Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

Infermiere già in aspettativa ai sensi della legge 104/1992 non può essere sospeso per mancata vaccinazione.

Con la sentenza del 26.11.2021 a firma della Dott.ssa Porcelli, il Tribunale di Milano ha accolto la richiesta di reintegra di un’infermiera sospesa per mancato assolvimento dell’obbligo vaccinale nonostante la stessa si trovasse in aspettativa retribuita biennale ex lege 104/1992.

Per il Giudice, in particolare, la sospensione presuppone, al momento della sua adozione, lo svolgimento in concreto delle prestazioni professionali da parte del soggetto che astrattamente rientra tra i lavoratori destinatari dell’obbligo di vaccinazione.

Secondo la sentenza il rapporto di lavoro della ricorrente già sospeso per la fruizione dell’aspettativa prevista dalla L. 104/1992 non può essere sospeso per altra motivazione.

DPCM 21 dicembre 2021 – c.d. “Decreto Flussi 2021/2022”

Pubblicato il decreto flussi 2021-2022

Il documento, datato 21 dicembre e firmato dal presidente del Consiglio Mario Draghi, stabilisce a titolo di programmazione transitoria dei flussi di ingresso l’entrata in Italia di un numero massimo di 69.700 cittadini non comunitari per lavoro subordinato (stagionale e non stagionale) e per lavoro autonomo.

Obbligo vaccinale per i cinquantenni

Il Consiglio dei Ministri, ha pubblicato, nella  Gazzetta Ufficiale n. 4 del 7 gennaio 2022, il Decreto n. 1 del 7 gennaio 2022, con misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore.

Queste le principali disposizione :

Il testo introduce l’obbligo vaccinale per tutti coloro che hanno compiuto i 50 anni. Per i lavoratori pubblici e privati con 50 anni di età sarà necessario il Green Pass Rafforzato per l’accesso ai luoghi di lavoro a far data dal 15 febbraio prossimo.

Senza limiti di età, l’obbligo vaccinale è esteso al personale universitario così equiparato a quello scolastico.

È esteso l’obbligo di Green Pass ordinario a coloro che accedono ai servizi alla persona; pubblici uffici, servizi postali, bancari e finanziari, attività commerciali fatte salve eccezioni che saranno individuate con atto secondario per assicurare il soddisfacimento di esigenze essenziali e primarie della persona.

Cambiano le regole per la gestione dei casi di positività.

Scuola dell’infanzia

Già in presenza di un caso di positività, è prevista la sospensione delle attività per una durata di dieci giorni.

Scuola primaria (Scuola elementare)

Con un caso di positività, si attiva la sorveglianza con testing. L’attività in classe prosegue effettuando un test antigenico rapido o molecolare appena si viene a conoscenza del caso di positività (T0), test che sarà ripetuto dopo cinque giorni (T5).

In presenza di due o più positivi è prevista, per la classe in cui si verificano i casi di positività, la didattica a distanza (DAD) per la durata di dieci giorni.

Scuola secondaria di I e II grado (Scuola media, liceo, istituti tecnici etc etc)

Fino a un caso di positività nella stessa classe è prevista l’auto-sorveglianza e con l’uso, in aula, delle mascherine FFP2.

Con due casi nella stessa classe è prevista la didattica digitale integrata per coloro che hanno concluso il ciclo vaccinale primario da più di 120 giorni, che sono guariti da più di 120 giorni, che non hanno avuto la dose di richiamo. Per tutti gli altri, è prevista la prosecuzione delle attività in presenza con l’auto-sorveglianza e l’utilizzo di mascherine FFP2 in classe.

Con tre casi nella stessa classe è prevista la DAD per dieci giorni

Scarica il decreto legge 7 gennaio 2022

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le specializzande somministrano una dose letale di chemioterapico ma la disorganizzazione del reparto riduce la colpa grave

28/09/2021 n. 77 – Corte Conti Umbria

  1. Con atto di citazione depositato in data 12 novembre 2020 e ritualmente notificato, la Procura regionale presso questa Sezione giurisdizionale regionale ha convenuto in giudizio i sig.ri [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis], come in epigrafe generalizzati – tutti Medici – per sentirli condannare, a titolo di colpa grave, ad un risarcimento danni indiretto pari, nel complesso, ad € 800.000,00, oltre accessori e spese, in favore dell’Azienda Ospedaliera di [omissis], ripartito pro quota in misura paritaria (=€ 200.000,00), a carico di ciascuno dei quattro convenuti o in diversa quota ritenuta di giustizia.
  2. La fattispecie de qua è relativa ad un danno indiretto, prospettato dalla Procura attorea, quale danno da ‘malpractice medica’ e liquidato dall’Azienda Ospedaliera di [omissis] con deliberazione n. 1439 del 31 agosto 2015, con la quale venivano corrisposti – a seguito di transazione – € 800.000,00 a titolo di risarcimento di tutti i danni, sia patrimoniali sia non patrimoniali, nei confronti degli eredi di [omissis] [omissis], deceduto in data 15 aprile 2014, presso il Reparto di [omissis] dell’Ospedale

“[omissis] [omissis] [omissis] [omissis]” di [omissis], a causa di una erronea somministrazione del farmaco “Idarubicina”, in un sovradosaggio spropositato che, nella prospettazione attorea, ne avrebbe determinato il decesso per ‘scompenso cardiaco acuto’.

2.1 La fattispecie dannosa contestata, in particolare, scaturirebbe dall’errore della specializzanda dott.ssa [omissis] [omissis] nel redigere la c.d. “stecca terapeutica”, (sia cartacea, da trasmettere via fax alla farmacia, sia informatica del paziente, indirizzata agli infermieri), che aveva riportato in modo errato la dose del farmaco (indicata in 45/ mg per mq corporeo, anziché 12 mg/ per mq corporeo, quali correttamente prescritti dalla Dr.ssa [omissis]), senza che né lei stessa né altri se ne avvedessero. Anzi, l’errore era stato confermato da un’altra specializzanda, dott.ssa [omissis] [omissis], la quale, rispondendo alla telefonata di chiarimenti ricevuta dalla Farmacia oncologica ospedaliera in ordine alla esorbitanza del dosaggio, senza consultare né la cartella clinica del paziente, né i dosaggi massimi indicati nel Protocollo AIDA, affermava che proprio quello era stato il dosaggio prescritto in applicazione del suddetto Protocollo non informava tempestivamente della richiesta telefonica ricevuta dalla Farmacia, né la specializzanda dott.ssa [omissis] , né il medico tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], responsabile del paziente.

