTO

del provvedimento prot. n. ALS/D/0009766 del 12.11.2020, trasmesso a mezzo PEC al ricorrente in data 27.11.2020, avente ad oggetto «trasmissione “Report” “Vassalli, valvassori e valvassini” del 26 ottobre 2020 – istanza di accesso agli atti ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990 e dell’art. 5 c. 2 del d.lgs. n. 33/2013”, con cui la Rai-Radiotelevisione Italiana S.p.A. ha respinto l’istanza di accesso presentata dal ricorrente in data 29.10.2020;

NONCHÉ

PER L’ACCERTAMENTO

del diritto del ricorrente all’accesso agli atti, documenti, dati e informazioni richiesti con istanza del 29.10.2020

E PER LA CONDANNA

della Rai-Radiotelevisione Italiana S.p.A. all’ostensione degli atti, documenti, dati e informazioni richiesti dal ricorrente, nessuno escluso, ai sensi degli artt. 22 e segg. della L. n. 241/1990 o ai sensi dell’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 33/2013.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Rai – Radiotelevisione Italiana S.p.A.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 marzo 2021 la dott.ssa Chiara Cavallari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

  1. Con ricorso notificato il 28 dicembre 2020 e depositato in data 7 gennaio 2021 il ricorrente riferiva in via preliminare di aver proposto istanza di accesso (documentale e civico) alla RAI, odierna resistente, in ragione della dichiarata “esigenza di tutelare la propria reputazione nelle sedi competenti”, esponendo che la sua persona e l’attività professionale esercitata erano state oggetto (per la durata di venti minuti) della narrazione editoriale resa nell’ambito di un servizio mandato in onda durante la trasmissione “Report” e deducendo al riguardo che nel contesto del suddetto servizio sarebbero state riportate notizie false e fuorvianti.

1.1. Riferiva il ricorrente, in particolare, di aver richiesto l’ostensione del materiale informativo necessario per poter promuovere iniziative a tutela del suo buon nome dinanzi alle competenti Autorità giudiziarie e amministrative, come di seguito specificato:

“a) tutte le richieste rivolte dai giornalisti e/o dalla redazione di “Report”, tramite e-mail o con qualsiasi mezzo scritto o orale, a persone fisiche ed enti pubblici (Comuni, Province, ecc.) o privati (fondazioni, società, ecc.), per ottenere informazioni e/o documenti riguardanti la persona dell’avv. Omissis e la sua attività professionale e culturale;

b) tutti i documenti e/o le informazioni fornite ai giornalisti e/o alla redazione di “Report” a seguito delle richieste sub a), e in particolare la corrispondenza personale intercorsa tra lo scrivente e soggetti terzi illustrata nella parte finale del servizio;

c) ogni altra corrispondenza non ricompresa sub a) o b) che sia intervenuta tra i giornalisti e/o la redazione di “Report” con riferimento all’avv. Omissis o allo Omissis;

d) file video integrali della trasmissione e in particolare delle interviste poi confluite nel servizio mostrato al pubblico;

e) dati integrali degli ascolti della trasmissione su base nazionale e regionale;

f) dati integrali relativi alla pubblicizzazione del servizio sui canali Rai, quotidiani, periodici o altri mezzi di informazione”.

  1. Rappresentava che la RAI aveva opposto un diniego integrale all’istanza di accesso avanzata, avverso il quale il ricorrente medesimo proponeva gravame articolando due motivi di doglianza, di seguito riportati:

“I.- Violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 e del d.p.r. 12 aprile 2006, n. 184, anche in relazione al d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 3, della legge 3 febbraio 1963, n. 69. Violazione degli artt. 2, 21, 24 e 97 della costituzione. Violazione dei principi di buon andamento, proporzionalità e ragionevolezza. Eccesso di potere per travisamento dei presupposti, difetto di motivazione e ingiustizia manifesta”;

“II.- In subordine: Violazione e falsa applicazione del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, modif. dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97. Violazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Violazione delle linee guida ANAC di cui alla delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016. Eccesso di potere per difetto di motivazione, travisamento dei presupposti, illogicità manifesta e violazione delle circolari n. 1/2014 e n. 2/2017 del ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione”.

2.1. Sul piano della legittimazione attiva all’accesso ex L. n. 241/1990, il ricorrente deduceva la sussistenza di un interesse “diretto”, in ragione dell’obiettiva riferibilità della documentazione richiesta alla sua persona trattandosi di materiale inerente al servizio televisivo che lo aveva specificamente riguardato, di un interesse “concreto” in quanto funzionale a promuovere iniziative a tutela del suo buon nome e di un interesse “attuale” dal momento che il servizio giornalistico lesivo della sua reputazione sarebbe tuttora visionabile sul sito internet della RAI, risultando lontana la scadenza dei termini di prescrizione per la proposizione di eventuali azioni risarcitorie.

Quanto alla ricorrenza dell’ulteriore presupposto normativo rappresentato dalla sussistenza di una situazione giuridicamente tutelata in collegamento alla documentazione oggetto dell’istanza di accesso, il ricorrente deduceva che i documenti concernenti l’attività espletata dai giornalisti (incaricati del pubblico servizio radiotelevisivo) con riferimento alla persona del ricorrente medesimo, così come i dati degli ascolti, risulterebbero strettamente collegati alla situazione legittimante integrata dall’esigenza di tutela dei diritti – di rilievo costituzionale – all’onore a al buon nome, in quanto preordinati alla piena conoscenza di ciò che avrebbe preceduto la messa in onda del servizio e la diffusione dei contenuti lesivi, in vista dell’eventuale proposizione di iniziative risarcitorie.

2.2. Sosteneva la ricorrenza della legittimazione passiva all’accesso ex L. n. 241/1990 in capo alla RAI anche in relazione alle iniziative editoriali in quanto inerenti al servizio pubblico radiotelevisivo quale attività di interesse generale.

2.3. Deduceva la riconducibilità del materiale richiesto alla nozione di “documento amministrativo” ex L. n. 241/1990, assumendone l’idoneità ad includere la corrispondenza intercorsa tra la Redazione del programma e soggetti terzi con riferimento alla persona del ricorrente ovvero al suo studio legale, nonché i files video integrali delle interviste, ribadendone il carattere necessario per verificare la fedeltà del servizio mandato in onda rispetto al materiale di lavoro originale.

2.4. Sosteneva, infine, l’inconferenza del richiamo al segreto professionale ex L. n. 69/1963 addotto dalla RAI a sostegno del diniego opposto all’istanza di accesso avanzata, evidenziando di aver chiesto non di conoscere l’identità delle “fonti” (ossia delle persone che avrebbero fornito le notizie rappresentate) bensì di acquisire la documentazione su cui si è fondata l’iniziativa editoriale, ribadendo in ogni caso la prevalenza dell’interesse difensivo alla base dell’istanza di accesso ferma restando la possibilità per l’Ente di adottare i necessari accorgimenti nell’assicurare l’ostensione della documentazione richiesta (eventualmente oscurando i dati identificativi delle c.d. “fonti”).

2.5. Quanto al secondo motivo di doglianza, proposto in via subordinata rispetto alle censure articolate nel primo motivo di gravame, il ricorrente assumeva l’integrazione dei presupposti per l’accesso civico generalizzato, contestando nel merito le argomentazioni riportate dalla RAI nel diniego di accesso gravato per sostenere la sottrazione dell’Ente dall’ambito operativo di tale forma di accesso in relazione alla ritenuta ricorrenza di un’ipotesi di esclusione soggettiva (connessa, in particolare, all’addotta circostanza relativa all’emissione di strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati ai sensi dell’art. 2-bis, comma 2, lett. b) del D.Lgs. n. 33/2013, in combinato disposto con l’art. 2, comma 1, lett. p) del D.Lgs. n. 175/2016).

Sosteneva, al riguardo, che dovrebbe trovare applicazione il comma 3 del richiamato art. 2-bis circa la sottoposizione al regime dell’accesso civico delle società a partecipazione pubblica, quale principio suscettibile di applicazione in ogni caso, anche in deroga a quanto previsto nel comma precedente (invocato dalla Società resistente).

2.6. Parte ricorrente chiedeva dunque l’annullamento del diniego opposto con conseguente accertamento del diritto di accesso e condanna dell’Amministrazione resistente all’ostensione dei documenti e dei dati richiesti.

  1. Si costituiva in giudizio la Società resistente, depositando apposita documentazione e memoria per lo svolgimento delle proprie difese.

Riferiva in via preliminare che il ricorrente aveva altresì proposto reclamo ex art. 77 del Regolamento (UE) 2016/679 al Garante della protezione dei dati personali, risultando il relativo procedimento allo stato pendente.

Deduceva in primo luogo l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, invocando l’assenza di un nesso di strumentalità tra quanto richiesto nell’istanza di accesso e lo scopo difensivo dichiarato dal ricorrente, sostenendo che quasi la totalità dei documenti richiesti risulterebbe irrilevante ai fini di un’eventuale azione risarcitoria, concludendo quindi per il carattere esplorativo dell’istanza avanzata.

Affermava al riguardo che sarebbe pertinente alla finalità difensiva evidenziata soltanto il servizio mandato in onda – quale asserita fonte del preteso danno – evidenziando in ogni caso la libera accessibilità della connessa documentazione (in particolare, del file video della trasmissione e dei dati relativi agli ascolti e alla pubblicizzazione del servizio) in quanto disponibile sul sito della RAI.