  1. Si giungeva purtroppo alla erronea somministrazione di un dosaggio esorbitante i limiti massimi di posologia di quel farmaco, verosimilmente anche a causa della inidonea organizzazione del Reparto e degli insufficienti controlli interni predisposti dal Dirigente della struttura, Prof. [omissis] [omissis], che, soltanto dopo il fatto lesivo, dotava il reparto di un software in grado di bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci; concorreva, altresì, alla causazione del danno letale, la mancata rilevazione dell’errore fatale da parte delle quattro infermiere somministratrici delle quattro dosi letali, che non si avvedevano di nessuna anomalia; né la Farmacia oncologica, benchè sospettasse che il dosaggio richiesto fosse sproporzionato, mise in essere azioni positive che avrebbero allertato i medici responsabili di settore, limitandosi, peraltro, ad effettuare una mera telefonata di verifica – ricevuta dalla dott.ssa [omissis], specializzanda, nelle modalità già riferite – nella cui risposta la Farmacia medesima confidava, senza preoccuparsi di effettuare ulteriori verifiche con il medico prescrittore, responsabile del dosaggio.
  1. Sulla vicenda de qua è stato aperto un procedimento penale (n. 2105/005911 R.G. Notizie di reato) culminato con l’archiviazione, in data 6 novembre 2015, per insussistenza di reato, nei confronti dei signori [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis], [omissis] e [omissis]. Nei confronti di [omissis] , il procedimento penale (n. 3699/2014 R.G. Notizie di reato) è culminato invece con sentenza n. 25/16 dell’11.1.2016 del GIP, pronunciata ex art. 444 e ss. c.p.p.
  2. Il dott. [omissis] e la dott.ssa [omissis] presentavano (nell’ambito delle rispettive memorie di costituzione, tempestivamente pervenute, entro il termine del 29 aprile 2021, stabilito per la costituzione in giudizio dal Decreto presidenziale di fissazione dell’odierna udienza) formale istanza di Rito Abbreviato, ai sensi dell’art. 130 c.g.c., offrendo ciascuno il pagamento di € 100.000,00, importo corrispondente al 50% della quota della pretesa risarcitoria posta a carico di ciascuno, nell’atto di citazione; per entrambi è stato espresso il parere favorevole della Procura contabile. A seguito del Decreto n.1/2021 del 20 maggio 2021, in accoglimento delle istanze di rito abbreviato, è stata fissata l’udienza camerale del 14 luglio 2021 per la definizione del giudizio all’esito del controllo dell’avvenuto pagamento.

Risulta in atti che il pagamento è stato effettuato e che all’udienza del 14 luglio 2021 la posizione dei dottori [omissis] e [omissis] sia stata definita con sentenza di estinzione del giudizio nei loro confronti e relativa condanna alle spese processuali. (Cfr. Corte conti, Sez. giur.le Umbria, Sent. n. 73/2021 del 13 agosto 2021).

  1. Il giudizio de quo pertanto prosegue ora nei soli confronti delle altre due convenute, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis], ciascuna evocata per un danno pro capite di euro 200.000,00.

Con memoria di costituzione nell’interesse della dott.ssa [omissis] , in data 28 aprile 2021, il difensore ha chiesto, in via preliminare, di rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, per l’intervenuta prescrizione dell’azione e/o l’improcedibilità della stessa nei confronti dell’odierna deducente. Dichiarare la nullità ex art. 87 Codice Giustizia Contabile per difformità tra l’atto di citazione e l’invito a dedurre.

NEL MERITO, PREVIA DECLARATORIA DI INUTILIZZABILITÀ NEL PRESENTE GIUDIZIO DELLE PERIZIE TECNICHE VERSATE IN ATTI DALLA PROCURA:

In via principale, Rigettare allo stato degli atti la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate ed in particolare poiché il pregiudizio non è esigibile dai convenuti, potendo essere coperto dal contratto di assicurazione RCT/O n. ITOMM1301773; in subordine, rinviare ad altra udienza il presente giudizio, in attesa che la Procura regionale verifichi la copertura deldanno lamentato da parte dell’assicurazione.

In via subordinata, Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e segnatamente tutte le domande ex adverso proposte

in quanto infondate in fatto ed in diritto, non essendo prova della colpa grave in capo alla Dott.ssa [omissis]. In estremo subordine, nella denegata e non creduta ipotesi in cui questa Corte adita volesse ritenere fondate le pretese dell’attrice, si chiede di effettuare la riduzione del quantum dell’addebito posto a carico della medesima anche in relazione alla responsabilità dei concorrenti e della struttura ospedaliera stessa, parametrando comunque l’apporto al trattamento economico di tutti i soggetti evocati e non evocati

come da disposizioni della Legge Gelli, che si indicano nel Dirigente Generale e Sanitario all’epoca dei fatti, Dirigente Amministrativo all’epoca dei fatti, Dirigente Affari Generali.

All’epoca dei fatti, i membri del Co.Ge.Si. (dott. [omissis] [omissis], prof. [omissis] [omissis], Prof. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis]), Broker, Dirigente reparto [omissis] Prof.

[omissis] [omissis], il Medico Responsabile e Tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], il Dirigente della Farmacia Oncologica Ospedaliera, Dott. [omissis] [omissis], le Dirigenti Farmaciste Oncologiche, Dott.ssa [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis], nonché le Infermiere [omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis].

IN VIA ISTRUTTORIA, senza inversione dell’onere probatorio gravante sull’attrice, si chiede di ammettere C.T.U. medico legale, con riserva di nomina del perito di parte nell’interesse della dott.ssa [omissis]; ordinare la produzione documentale ex art. 94 Codice di Giustizia Contabile ed ex art. 210 c.p.c. delle polizze assicurative contratte dall’Azienda ospedaliera a copertura del contratto di specialità n. 3198 del 15.07.2013 della dott.ssa [omissis], in particolare della comunicazione fatta alla AMTrust Europe circa l’applicazione della garanzia per colpa grave ex art. 36 della polizza RCT/O n. ITOMM1301773, in favore della dott.ssa [omissis] [omissis].

La difesa della dott.ssa [omissis] ha avanzato le seguenti richieste, con memoria di costituzione del 28 aprile 2021: IN VIA PRELIMINARE: Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte per l’intervenuta prescrizione dell’azione e/o l’improcedibilità della stessa nei confronti dell’odierna deducente. NEL MERITO, in via principale, Rigettare allo stato degli atti la domanda proposta dalla Procura regionale e, segnatamente, tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate ed in particolare poiché il pregiudizio non è esigibile dai convenuti, potendo essere coperto dal contratto di assicurazione RCT/O n. ITOMM1301773; in subordine, rinviare ad altra udienza il presente giudizio, in attesa che

la Procura regionale verifichi la copertura del danno lamentato da parte dell’assicurazione. In via subordinata, Rigettare la domanda proposta dalla Procura regionale e segnatamente tutte le domande ex adverso proposte, in quanto infondate in fatto ed in diritto, non essendo prova della colpa grave in capo alla Dott.ssa [omissis]. In estremo subordine, nella denegata e non creduta ipotesi in cui questa Corte adita volesse ritenere fondate le pretese dell’attrice, si chiede di effettuare la riduzione del quantum dell’addebito posto a carico della medesima anche in relazione alla responsabilità dei concorrenti e della struttura ospedaliera stessa, parametrando

comunque l’apporto al trattamento economico di tutti i soggetti evocati e non evocati

come da disposizioni della Legge Gelli, che si indicano nel Dirigente Generale e Sanitario

all’epoca dei fatti, Dirigente Amministrativo, all’epoca dei fatti, Dirigente Affari Generali

all’epoca dei fatti, i membri del Co.Ge.Si. (dott. [omissis] [omissis], prof.

[omissis] [omissis], Prof. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis], dott.

[omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis], dott.ssa [omissis] [omissis], dott.ssa

[omissis] [omissis], dott. [omissis] [omissis]), Broker, Dirigente reparto [omissis] Prof.

[omissis] [omissis], il Medico Responsabile e Tutor dott.ssa [omissis] [omissis] [omissis],

il Dirigente della Farmacia Oncologica Ospedaliera, Dott. [omissis] [omissis], le Dirigenti

Farmaciste Oncologiche, Dott.ssa [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis],

nonché le Infermiere [omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e

[omissis] [omissis].

IN VIA ISTRUTTORIA, ordinare la produzione documentale ex art. 94

Codice di Giustizia Contabile ed ex art. 210 c.p.c. delle polizze assicurative contratte dall’Azienda ospedaliera a copertura del contratto di specialità n. 3229 del 17.07.2013 della dott.ssa [omissis] in particolare della comunicazione fatta alla AMTrust Europe circa l’applicazione della garanzia per colpa grave ex art. 36 della polizza RCT/O n. ITOMM1301773, in favore della dott.ssa [omissis] [omissis].

All’odierna udienza, a porte chiuse per via della protrazione del periodo emergenziale pandemico dovuto al Virus COV-SARS2, fino al 31.12.2021, in sede di dibattimento, le parti in causa e il rappresentante della Procura regionale hanno ribadito le proprie conclusioni scritte e confermato le proprie richieste, ulteriormente argomentando.

La causa è stata quindi trattenuta in decisione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il Collegio è chiamato a decidere su un caso ‘emblematico’ di colpa medica professionale – da cui discende, com’è noto, una responsabilità amministrativo-contabile indiretta, riveniente dal pagamento del sinistro nei confronti degli aventi diritto ad opera dell’Azienda Ospedaliera – caratterizzato da una serie di avvenimenti, a dir poco, ‘sconcertanti’, nei quali sono confluite varie responsabilità, a vari livelli e che, complessivamente, hanno dato causa all’evento letale occorso in data 15 aprile 2014 al sig. [omissis] [omissis], deceduto per ‘scompenso cardiaco acuto’ presso il Reparto di [omissis] dell’Ospedale “[omissis] [omissis] [omissis] [omissis]” di [omissis], a causa dell’erronea somministrazione del farmaco “Idarubicina”, in un sovradosaggio assai sproporzionato, che ne determinò il decesso.

Prima di affrontare il merito della causa, vanno rigettate per infondatezza le eccezioni

preliminari delle due difese, alcune delle quali di identico contenuto.

a. La difesa della dott.ssa [omissis] in primis ha contestato l’atto di citazione in giudizio eccependone la nullità per difformità ex art. 87 c.g.c.

Come ha già avuto modo di affermare in udienza il rappresentante della Procura regionale rispetto a detta doglianza, ritenendola infondata, non risulta in atti alcuna mancata corrispondenza tra atto di citazione e invito a dedurre, dalla cui semplice lettura ragionata emerge chiaramente la piena corrispondenza di petitum e causa petendi né alcun elemento contrario si rileva per poter affermare che l’atto di citazione decampi completamente dal contenuto sostanziale dell’invito a dedurre. La doglianza de qua appare meramente pretestuosa.

b. Comuni ad entrambe le difese sono le altre eccezioni preliminari e pregiudiziali:

b.1. Riguardo all’eccezione di inesigibilità del pregiudizio erariale per mancata attivazione del contratto assicurativo, si rileva subito l’inconferenza della questione, atteso che – come da giurisprudenza assai consolidata sul punto – la corretta gestione della copertura assicurativa da parte dell’amministrazione configura una circostanza totalmente estranea alla pretesa erariale azionata, al pari di quella attinente alla stipula dei contratti di assicurazione più appropriati ed idonei. (Cfr., ad esempio, tra le più recenti, Corte conti, Sezione III Appello, n. 13/2020). Ciò significa che le vicende del contratto assicurativo dell’Azienda Sanitaria Locale non hanno alcuna rilevanza sulla pretesa erariale de qua e del tutto ininfluente sul giudizio è la sottoscrizione o meno dell’appendice relativa all’estensione della franchigia, poiché tale appendice non esclude comunque l’operatività della franchigia, trattandosi di ‘assicurazione aggiuntiva’, da attivare su richiesta, con la quale la Compagnia si impegna a non surrogarsi nelle pretese nei confronti dei dipendenti; cioè a dire che la franchigia non opererebbe da parte dell’Assicurazione nei confronti dei dipendenti.

Come ha già avuto modo di sottolineare condivisibilmente il PM d’udienza, “…tale appendice non solo non risulta sottoscritta, ma neppure attivata […]” ; egli fa inoltre presente in udienza come emerga chiaramente dalle produzioni documentali, il tentativo dei convenuti di attivarla mediante adesioni ‘ora per allora’.

Si tratta evidentemente di circostanze ultronee, di natura civilistica, che non rilevano sulla pretesa erariale pubblica di cui si tratta e che impingono la competenza di un’altra giurisdizione (A.G.O.).

b.2. Quanto all’eccezione di prescrizione del credito erariale, essa risulta infondata, in quanto, in ipotesi di danno indiretto, quale quella di cui si discute, il periodo prescrizionale decorre dall’effettivo esborso di danaro pubblico, perciò dal pagamento del danno (Deliberazione di liquidazione, 31 agosto 2015, n. 1439). Il termine prescrizionale risulta essere stato validamente interrotto dalla Procura regionale con l’emissione dell’invito a dedurre (17 giugno 2020). (Sulla decorrenza della prescrizione dall’effettivo esborso in ipotesi di danno indiretto, cfr., Corte conti, SS.RR., sent. n.14/2011).

  1. Passando ora al merito del giudizio, il Collegio, anzitutto, aderendo all’opposizione del PM d’udienza, non ritiene sia necessario richiedere una ulteriore consulenza tecnica, considerate esaustive e complete le tre relazioni peritali già esperite fra procedimento amministrativo e penale e acquisite agli atti, aventi tutte la medesima conclusione, stando alla quale, l’evento morte, nel caso de quo, è conseguito, secondo le regole civilistiche, all’errata posologia del farmaco, da ricondursi materialmente al duplice errore di trascrizione commesso dalla dott.ssa [omissis], sia nella richiesta cartacea che su quella informatica e alla successiva errata conferma della dott.ssa [omissis].

Tanto premesso, appare assai sconcertante e al limite del credibile quello che risulta dagli atti di causa, nel merito del processo de quo.

Tralasciando – perché già decise con separato provvedimento giurisdizionale – le condotte gravemente colpevoli dei dottori [omissis] e [omissis], le cui posizioni sono state definite con rito abbreviato (cfr., sent. n. 73/2021 del 13 agosto 2021, già cit. nella premessa e nella parte in fatto) e sulle quali nulla può più dirsi, il Collegio è chiamato ora a valutare le condotte dei due medici, nella triste vicenda de qua, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis], quali medici specializzandi dell’Unità di [omissis] (Struttura

Complessa di [omissis] e [omissis]) dell’Ospedale [omissis] [omissis] [omissis] [omissis] di [omissis].

Le suddette sono state evocate in giudizio dalla Procura regionale per un danno pro capite pari ad € 200.000,00, in quanto con comportamenti commissivi gravemente colpevoli hanno dato concausa (insieme ai dottori [omissis] e [omissis], di cui sopra), nell’ipotesi accusatoria, all’esito letale occorso al sig. [omissis], ricoverato per [omissis] [omissis] [omissis] nel surriferito Nosocomio.

Va subito rilevato – onde sgombrare il campo da equivoci – che il fatto che si trattasse di due specializzande, evidentemente, non scusa la estrema, quanto gravissima superficialità con cui le medesime hanno dimostrato di operare – per quel che qui rileva, nel caso concreto all’esame – nel Reparto di [omissis] dell’Ospedale, in cui erano di diritto inserite quali Medici in Corso di specializzazione, con la supervisione di un tutor (dott.ssa [omissis]) e di gestire, in particolare, il sig. [omissis]. I fatti del resto chiaramente dimostrano la colpa grave dell’una, (dott.ssa [omissis]), per aver inspiegabilmente (e quasi inverosimilmente) riportato, ‘per errore’ rispetto alla corretta prescrizione della dott.ssa [omissis], un marchiano e lampante sovradosaggio di farmaco chemioterapico, di cui la stessa non si avvedeva fino all’evento letale, nonché dell’altra, (dott.ssa [omissis]), che con estrema e grave superficialità interloquiva incautamente con la Farmacia Oncologica dell’Ospedale, che aveva rilevato l’abnorme dosaggio del farmaco, confermando un dato che le era oscuro e cioè che si trattasse di dosaggio coerente con il Protocollo AIDA, senza verificare l’esattezza di quanto stava affermando, né chiedendo chiarimenti al medico strutturato né consultando il Protocollo AIDA e senza peraltro notiziare, successivamente, della telefonata, né la collega specializzanda né il tutor dott.ssa [omissis]. Inammissibili appaiono dette condotte, tenute da Medici, sia pure in corso di specializzazione, ma, comunque, sempre, Medici chirurghi.