Contestava poi la pretesa riconduzione dell’attività editoriale e giornalistica alla sfera dell’attività di pubblico servizio, oggetto del regime di accesso.

Affermava al riguardo che l’attività della RAI quale concessionaria del pubblico servizio non potrebbe in ogni caso ricomprendere gli aspetti inerenti all’espletamento della prestazione resa dal giornalista nell’elaborazione dei contenuti del singolo servizio, in quanto profili attinenti alla libera esplicazione dell’opera creativa e intellettuale del giornalista incaricato, nel cui ambito rientrerebbero la raccolta, l’elaborazione ovvero il commento delle notizie riportate.

Sosteneva, inoltre, l’integrazione nel caso di specie di una causa di esclusione del diritto di accesso rappresentata dal segreto professionale ex art. 2, comma 3, L. n. 69/1963, connesso alla libertà di stampa – quale circostanza invocata nel diniego oggetto di gravame – assumendo in particolare che la “fonte” giornalistica non sarebbe unicamente chi racconta un fatto, ma ogni realtà in grado di documentarne l’accadimento in modo quanto più diretto possibile (nel cui novero rientrerebbe la documentazione richiesta da parte ricorrente).

Contestava l’asserita preminenza dell’accesso difensionale sul prospettato segreto giornalistico, ribadendo la carenza di interesse del ricorrente nei termini sopra evidenziati.

Deduceva, infine, l’esclusione della RAI medesima dall’applicazione della disciplina in tema di accesso civico in quanto società emittente, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati, ai sensi dell’art. 2-bis, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 33/2013.

Evidenziava al riguardo che la RAI ha effettuato due emissioni di strumenti finanziari quotati (la prima risalente al 28 maggio 2015) e che tale dato è pubblico in quanto liberamente accessibile online.In vista della trattazione del ricorso, le parti depositavano memorie e repliche.

Alla camera di consiglio del 10 marzo 2021 la causa veniva trattenuta in decisione.

Il ricorso merita parziale accoglimento, nei termini di seguito illustrati.

Il Collegio ritiene di poter esaminare congiuntamente i motivi formulati in ricorso involgenti, da un lato, l’istituto dell’accesso documentale ex L. n. 241/1990 e, dall’altro, la figura dell’accesso civico generalizzato ex D.lgs. n. 33/2013 come modificato dal successivo D.lgs. n. 97/2016, in quanto passaggio logico-giuridico necessario per affrontare la questione relativa alla delimitazione dell’oggetto della pretesa ostensiva in relazione al contenuto specifico dell’istanza avanzata, in quanto riferita sia a “documenti”, sia a “dati” e “informazioni” detenuti dalla RAI, come puntualmente individuati dal ricorrente istante.

A ciascuna forma di accesso, infatti, corrisponde una differente configurazione, in base al regime previsto, non solo sul versante della legittimazione attiva ma anche quanto al profilo materiale, assumendo la recente figura dell’accesso civico generalizzato una dimensione più ampia sul piano dell’oggetto della pretesa conoscitiva in quanto esteso dai “documenti” ai “dati” e più in generale alle “informazioni” detenute dalle Amministrazioni.

Ciò premesso, il Collegio ritiene di dover confermare, in accoglimento dell’eccezione sul punto formulata dalla Società resistente, quanto recentemente statuito dalla Sezione con la sentenza 3 marzo 2021 n. 2607 circa l’integrazione nei confronti della RAI di una delle ipotesi, contemplate in via normativa, di esclusione sul piano soggettivo dall’ambito operativo della figura dell’accesso civico.

L’art. 2 bis del D.lgs. n. 33/2013, infatti, nell’individuare il campo di applicazione della disciplina dell’accesso civico, al comma 2 lett. b), come successivamente modificato, dispone che essa si applica “… alle società in controllo pubblico come definite dall’articolo 2, comma 1, lettera m), del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175. Sono escluse le società quotate come definite dall’articolo 2, comma 1, lettera p), dello stesso decreto legislativo”.

Il richiamato articolo 2, comma 1, lettera p), D.lgs. n. 175/2016 definisce società quotate come “le società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati; le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati”.

Riprendendo le argomentazioni esposte nella pronuncia n. 2607/2021 sopra citata, si evidenzia che la soluzione accolta dal Legislatore trova altresì conferma nelle considerazioni espresse nell’ambito del parere n. 1257/2017 reso dal Consiglio di Stato sullo schema di Linee guida dell’ANAC elaborato per aggiornare quelle già emesse per l’applicazione del D.lgs. n. 33/2013 all’esito delle modifiche intervenute con il D.lgs. n. 97/2016.