E’ proprio la qualifica professionale da esse posseduta che connota di maggiore gravità l’errore marchiano commesso, quali medici, che, con molta disinvoltura, senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze del proprio operato – purtroppo nefaste, nella fattispecie – hanno, l’una (dott.ssa [omissis]), errato inammissibilmente (e quasi incredibilmente) nella trascrizione del dosaggio del farmaco, esorbitante i limiti massimi di posologia del farmaco stesso, senza minimamente avvedersene (un Medico è tenuto a verificare attentamente la posologia di un farmaco, soprattutto se chemioterapico! Né può non rendersi conto – conoscendo esattamente quali siano le dosi da ‘Protocollo’ e soprattutto sulla base di un esatto dosaggio della dott.ssa [omissis] – di aver trascritto un sovradosaggio assai eccessivo!); l’altra (dott.ssa [omissis]), confermato con estrema superficialità l’errore della prima, rispondendo ad una telefonata di chiarimenti ricevuta dalla Farmacia Oncologica Ospedaliera, in ordine alla esorbitanza del dosaggio – senza consultare la cartella clinica del degente né i dosaggi massimi indicati nel Protocollo AIDA – affermava incautamente che proprio quello era stato il dosaggio prescritto in applicazione del suddetto Protocollo, inducendo in errore il chiamante e non informando tempestivamente della richiesta telefonica ricevuta dalla farmacia, né la collega specializzanda né soprattutto la tutor dott.ssa [omissis], responsabile del paziente e medico prescrittore e dunque tenuta a svolgere un diligente controllo sia sulla evoluzione del percorso nosocomiale del sig. [omissis] e sia sull’operato delle specializzande.

Del tutto infondate e pretestuose appaiono le doglianze di parte, tese a minimizzare la condotta delle due specializzande e a massimizzare invece la condotta – si ripete – sicuramente connotata da altrettanta grave colpa, dei due medici strutturati.

I fatti dimostrano indubitabilmente la colpa grave di entrambe le convenute, che – anche con il concorso di altri, di cui a breve si dirà – hanno dato concausa al decesso del sig. [omissis] [omissis] per ‘scompenso cardiaco acuto’.

  1. Dal punto di vista generale, il Collegio non può fare a meno di rammentare che nell’esercizio della propria professione, il medico deve sempre mantenere particolarmente alta e vigile la propria attenzione, per evitare di mettere a repentaglio la vita o, comunque, la salute dei propri pazienti.

Ciò detto, preso atto degli arresti giurisprudenziali della Suprema Corte in ordine ai profili di colpa nell’esercizio della professione sanitaria, con particolare riferimento all’individuazione del nesso di causalità tra condotta ed evento, nonché dei principi, altrettanto consolidati nella giurisprudenza della Corte dei conti, in materia di colpa medica nell’ambito di un giudizio di danno erariale indiretto, si deve precisare che non ogni condotta diversa da quella doverosa, comporta sicuramente una colpa grave, ma solo quella che sia caratterizzata da particolare negligenza, imprudenza od imperizia, con riferimento alla prudenza, perizia e diligenza che invece ci si aspetterebbe da figure sanitarie professionali di alto profilo, quali i medici e che sia posta in essere senza la scrupolosa osservanza, nel caso concreto, di quel livello minimo di diligenza, prudenza o perizia, richiesti particolarmente all’esercente la professione sanitaria in genere, onde non incorrere in situazioni pericolose per la vita dei propri pazienti; occorre puntualizzare, inoltre, che tale ‘livello minimo’ dipende dal tipo di attività concretamente richiesto all’agente e dalla sua particolare preparazione professionale, in quel settore della pubblica amministrazione al quale è materialmente preposto (cfr., ad esempio, Corte conti, Sez. Appello Sicilia, n. 418/2014). Una giurisprudenza in materia di colpa medica, ricorda ad esempio come la colpa grave si concretizzi “in un comportamento non consono a quel minimo di diligenza richiesto nel caso concreto ed improntato ad evidente imperizia, superficialità, trascuratezza ed inosservanza degli obblighi di servizio, che non risulta giustificato dalla presenza di situazioni eccezionali ed oggettivamente verificabili, tali da impedire all’agente il corretto svolgimento delle funzioni volte alla tutela degli interessi pubblici a lui affidati”. (Cfr., Corte conti, Sez. Appello Sicilia, 23 gennaio 2012, n. 18).

  1. Venendo poi, in particolare, al nesso di causalità, ai fini dell’affermazione di una responsabilità amministrativo-contabile, è necessario che insieme all’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, la condotta posta in essere nell’occasione sia diretta cagione del danno (come nel caso qui all’esame).

Tale circostanza assume connotati di particolare rilevanza nel caso di danno indiretto, quale quello qui azionato, e, particolarmente, di danno erariale discendente da riconoscimento di una colpa medica professionale. Infatti, posto che la relazione tra danno erariale e colpa medica professionale si sostanzia nel fatto che senza la seconda non vi sarebbe stato un esborso di denaro da parte della pubblica amministrazione, è poi compito esclusivo del Giudice contabile, di fronte all’azione del Procuratore regionale volta ad ottenere dall’esercente la professione sanitaria la restituzione di quanto pagato dall’Azienda sanitaria a titolo di danno conseguente a colpa professionale – valutare se le condotte materiali del medico e/o delle altre figure sanitarie, non perite e imprudenti e non conformi alle linee guida siano da porre in diretta ed esclusiva relazione col fatto di danno poi risarcito dall’Azienda sanitaria. Con la conclusione che, se oltre alle condotte del sanitario/i convenuti nel processo amministrativo contabile, il fatto dannoso risarcito sia riconducibile anche a diverse altre cause, esterne (concause) e queste o non vengano prese in considerazione dall’attore o rimangano estranee al giudizio (ad esempio, perché l’attore pubblico non ha ritenuto di valutarle o le ha ritenute irrilevanti) ovvero anche, se il fatto dannoso sia riconducibile anche ad altri soggetti, in ipotesi, corresponsabili, non può concludersi per una assenza di dimostrazione del nesso di causalità nei confronti degli evocati in giudizio – come sembrano ritenere le difese di parte – ma ciò impone al Giudice contabile di valutare tutte le concorrenti responsabilità – anche ‘idealmente’ – per porre nei confronti di ciascuna concausa esterna e di ciascun corresponsabile la quota di danno ad essi astrattamente o concretamente spettante.

  1. Nel caso de quo, il Collegio giudicante ha proceduto ad una attenta ricostruzione dei fatti sulla scorta di tutti gli elementi di prova offerti dalle parti e acquisiti ex officio e presenti nel fascicolo processuale.

Nella fattispecie concreta è perciò incontrovertibilmente risultato che – come già riferito più sopra – i due medici specializzandi, dott.ssa [omissis] e dott.ssa [omissis] hanno dato causa finale e diretta con le loro condotte gravemente, quanto ingiustificabilmente, imperite ed imprudenti all’evento letale occorso al sig. [omissis]; la loro condotta gravemente colpevole è stata tuttavia favorita da una serie di concause che effettivamente hanno tutte concorso alla causazione del danno letale e che vanno adeguatamente prese in considerazione, a fini di giustizia, pur in assenza di idonea valutazione sul punto da parte della Procura territoriale che ha ritenuto di non citare in giudizio gli ulteriori corresponsabili della incredibile vicenda de qua.

Come in atti affermato dal Responsabile della Divisione anticrimine della Polizia di Stato, all’esito della rimessione della notizia di reato al Procuratore della Repubblica competente, è emerso con chiarezza incontestabile, in fattispecie, come un semplice errore di trascrizione sia passato – incredibilmente – indenne innanzi a svariate figure professionali di provato valore e competenza. Invero la dose erronea era riportata ovunque, sia sulla cartella clinica cartacea sia su quella informatica, entrambe visionabili in qualsiasi momento da tutto il personale medico e infermieristico. Un discorso analogo può farsi per le farmaciste che di fronte ad una richiesta palesemente anomala (quattro volte la dose massima somministrabile ad un essere umano secondo il protocollo AIDA) hanno accettato supinamente una mera conferma telefonica data da una dottoressa specializzanda, senza approfondire. Infine, come valutare l’operato delle infermiere che materialmente hanno somministrato il medicinale in sovradosaggio?

Il Collegio perciò ha il dovere di darsi carico, dapprima – quanto alla considerazione di concause esterne – della constatazione di una inidonea organizzazione del Reparto di [omissis], che non attivava periodicamente i necessari controlli interni nè la necessaria supervisione quotidiana da parte dei medici strutturati e soprattutto non era dotato, all’epoca dei fatti, di quel necessario software idoneo a bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci; inoltre, va adeguatamente e seriamente presa in considerazione – quanto agli altri corresponsabili – la condotta assai scriteriata della Farmacia Oncologica (nelle persone del Dirigente responsabile, dott. [omissis] [omissis]; farmaciste preparatrici del farmaco, dott.sse [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis] [omissis]), che, ben sapendo quale fosse la dose massima da inoculare ai pazienti oncologici, agevolava il verificarsi del triste evento, preparando materialmente le posologie sproporzionate, poi rivelatesi fatali, del farmaco chemioterapico ‘Idarubicina’ e pur avendo il dubbio che si trattasse di posologia esorbitante e senza effettuare i necessari controlli con il medico prescrittore – come, peraltro, avrebbero richiesto, in particolare, le Raccomandazioni emanate dal Ministero della salute del 14 ottobre 2012 per la prevenzione degli errori di posologia nelle terapie con farmaci anti neoplastici, laddove si raccomanda che la richiesta della preparazione galenica del farmaco debba essere sempre fatta dal medico prescrittore per iscritto o con la c.d. CIC (Convalida Informatica Certificata) e laddove è chiaramente raccomandato di non poter accettare prescrizioni verbali, eccetto che per l’interruzione urgente della terapia, che deve comunque essere trascritta quanto prima possibile – preparavano il farmaco de quo in dosaggi esorbitanti; ancora inspiegabile e inammissibile risulta, nel caso all’esame, la condotta delle infermiere che materialmente hanno inoculato le dosi letali del detto farmaco chemioterapico ([omissis] [omissis], [omissis] [omissis], [omissis] [omissis] e [omissis] [omissis]) senza minimamente chiedersi – come la loro preparazione infermieristica professionale avrebbe richiesto e come potevano verificare quotidianamente, attese le comuni e continue somministrazioni di farmaci chemioterapici ai pazienti oncologici degenti – come mai a quel paziente fosse prescritta una dose così elevata (esorbitante i limiti massimi di posologia di quel farmaco chemioterapico) e senza interpellare sul punto i medici addetti al Reparto e il medico prescrittore.

Anche il personale infermieristico infatti nell’esercizio delle proprie delicate mansioni a contatto diretto con i pazienti deve attenersi a canoni di correttezza e diligenza qualificata, a regole di estrema cautela in ragione della sua specifica qualità professionale esercitata, specie in un Reparto specializzato oncologico; essi sono perciò responsabili per imprudenza negligenza o imperizia nel caso di errori nella somministrazione della terapia e nel monitoraggio successivo del paziente, perché il loro ruolo non può essere solo quello di ‘mero esecutore materiale’ della terapia, ma deve comportare l’obbligo di controllare, prima e dopo la somministrazione del farmaco, le condizioni del paziente e di rilevare, ad esempio, macroscopici errori di indicazione del dosaggio di farmaci o inappropriatezze di prescrizioni terapeutiche, svolgendo le opportune segnalazioni al medico strutturato prescrittore.

  1. Il Collegio conclusivamente ritiene che, in fattispecie, se anche una sola delle figure professionali coinvolte nella vicenda de qua si fosse adeguatamente attenzionata e avesse seriamente svolto il proprio ruolo professionale, con l’estrema diligenza che il caso richiedeva, il sig. [omissis] avrebbe potuto, verosimilmente, superare e cronicizzare lo stato leucemico dal quale era afflitto, come si può agevolmente verificare dalla storia clinica letteraria di pazienti leucemici curati con il corretto Protocollo e molto spesso guariti. (Vedasi, ad es., le tante testimonianze di pazienti curati e guariti presso il Reparto di [omissis] dell’Università La Sapienza di Roma, che – con la scienza del compianto prof. F:M: e i medici della sua equipes – sono tornati ad una vita normale: recentemente (21 giugno 2021) i mass-media hanno riportato la notizia del nostro

Presidente della Repubblica Mattarella, che ha raccolto la testimonianza di una persona guarita da [omissis] [omissis] [omissis], signora [omissis], ricevuta al Quirinale in occasione dei 50 anni di attività dell’Associazione AIL – fondata proprio dal prof. M. – di cui la guarita è ora volontaria).

Tutto ciò premesso e considerato, nella triste vicenda all’esame, devono essere attentamente valutate tutte le corresponsabilità coinvolte, non evocate in giudizio, che, ciascuna con il proprio ruolo, sono intervenute e hanno dato concausa all’evento fatale occorso al sig. [omissis], per graduarne la responsabilità e addossare a ciascuna la quota-parte di danno, secondo giustizia. E non va ovviamente sottovalutato il preminente ruolo svolto dal Reparto di [omissis], sotto il profilo amministrativo e di adeguatezza della struttura sanitaria specializzata.