Nel parere richiamato si osservava, infatti, che “Le società quotate, sono sottoposte ad un sistema di obblighi, di controlli e di sanzioni autonomo, in ragione dell’esigenza di contemperare gli interessi pubblici sottesi alla normativa anticorruzione e trasparenza con la tutela degli investitori e dei mercati finanziari, e questa circostanza ben potrebbe giustificare l’esonero dagli obblighi di trasparenza in questione”.

Sul punto, la RAI ha allegato la circostanza relativa all’intervenuta emissione di strumenti finanziari quotati sui mercati regolamentati fin dal 28 maggio 2015, evidenziando la natura pubblica del relativo dato (e indicando il link per accedere alla suddetta informazione, disponibile online).

Risulta quindi integrata, nei confronti della Società odierna resistente, una ipotesi – espressamente prevista dalla disciplina normativa in materia – di sottrazione dal regime dell’accesso civico ai sensi dell’art. 2 bis D.lgs. n. 33/2013, comma 2, lettera b), in combinato disposto con l’articolo 2, comma 1, lettera p), D.lgs. n. 175/2016.

Di conseguenza, il ricorso è inammissibile limitatamente alla pretesa ostensiva espressamente rivolta a “dati” e “informazioni” detenuti dalla RAI, puntualmente individuati nell’istanza avanzata (in sede amministrativa e poi giurisdizionale).

In ogni caso, la Società resistente ha dedotto negli atti difensivi che alcuni dati richiesti da parte ricorrente (in particolare, i dati integrali degli ascolti della trasmissione su base nazionale e quelli relativi alla pubblicizzazione del servizio trasmesso) sono liberamente accessibili online, depositandone il relativo estratto.Sul piano dell’accesso documentale, viceversa, occorre evidenziare in via preliminare che la Sezione ha già avuto occasione di affermare l’assoggettamento della RAI al diritto di accesso di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 (cfr., ex multis, sentenze n. 9347/2019 e n. 1354/2018), in forza del riferimento normativo anche ai “gestori di pubblici servizi” in quanto tale Ente, pur nella sua veste formalmente privatistica di S.p.a. e pur agendo mediante atti di diritto privato, conserva indubbiamente significativi elementi di natura pubblicistica, ravvisabili in particolare: a) nella prevista nomina di numerosi componenti del C.d.A. non già da parte del socio pubblico, ma da un organo ad essa esterno quale la Commissione parlamentare di vigilanza; b) nell’indisponibilità dello scopo da perseguire (il servizio pubblico radiotelevisivo), prefissato a livello normativo; c) nella destinazione di un canone, avente natura di imposta, alla copertura dei costi del servizio da essa gestito. L’azienda, inoltre, è di proprietà pubblica e rappresenta la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo, sicché non è revocabile in dubbio la sua riconducibilità di pieno diritto all’ambito di applicazione della normativa sul diritto di accesso, entro i confini delimitati dall’art. 23 della Legge n. 241 del 1990 che, non a caso, menziona tra i soggetti passivi del diritto di accesso, accanto alle pubbliche amministrazioni e agli enti pubblici, anche i “gestori di pubblici servizi”, nel cui novero va certamente collocata la RAI.

Ciò posto, muovendo alla disamina delle censure sul punto articolate in ricorso, il Collegio ritiene in via preliminare che non possa condividersi l’eccezione di inammissibilità formulata dalla Società resistente circa la pretesa carenza in capo al ricorrente di un interesse all’ostensione della documentazione richiesta.

In primo luogo, occorre richiamare il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui la “strumentalità” del diritto di accesso – declinata dall’art. 22, comma 1, lett. b, L. n. 241/1990 come finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale (e non meramente emulativo o potenziale) connesso alla disponibilità dell’atto o del documento del quale si richiede l’accesso – va intesa in senso ampio, in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, sent. 15 maggio 2017 n. 2269, sez. III, sent. 16 maggio 2016 n. 1978 e sez. IV, sent. 6 agosto 2014 n. 4209).

È stato chiarito, infatti, che “la legittimazione all’accesso non può essere valutata facendo riferimento alla legittimazione della pretesa sostanziale sottostante, ma ha consistenza autonoma, indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata, sicché, una volta accertato il collegamento tra l’interesse e il documento, ogni ulteriore indagine sull’utilità ed efficacia del documento stesso in prospettiva di tutela giurisdizionale ovvero sull’esistenza di altri strumenti di tutela eventualmente utilizzabili è del tutto ultronea” (Cons. Stato, sez. V, sent. 9 marzo 2020, n. 1664).

In tale prospettiva, la valutazione in ordine al legame tra finalità dichiarata e documento richiesto – quale presupposto di ammissibilità della pretesa ostensiva – va effettuata in astratto, senza apprezzamenti sull’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti in questione, potrebbe proporre, risultando sufficiente che la documentazione richiesta costituisca, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, non dovendo rappresentare uno strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (in termini, cfr. altresì Cons. Stato, sez. III, sent. 13 gennaio 2012, n. 116).

Ciò posto, non può accogliersi la prospettazione formulata dalla Società resistente circa la pretesa inammissibilità dell’istanza per carenza di interesse, fondata sull’assunto per cui ai fini dell’invocata esigenza difensiva (connessa alla tutela della reputazione del ricorrente) sarebbe sufficiente l’acquisizione del servizio mandato in onda – in ogni caso disponibile online (sulla piattaforma di RaiPlay) – in quanto elemento integrante il preteso danno, mentre risulterebbe ultronea l’ulteriore documentazione richiesta.

Non può, infatti, revocarsi in dubbio la sussistenza della legittimazione in capo al ricorrente ai sensi dell’art. 22 L. n. 241/1990, vantando quest’ultimo un interesse qualificato, connotato dai requisiti della personalità, concretezza ed attualità considerato che l’istanza ostensiva avanzata concerne la documentazione connessa all’avvenuta diffusione di notizie – operata nell’ambito del servizio mandato in onda all’interno della trasmissione televisiva in epigrafe indicata – che lo hanno visto direttamente e specificamente coinvolto, avendo ad oggetto la rappresentazione di fatti asseritamente riguardanti la sua persona e l’attività professionale esercitata.

Ad una diversa conclusione non può pervenirsi sulla base di una valutazione in termini di presunta irrilevanza dell’istanza ostensiva avanzata rispetto alla finalità difensiva prospettata, non spettando all’Ente destinatario della richiesta di accesso in sede di amministrazione attiva – né al giudice in sede di tutela giurisdizionale – condurre apprezzamenti sull’attitudine in concreto della documentazione richiesta a supportare la fondatezza dell’azione giurisdizionale invocata quale mezzo di difesa della situazione giuridica vantata, alla stregua del costante orientamento della giurisprudenza amministrativa sopra richiamato.

Il Collegio, inoltre, ritiene di non poter accogliere l’ulteriore eccezione di inammissibilità fondata sulla pretesa carenza di legittimazione passiva della Società resistente, dedotta sull’assunto della sostenuta estraneità dell’attività, oggetto dell’istanza ostensiva avanzata dal ricorrente, all’ambito del servizio pubblico radiotelevisivo gestito dalla RAI giustificante l’assoggettamento alla disciplina in tema di accesso ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. e), L. n. 241/1990.

Da un lato, la rappresentazione di notizie operata all’interno di un servizio trasmesso nel corso di un programma di inchiesta giornalistica in onda su una rete RAI non può configurarsi come attività distinta da quella di “informazione pubblica” riconducibile nell’ambito della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo affidato in gestione alla medesima Società, del quale sono ritenuti caratteri essenziali il pluralismo, la democraticità e l’imparzialità dell’informazione (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 112/1993; in senso analogo, cfr. TAR Lazio, sede di Roma, sez. I, sent. 14 giugno 2019, n. 7761).

Dall’altro, l’attività consistente nella rappresentazione di notizie non può ritenersi disgiunta da quella preparatoria, volta all’acquisizione, alla raccolta e all’elaborazione delle notizie poi oggetto di rappresentazione.

  1. Ravvisata la ricorrenza nel caso di specie dei presupposti di ammissibilità dell’accesso documentale, occorre muovere alla delimitazione della documentazione suscettibile di ostensione, in base alla disciplina prevista dagli artt. 22 ss. L. n. 241/1990 e alla luce delle deduzioni del ricorrente quanto all’interesse prospettato e alla situazione giuridicamente tutelata collegata ai documenti oggetto della richiesta di accesso.

12.1. Emerge dagli atti di causa in punto di fatto che il servizio di inchiesta giornalistica trasmesso, nel cui ambito è stata fornita la rappresentazione di circostanze asseritamente riguardanti l’attività professionale del ricorrente, aveva ad oggetto la gestione dei fondi regionali e la complessa rete di rapporti che vedrebbero coinvolti l’amministrazione locale e i professionisti attivi sul territorio della Regione Lombardia e che in tale contesto la persona del ricorrente veniva indicata come professionista di riferimento per le attività di consulenza e per altri incarichi affidati dalla Regione e da alcune amministrazioni comunali ovvero da altri enti pubblici a carattere locale.