Orbene, considerato che dal danno totale richiesto (=€ 800.000,00) deve essere detratta la quota parte addossata ai dottori [omissis] e [omissis], la cui posizione è stata definita con Rito abbreviato, come già rappresentato, rimane una quota-parte di danno, pari in totale a euro 400.000,00, che la Procura attorea ha chiesto di imputare, metà ciascuna, alle odierne convenute. Il Collegio non concorda con detta imputazione, relativamente al quantum debeatur delle dottoresse [omissis] e [omissis] e ritiene equitativamente di poter addossare la parte prevalente del danno de quo nella misura del 75% di esso (pari a euro 300.000,00) alla inidonea organizzazione amministrativa-sanitaria del Reparto di [omissis], privo, all’epoca dei fatti, di quel software necessario in grado di bloccare automaticamente le prescrizioni anomale di farmaci, che, solo successivamente al sinistro occorso al sig. [omissis], fu installato presso l’Ospedale ed in considerazione, altresì, degli insufficienti controlli interni predisposti dal Dirigente della struttura complessa, che vedevano troppe assenze di personale medico strutturato in corsia; detta mala-organizzazione in un Reparto [omissis], a parere del Collegio, ha avuto una valenza preponderante, quale concausa esterna, sul verificarsi della sconcertante vicenda all’esame. Il rimanente 25% del danno (pari a euro 100.000,00) va ad imputarsi, pro quota, in base alla rispettiva responsabilità, nei confronti anzitutto delle due dottoresse specializzande (cui va attribuita la quota-parte di euro 30.000,00, in parti uguali, pari a € 15.000,00 cadauna), qui evocate in giudizio, che, con comportamento gravemente colpevole, sono state la causa diretta e finale dell’evento letale nonché, virtualmente, va ad imputarsi la restante quota-parte di danno, pari a euro 70.000,00, in parti uguali, nei confronti degli ulteriori corresponsabili della vicenda de qua, sia il Responsabile della farmacia [omissis] dell’Ospedale che le due farmaciste preparatrici del farmaco nonché le quattro infermiere che materialmente hanno somministrato il farmaco con il dosaggio letale, per una quota-parte di danno pari a € 10.000,00 cadauno.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE DEI CONTI

Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, definitivamente pronunciando, ogni

contraria istanza ed eccezione reiette

ACCOGLIE parzialmente

La domanda della Procura regionale e, per l’effetto, condanna la dott.ssa [omissis] [omissis] e la dott.ssa [omissis] [omissis] al risarcimento del danno erariale indiretto pari a complessivi euro 30.000,00, in favore della Azienda Ospedaliera di [omissis], ripartito pro-quota nella somma di euro 15.000,00 cadauna. Sulla somma per cui è condanna sono dovuti la rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT nonché gli interessi legali sulla somma rivalutata, dalla pubblicazione della presente sentenza e fino al soddisfo.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in euro 598,40 (diconsi cinquecentonovantotto/40), in parti uguali.

Così deciso in Perugia, nella Camera di consiglio del 19 maggio 2021, proseguita il 6 luglio 2021.

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Una farmacia può essere di proprietà una casa di cura? Il Consiglio di Stato rimette all’adunanza plenaria

Consiglio di Stato, Sez. III, 27/12/2021 n. 8634   

sul ricorso numero di registro generale 4831 del 2021, proposto da

San Marco S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ubaldo Perfetti, Maurizio Natali, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio Loreta Uttaro in Roma, piazza Benedetto Cairoli 6;

contro

Federfarma – Federazione Nazionale Unitaria dei Titolari di Farmacia Italiani, Federfarma Ascoli – Associazione dei Titolari e Proprietari di Farmacia della Provincia di Ascoli Piceno, Farmacia Tamburrini S.n.c. del Dr. Tamburrini Palmiro & C., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Massimo Luciani, Piermassimo Chirulli, Patrizio Ivo D’Andrea, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dei difensori in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio 9;

Federazione Ordini Farmacisti Italiani, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giuseppe Lo Pinto, Fabio Cintioli, David Astorre, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio Fabio Cintioli in Roma, via Vittoria Colonna 32;

nei confronti

Comune di Ascoli Piceno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Lucia Iacoboni, Alessandro Lucchetti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio Aristide Police in Roma, viale Liegi n. 32;

Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche (A.S.U.R.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Massimo Colarizi, Patrizia Viozzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio Massimo Colarizi in Roma, via Giovanni Antonelli 49;

Asur Marche Area Vasta N 5, Associazione Italiana Ospedalità Privata, Aldo Di Simone, Giuseppe De Berardinis, Casa di Cura Villa San Marco S.r.l. – non costituiti in giudizio;

Ordine Interprovinciale Farmacisti Ascoli Piceno e Fermo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo Leopardi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio in Roma, via G. Pisanelli, 2;

per la riforma

della sentenza n. 106 del 9 febbraio 2021 del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, sez. I, resa tra le parti, concernente il trasferimento della Farmacia Comunale n. 1 del Comune di Ascoli Piceno alla società “Farmacia San Marco s.r.l.”, individuata quale soggetto acquirente a seguito di pubblico incanto indetto il 12 ottobre 2018 ai sensi degli artt. 73, lettera a), e 74 del R.D. n. 827 del 1924.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Federfarma, di Federfarma Ascoli, della Farmacia Tamburrini S.n.c., del Comune di Ascoli Piceno, dell’ASUR Marche, dell’Ordine Interprovinciale Farmacisti Ascoli Piceno e Fermo e della Federazione Ordini Farmacisti Italiani;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 dicembre 2021 il Cons. Giovanni Pescatore e uditi per le parti gli avvocati come da verbale;

Visto l’art. 36, comma 2, cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Le impugnative di primo grado esitate nella pronuncia del Tar Marche qui appellata si sono indirizzate avverso gli atti con i quali l’ASUR Marche, Area vasta n. 5, ha autorizzato il trasferimento della Farmacia Comunale n. 1 del Comune di Ascoli Piceno alla società “Farmacia San Marco s.r.l.”, individuata quale soggetto acquirente a seguito di pubblico incanto indetto, in data 12 ottobre 2018, ai sensi degli artt. 73, lettera a), e 74 del R.D. n. 827 del 1924.

2. Ad agire in giudizio era stata, in un primo momento, la Federazione Regionale dei farmacisti privati della Regione Marche (di seguito anche Federfarma Marche), mossasi a tutela dell’interesse “istituzionalizzato” al rispetto delle procedure e delle norme che regolano il trasferimento delle farmacie.

L’impugnativa (n. 251/2019) si era appuntata sull’asserita incompatibilità della società acquirente ai sensi dell’art. 7, comma 2, della legge n. 362 del 1991, poiché partecipata come unico socio da altra società di capitali (la Casa di Cura Privata Villa San Marco s.r.l.), a sua volta dedita, per oggetto sociale, alla gestione di case di cura e di assistenza.

3. Il Tar Marche, con sentenza n. 105 del 2021, ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di legittimazione della parte ricorrente, sostenendo che l’azione era intesa ad intercettare una problematica di rilievo nazionale, riferibile all’intera categoria dei farmacisti titolari di farmacie private, quindi deducibile dalla sola Federfarma Nazionale, in coerenza con i suoi scopi statutari e requisiti di rappresentatività.

4. La stessa impugnativa è stata quindi replicata mediante due autonomi ricorsi straordinari al capo dello Stato intentati il primo, in via collettiva, dalla Federfarma Italia, dalla Federazione Ordine Farmacisti Italiani e dalla Farmacia Tamburrini; ed il secondo, in forma individuale, dalla Federazione Ordine Farmacisti Italiani.

A seguito della opposizione formalizzata, ai sensi dell’art. 10, co. 1, D.P.R. n. 1199/1971, dal Comune di Ascoli Piceno, dall’Asur e dalla società San Marco, le due impugnative sono state trasposte in sede giurisdizionale (assumendo rispettivamente i numeri di ruolo n. 452 e 447/2019) ed, infine, riunite ed accolte con sentenza n. 106 del 2021.

5. La decisione ha ravvisato la sussistenza della dedotta incompatibilità e ha imputato la responsabilità della carenza, sul punto, di istruttoria procedimentale, sia al Comune cedente la farmacia, quale soggetto responsabile dell’asta pubblica; sia all’Asur, quale ente preposto al trasferimento di titolarità e all’autorizzazione all’apertura della farmacia, all’esito della sua definitiva aggiudicazione.