La deduzione del ricorrente sul punto è di essere stato oggetto, nel corso del servizio mandato in onda, di una rappresentazione connotata in senso negativo fondata su informazioni false e fuorvianti, in quanto sarebbe stato indicato come riferimento soggettivo di un intreccio di rapporti quantomeno opachi, lamentando la conseguente grave lesione dell’immagine e della reputazione del ricorrente stesso, nonché del suo studio legale.

12.2. Nella prospettiva delineata, va ritenuta suscettibile di ostensione nel caso in esame la documentazione connessa all’attività preparatoria di acquisizione e di raccolta di informazioni riguardanti le prestazioni di carattere professionale svolte dal ricorrente in favore di soggetti pubblici, confluite nell’elaborazione del contenuto del servizio di inchiesta giornalistica mandato in onda, nello specifico avente ad oggetto la rete di rapporti di consulenza professionale instaurati su incarico di enti territoriali e locali.

La suddetta documentazione risulta costituita, in particolare, dalle richieste informative rivolte in via scritta dalla redazione del programma ad enti di natura pubblica in merito all’eventuale conferimento di incarichi ovvero di consulenze in favore di parte ricorrente, unitamente ai riscontri forniti dai suddetti enti, in quanto rientranti nel novero dei documenti e degli atti formati ovvero detenuti da una pubblica amministrazione o da un privato gestore di un pubblico servizio.

12.3. La delimitazione in siffatti termini della documentazione ostensibile, coinvolgendo l’interlocuzione intercorsa con soggetti di natura pubblica, rende priva di rilievo nel caso concreto la prospettazione difensiva articolata dalla Società resistente circa la prevalenza che dovrebbe riconoscersi al segreto giornalistico sulle “fonti” informative per sostenere l’esclusione ovvero la limitazione dell’accesso nel caso di specie.

  1. Il ricorso va quindi accolto parzialmente, nei sensi e nei termini sopra illustrati.

13.1. Tale accoglimento deve ritenersi subordinato ai seguenti limiti:

a) la resistente RAI dovrà consentire al ricorrente, entro giorni trenta dalla comunicazione o notificazione (se anteriore) della presente sentenza, l’accesso agli atti e ai documenti sopra individuati;

b) l’accesso dovrà essere consentito unicamente agli atti effettivamente formati e detenuti dalla RAI, essendo ontologicamente impossibile che esso sia effettuato rispetto ad atti non documentati; pertanto, nel caso e nella misura in cui taluni degli atti di cui alla superiore lettera a) non siano stati oggetto di documentazione, RAI dovrà fare menzione di tale circostanza; ciò alla luce della condivisibile regola per cui l’Amministrazione può e deve consentire l’accesso unicamente a documenti già esistenti e che siano in suo possesso, in quanto, alla luce del principio ad impossibilia nemo tenetur, anche nei procedimenti di accesso ai documenti amministrativi l’esercizio del relativo diritto o l’ordine di esibizione può riguardare solo i documenti esistenti e non anche quelli non più esistenti o mai formati (cfr. Cons. St., sez. V, sent. 19 febbraio 2018, n. 1033); e spetta all’Amministrazione destinataria dell’accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali sono gli atti inesistenti che non è in grado di esibire (TAR Lazio, sez. III bis, sent. 2 novembre 2018, n. 10553).

  1. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente, nei sensi e nei termini di cui in motivazione.

Condanna la Società resistente al pagamento delle spese di giudizio in favore di parte ricorrente che liquida forfetariamente in euro 2.000,00 (duemila/00), oltre IVA, CPA e rimborso del contributo unificato versato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 marzo 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25 D.L. n. 137/2020, con l’intervento dei magistrati:

Giuseppe Daniele, Presidente

Ugo De Carlo, Consigliere

Chiara Cavallari, Referendario, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Chiara Cavallari Giuseppe Daniele

Studio dentistico. Assistenti alla poltrona senza titolo ancora per un anno

La conferenza Stato Regioni nella seduta del 17 Giugno ha chiesto al Governo una nuova proroga 12 mesi delle disposizioni transitorie di cui all’art. 13 del DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 9 febbraio 2018  che istituì la figura dell’assistente di studio odontoiatrico.

Sarà quindi ancora possibile “assumere dipendenti con la qualifica contrattuale di Assistente alla poltrona, privi dell’apposito titolo, fermo restando l’obbligo da parte dei datori di lavoro di provvedere affinché gli stessi acquisiscano l’attestato di qualifica/certificazione di Assistente di studio odontoiatrico entro trentasei mesi dall’assunzione”.

Il dentista può assumere un’assistente alla poltrona con contratto di apprendistato?

La risposta è positiva

La normativa

Il D.P.C.M. 9 febbraio 2018 – nel recepire l’accordo del 23 novembre 2017 tra Governo, Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano, relativo all’individuazione del profilo professionale ASO quale “Operatore di interesse Sanitario” ai sensi della L. n. 43/2006 –definisce tale figura come “l’operatore in possesso dell’Attestato conseguito a seguito della frequenza di specifico corso di formazione (…) che svolge attività finalizzate all’assistenza dell’odontoiatra e dei professionisti sanitari del settore durante la prestazione clinica, alla predisposizione dell’ambiente e dello strumentario, all’accoglimento dei clienti ed alla gestione della segreteria e dei rapporti con i fornitori (…)”.

Il parere dell’ispettorato del lavoro

La risposta trova conforto nell’opinione qualificata dell’Ispettorato del Lavoro di Bari che in data 31/05/2021  che ha risposto ad un quesito sul punto.  

l’art. 44 del D.Lgs. n. 81/2015 consente ai datori di lavoro pubblici o privati, in tutti i settori di attività, di assumere soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni con contratto di apprendistato professionalizzante, per il conseguimento di una qualificazione ai fini contrattuali. Esso consta di una componente formativa erogata in parte in azienda e in parte all’esterno, attraverso l’offerta formativa pubblica volta all’acquisizione di competenze di base e trasversali.

Nella vigenza della precedente normativa in materia di apprendistato – con particolare riferimento ai Direzione centrale coordinamento giuridico Ispettorato nazionale del lavoro Direzione centrale coordinamento giuridico Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha già precisato che il ricorso a tale tipologia contrattuale non è automaticamente escluso purché nel piano formativo individuale siano indicati appositi percorsi formativi coerenti con le esigenze dell’impresa ed “uno sviluppo di competenze diverse ed ulteriori, anche di tipo integrativo, rispetto a quelle già maturate ai fini dell’abilitazione”, riscontrabili nello svolgimento concreto delle attività (cfr. interpello n. 38/2010).

Ciò premesso, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva e nel rispetto delle disposizioni in essa contenute in termini di durata e modalità di erogazione della formazione, non si ravvisano ragioni ostative alla applicabilità di tale principio anche nelle ipotesi in esame.

Pertanto, il possesso dell’abilitazione non esclude l’assunzione dell’ASO con contratto di apprendistato professionalizzante, potendo portare ad una modulazione del percorso formativo, eventualmente ridotto, che tenga conto delle competenze acquisite nel corso della formazione già effettuata e della disciplina regionale di riferimento in relazione alla durata ed ai contenuti dell’offerta formativa pubblica di base e trasversale, determinata sulla base del titolo di studio posseduto dall’apprendista al momento dell’assunzione.

Illegittima la delibera che impone al medico di prescrivere il farmaco off-label meno costoso

Una sentenza destinata a fare giurisprudenza quella emessa dalla sezione terza del  Consiglio di Stato n. 3648/2021, depositata il 10 maggio, che entra nel merito di tre importanti questioni:

  • Se le Regioni hanno titolo a valutare l’equivalenza terapeutica.
  • L’estensione e limiti della libertà terapeutica del medico e al correlato diritto alla continuità terapeutica del paziente.
  • Determinazione del rimborso alle strutture del costo dei farmaci  (nella fattispecie Avastin, Lucentis, Eylea per il trattamento della degenerazione maculare legato all’età (Age-related Macular Degeneration, AMD- e dell’edema maculare diabetico – Diabetic Macular Edema, DME).

I Giudici di Palazzo Spada hanno respinto l’appello Regionale della Regione Lombardia e  confermato la sentenza del Tar della Lombardia n. 1533/2020 che dichiarò illegittima la delibera della giunta regionale n. XI/1986.

In particolare, hanno ritenuto illegittimo,  il paragrafo 1.4.3 che prevedeva, a decorrere dal 1 agosto 2019, in modo uniforme per tutti i farmaci che  un rimborso pari a 55,6 Euro per singola somministrazione per occhio»  al posto del  prezzo di costo effettivamente sostenuto dalla struttura per il loro acquisto (sulla base dei prezzi concordati con AIFA per le specifiche classificazioni di rimborsabilità, al netto degli sconti).

La dichiarazione di appropriatezza spetta all’AIFA

Compete alla sola AIFA e non alle Regioni la valutazione dell’ equivalenza terapeutica tra medicinali a base di diversi principi attivi nella fattispecie: Aflibercept (Eylea), Ranibizumab (Lucentis) Bevacizumab (Avastin).