Il conseguente annullamento degli atti gravati è maturato a valle di un’articolata delibazione della portata del principio di incompatibilità fissato dall’art. 7 della legge n. 362 del 1991, che le parti ricorrenti avevano dedotto essere stato violato sia nella parte in cui intende impedire l’accesso indiretto alla farmacia da parte di altri operatori nel settore sanitario, in grado di condizionare l’indipendenza professionale del farmacista e, quindi, il libero esercizio della sua attività nell’interesse esclusivo del pubblico; sia nella parte in cui sancisce la necessità del rispetto del principio dell’esclusività dell’oggetto sociale, tale per cui le società titolari dell’esercizio delle farmacie devono avere come oggetto esclusivo la gestione di una farmacia.

6. Lo svolgimento logico della decisione ha tratto spunto decisivo dal fatto che la Casa di Cura Privata Villa San Marco, oltre ad essere socio unico della San Marco s.r.l., annovera un socio medico (dott. De Bernardinis) ed un componente del C.d.A. anch’egli medico (dott. Di Simone). Le due società, inoltre, condividono la stessa sede legale e un comune amministratore (il dott. Romani), investito del duplice ruolo di presidente del C.d.A. della Casa di Cura e di Amministratore unico della San Marco s.r.l..

Tanto dimostrerebbe, secondo il Tar, l’impropria commistione in capo al medesimo soggetto giuridico (la Casa di cura) di attività gestionali in potenziale conflitto di interessi, in quanto afferenti ad ambiti professionali (l’attività farmaceutica e quella medico/sanitaria) tra di loro non compatibili.

Detta commistione rileverebbe sul piano giuridico in quanto, nel caso in cui una società intenda acquisire la proprietà di una farmacia, l’insussistenza di situazioni di incompatibilità deve esser verificata, oltre che nei confronti della società stessa, anche nei confronti del socio persona giuridica che su quest’ultima esercita il controllo.

7. Il presente grado di appello è stato promosso dalla società San Marco, soccombente in primo grado.

8. Si sono costituti l’Asur, la Federfarma, la Federazione Ordini Farmacisti Italiani, l’Ordine Interprovinciale Farmacisti Ascoli Piceno e Fermo, esprimendosi tutti a favore della conferma della sentenza gravata. Il Comune di Ascoli Piceno – nell’ottica di una applicazione pragmatica del regime delle incompatibilità, orientata sulle specificità del caso concreto – ha invocato il correttivo della facoltà, per il soggetto interessato, di rimuovere, entro un certo lasso temporale, la situazione originante il potenziale conflitto di interessi.

9. A seguito dell’accoglimento dell’istanza cautelare (ord. n. 3771/2021), la causa è stata discussa e posta in decisione all’udienza pubblica del 16 dicembre 2021.

10. All’esito della camera di consiglio, il Collegio ritiene di poter respingere il primo, il secondo e il quarto motivo di appello, involgenti questioni preliminari di carattere processuale. Al contempo, reputa necessario interpellare l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato su due questioni di massima, afferenti a profili di diritto di particolare importanza, che hanno dato o potranno dare luogo a contrasti giurisprudenziali (art. 99, comma 1, Cod. proc. amm.).

DIRITTO

I motivi di carattere processuale.

1. – Il primo motivo di appello investe il tema della pretesa irritualità della fase di trasposizione dei ricorsi straordinari al capo dello Stato, sotto il profilo dell’omessa notifica dell’avviso di avvenuto deposito dei ricorsi (art. 48 c.p.a.).

1.1. – Il rilievo si è appuntato sul fatto che le ricorrenti, ricevuta la notifica dell’atto di opposizione ex art. 10 DPR n. 1199/1971, si sono limitate a notificare ai resistenti l’atto di costituzione innanzi al Tar, avente il medesimo contenuto del ricorso straordinario, e a depositarlo in cancelleria, senza provvedere a notificare anche l’avviso di avvenuto deposito (passaggio pure previsto dall’art. 48, comma 1, c.p.a. che così dispone: “Qualora la parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario ai sensi degli articoli 8 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199, proponga opposizione, il giudizio segue dinanzi al tribunale amministrativo regionale se il ricorrente, entro il termine perentorio di sessanta giorni dal ricevimento dell’atto di opposizione, deposita nella relativa segreteria l’atto di costituzione in giudizio, dandone avviso mediante notificazione alle altre parti”).

1.2 – Il Tar ha ritenuto gli adempimenti attuati sufficienti alla traslazione del giudizio in sede giurisdizionale, sposando un orientamento più sostanzialista che reputa indifferente la sequenza dei passaggi formali di notifica e deposito, purché rispettosi del termine dei 60 giorni, e ciò in quanto “la ratio dell’art. 48 c.p.a., […] è appunto quella di rendere edotta la controparte della reale volontà del ricorrente di proseguire l’impugnazione in sede giurisdizionale”.

1.3. – La San Marco censura la sentenza di primo grado sia per “l’omessa motivazione, non risultando in nessuna parte della sentenza la ragione per cui il Tar abbia ritenuto «(…) chiare la vocatio in ius, la trasposizione del ricorso straordinario e la volontà di instaurazione del giudizio..”; sia perché la soluzione accolta “..si discosta dall’altro orientamento, conforme al dato letterale della norma e che si ispira al principio della certezza del diritto, secondo il quale è necessaria, così come previsto esplicitamente dalla normativa, la notifica dell’avviso di avvenuto deposito ex art. 48 c.p.a, a nulla rilevando che la parte abbia notificato un atto di costituzione nel quale risulta trascritto il ricorso straordinario”.

1.4 – Il motivo va respinto, risultando corretta la linea argomentativa tracciata in sentenza sulla scorta dei precedenti conformi.

1.5. – Nell’esaminare una fattispecie speculare a quella qui il rilievo, è stata proprio questa sezione a chiarire – con indirizzo alternativo ad altro più rigorista – che ai fini della corretta trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale possono ritenersi utili tanto la sola notifica del semplice avviso del deposito del ricorso innanzi al Tar, in quanto comunque sufficiente a rendere la controparte edotta della volontà del ricorrente di insistere nell’impugnazione (di contenuto già noto alle controparti) e, quindi, a soddisfare la ratio sostanziale delle prescrizioni formali imposte dall’art. 48; quanto la notifica dell’intero ricorso e della vocatio in giudizio, pur non seguita da quella dell’avviso dell’avvenuto deposito, anche in tal caso potendosi dire rispettata l’essenziale finalità conoscitiva dei richiesti adempimenti (v. Cons. Stato, sez. III, nn. 2830/2016 e 859/2014; nello stesso senso, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 6124/2018).

1.6. – Il richiamo ai precedenti è esaustivo, poiché dagli stessi si trae conferma dell’idoneità della vocatio in ius effettuata mediante notifica dell’atto di costituzione, quale inequivoca manifestazione della volontà di prosecuzione del giudizio in sede giurisdizionale. Dunque, il parallelismo istituito con la menzionata casistica non necessitava di alcuna ulteriore esplicitazione sul tema della “idoneità” della forma processuale esperita.

1.7. – Poiché tutte le formalità di legge si sono compiute ben prima dello spirare del termine dei 60 giorni stabilito dall’art. 48 c.p.a. (e coincidente con il 10 novembre 2019) – essendo il ricorso in riassunzione stato notificato in data 17 ottobre 2019 e depositato in data 18 ottobre 2019 – non può che concludersi per la piena ritualità della trasposizione sia sotto il profilo temporale che della regolare instaurazione del contraddittorio.