Ne consegue, afferma il Consiglio di Stato, che la Regione Lombardia  ha esorbitato dalle proprie attribuzioni, invadendo le competenze esclusive di AIFA in tema di determinazione del prezzo di rimborso a carico del S.S.N.,  realizzando un indebito condizionamento sul medico prescrittore ed alterando anche i principi relativi all’impiego off label dei farmaci, riconoscendo un rimborso fisso di gran lunga inferiore al costo di acquisto del medicinale effettivamente somministrato.

Principio di eccezionalità prescrizione of-label

La delibera, come già anticipato, finisce, peraltro, per alterare profondamente i principi generali sulla prescrivibilità dei medicinali fissati dall’art. 3 del d.l. 23/1998, secondo cui “il medico, nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente, si attiene alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità”, in quanto induce i medici a preferire l’uso off label rispetto a quello ordinario on-label.

Con  tale deliberazione la Regione avrebbe imposto, surrettiziamente, l’uso del farmaco off-label in luogo di quelli autorizzati per la cura specifiche patologie, non tenendo conto che il farmaco off-label può essere somministrato solo in taluni casi, sotto la responsabilità del medico, previo consenso informato del paziente.

Illegittimo il cambio obbligato

Il criterio della non sostituibilità prescrittiva, soprattutto nella forma “automatica”, sarebbe particolarmente evidente nell’ambito dei medicinali biologici, al punto che il Legislatore ha previsto (art. 15, comma 11-quater, d.l. 95/2012) che “non è consentita la sostituibilità automatica tra farmaco biologico di riferimento e un suo biosimilare né tra biosimilari”; ciò a maggior ragione vale nel caso di farmaci biologici basati su principi attivi diversi, come nel caso di specie.

Secondo la regione Lombardia, al contrario,la determinazione impugnata non avrebbe inciso sul prezzo di acquisto dei farmaci, ma avrebbe solo operato una riduzione del compenso previsto per gli erogatori per allinearlo ai tre farmaci di pari efficacia, con la conseguenza che si tratterebbe di una misura di politica tariffaria e di programmazione non occorrendola dichiarazione di equivalenza terapeutica bastando il criterio della “valida alternativa”.

La scelta del farmaco meno oneroso da parte del medico tra tre prodotti di pari efficacia, afferma la difesa della Regione,  costituirebbe un suo preciso dovere, sanzionabile in caso di inosservanza.

Quando l’AIFA dichiara la sovrapponibilità è lecito chiedere ai medici di privilegiare il farmaco meno costoso, affermano i giudici, ma  l’affermazione Regionale è valida solo dopo che l’AIFAha dichiarato la sovrapponibilità terapeutica e salvaguardando il diritto di scelta del medico.

In tal caso è lecito che l’amministrazione solleciti i medici a  “privilegiare la scelta della somministrazione economicamente più vantaggiosa, fatta salva la necessaria appropriatezza delle prescrizioni mediche” rimessa alla valutazione del medico prescrittore secondo scienza e coscienza.

Con tale determinazione, infatti, AIFA, si limita a prevedere, anche attraverso la compilazione della scheda multifarmaco, l’assolvimento di un onere di motivazione sulla scelta del medicinale da prescrivere, senza introdurre sanzioni economiche dirette o indirette a carico del medico che non si orienti verso tale scelta.

Il medico è dunque libero di prescrivere il farmaco da lui ritenuto maggiormente appropriato al caso clinico che deve trattare; qualora la scelta di appropriatezza terapeutica ricada sul farmaco on-label più costoso del medicinale Avastin prescrivibile off-label, ciò non comporta alcuna conseguenza né economica né disciplinare per il prescrittore, né tantomeno comporta oneri a carico della struttura sanitaria presso cui il paziente è stato curato.

La Corte Costituzionale (Ad. Plen. 12 aprile 2012, n. 4 che richiama Corte Cost., 28 luglio 1995, n. 416), ricorda la pronuncia, ha delineato una soluzione intermedia del diritto alla salute, affermando che la necessaria discrezionalità del legislatore nel dare attuazione ai princìpi e ai diritti fondamentali deve necessariamente incontrare comunque il noto limite della “riserva del ragionevole e del possibile”. (cfr., Cons. Stato, Sez. III, 14 settembre 2017, n. 4347).

Libertà prescrittiva motivata

La Sezione ha più volte riconosciuto il principio della libertà prescrittiva del medico ( Cons. Stato, Sez. III, 29/9/2017 n. 4546; id. del 5/4/2019 n. 2234), precisando entro quali limiti la Regione possa introdurre linee guida nella scelta terapeutica, ed entro quali limiti.

Ne consegue che laddove non viene pregiudicata la libertà prescrittiva del medico, ma gli viene soltanto imposto un onere di motivazione sulla scelta del farmaco da prescrivere, non sussiste la violazione del suo diritto al libero esercizio della professione medica, né tantomeno viene leso il diritto alla salute del paziente.