1.8. – Diventa a questo punto superfluo il richiamo alla valenza sanante della costituzione delle parti intimate, quale circostanza che pure sarebbe valsa ad anestetizzare ex art. 156, comma 3, c.p.c., il vizio di notifica (dell’avviso di deposito), ove effettivamente rilevante.

2. – Con il secondo mezzo di impugnazione la San Marco censura (con riguardo al ricorso n. 452/2019) la mancata estensione dell’impugnazione al bando di gara, quale atto “presupposto” e “direttamente lesivo degli interessi delle ricorrenti”, quindi meritevole di essere impugnato illico et immediate in vista della contestazione dei provvedimenti ad esso conseguenti.

La stessa censura viene replicata (con riguardo al ricorso n. 447/2019) sotto il profilo della mancata impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria di cui alla determinazione n. 3596 del 7.12.2018. Sarebbe questo, infatti, l’atto conclusivo, almeno dal punto di vista sostanziale, della procedura di affidamento; ed il suo carattere dispositivo e direttamente lesivo non verrebbe meno in ragione della sua qualificazione quale atto “provvisorio”, trattandosi di una provvisorietà determinata dal condizionamento degli effetti dell’aggiudicazione al decorso del termine per l’esercizio del diritto di prelazione e per la ricezione dei certificati antimafia.

2.1. – Anche questo duplice rilievo non persuade.

2.2. – Sotto il primo profilo merita osservare che è sì vero che il bando indicava esattamente le dichiarazioni che dovevano essere rese dai partecipanti quanto al rispetto degli artt. 7 e 8 della l. n. 362 del 1991; ma è altresì chiaro che l’interpretazione che di tali disposizioni ha reso l’amministrazione – nel quadro di una variegata alternative di possibili letture (come si vedrà infra) – si è palesata solo con l’aggiudicazione definitiva, primo atto inequivocabilmente lesivo degli interessi delle ricorrenti. Il tutto in linea con la previsione dell’art. 12 del bando di gara secondo la quale “l’aggiudicazione definitiva a favore dell’aggiudicatario provvisorio […] avverrà […] previa verifica d’ufficio della veridicità di quanto dichiarato nelle dichiarazioni sostitutive e del possesso dei requisiti previsti”.

Va quindi confermata la soluzione in tal senso accolta dal Tar.

2.3. – Sotto il secondo profilo, il primo giudice ha escluso l’esistenza di “un onere di immediata impugnazione nei termini decadenziali dei verbali di gara e dell’aggiudicazione provvisoria – che costituiscono meri atti endoprocedimentali inidonei a produrre la definitiva lesione dell’interesse – ben potendo l’interessato impugnare la sola aggiudicazione definitiva, in quanto è con quest’ultima che l’Amministrazione esprime la propria volontà provvedimentale”.

La soluzione si avvalora alla luce dell’orientamento conforme della giurisprudenza in materia di gare pubbliche, applicabile mutatis mutandis anche al caso di specie, secondo il quale il provvedimento di aggiudicazione provvisoria è un atto endoprocedimentale, privo di valore decisorio, che necessita di conferma attraverso l’aggiudicazione definitiva, unico provvedimento impugnabile. A tanto occorre unicamente aggiungere che la tipologia dei controlli o degli adempimenti che condizionano la conferma dell’aggiudicazione provvisoria non vale ad alterarne la sostanza di atto endoprocedimentale.

3. – In coerenza con esigenze di tassonomia processuale, è opportuno anticipare la trattazione del quarto motivo di appello, afferente all’omesso esame da parte del Tar dell’eccezione di inammissibilità e/o irricevibilità delle impugnative di primo grado, poi riunite.

3.1. – Le stesse vengono tacciate di “esercizio abusivo dello strumento processuale”, per essere state intraprese, da soggetti collegati a Federfarma Marche, al solo fine di byapassare le eccezioni sollevate nei confronti di quest’ultima nel primo giudizio poi definito, con declaratoria di inammissibilità del ricorso, dalla sentenza n. 105/2021.

3.2. – Il motivo è infondato.

3.3. – Va premesso che l’unica tematica che viene posta in questione – e sulla quale è quindi necessario soffermarsi – è quella concernente lo sviluppo consecutivo e succedaneo dei ricorsi straordinari, in funzione suppletiva rispetto alle carenze della prima impugnazione di Federfarma Marche.

Non viene eccepita, invece, la carenza di autonoma legittimazione dei singoli attori processuali (oggetto del capo decisorio di cui al par. 6 della sentenza, oramai intangibile perché passato in giudicato).

Che Federfarma (nazionale) sia dotata di una personalità giuridica indipendente da quella di Federfarma Marche, e che l’Associazione provinciale abbia a sua volta una sua distinta soggettività, autonoma da quella delle altre due organizzazioni, è un punto sul quale la parte appellante non solleva rilievo alcuno. Stessa legittimazione ed interesse ad agire vanno riconosciuti alla Farmacia Tamburrini, quale presidio prossimo a quello da poco attivato (dal quale si distanzia per soli 2,1 Km) e, quindi, ad esso interrelato per vincolo di concorrenza che ne differenzia e qualifica la posizione e legittimazione processuale.

3.4. – E, tuttavia, è proprio questa autonoma legittimazione a rilevare quale elemento dirimente il nodo dell’esercizio asseritamente abusivo dei mezzi processuali: una volta che l’ordinamento abilita un soggetto giuridico ad esperire l’azione processuale, non vi è margine per sindacare l’esercizio di quella facoltà in ragione delle distinte iniziative assunte da ulteriori e autonomi soggetti giuridici e per il solo fatto che gli atti impugnati siano i medesimi. I precedenti giurisprudenziali menzionati in senso contrario dalla parte appellante si rivelano non pertitenti, in quanto riferiti ad iniziative plurime avviate dal medesimo soggetto giuridico.

3.5. – Non si può, quindi, che convenire con quanto statuito sul punto dal Tar Marche, il quale ha ben argomentato sulla “legittimazione ad agire in capo a Federfarma Nazionale, la cui posizione è autonoma e scindibile rispetto a quella delle altre parti ricorrenti” e sul fatto che “la stessa società San Marco s.r.l., nel formulare l’eccezione di difetto di legittimazione attiva in capo a Federfarma Marche nel coevo giudizio RG n. 251 del 2019, (aveva) in quel caso affermato che detta legittimazione dovesse spettare tuttalpiù a Federfarma Nazionale ovvero a Federfarma Ascoli Piceno, quest’ultima territorialmente più prossima”.

Le questioni di merito: il quadro normativo.

4. – Il terzo motivo di appello investe il merito della controversia, il quale si inscrive in un quadro regolativo di cui è utile fornire un essenziale riepilogo.

— L’art. 7 della l. n. 362 del 1991, come modificato dall’art. 1, comma 157, lett. b), della l. n. 124 del 2017, rubricato «Titolarità e gestione della farmacia», stabilisce che:

«1. Sono titolari dell’esercizio della farmacia privata le persone fisiche, in conformità alle disposizioni vigenti, le società di persone, le società di capitali e le società cooperative a responsabilità limitata. 2. Le società di cui al comma 1 hanno come oggetto esclusivo la gestione di una farmacia. La partecipazione alle società di cui al comma 1 è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l’esercizio della professione medica. Alle società di cui al comma 1 si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 8».

— Il successivo art. 8, comma 1, come modificato dall’art. 1, comma 160, lett. a), della l. n. 124 del 2017, rubricato «Gestione societaria: incompatibilità», dispone che:

«La partecipazione alle società di cui all’articolo 7 […] è incompatibile: a) nei casi di cui all’articolo 7, comma 2, secondo periodo; b) con la posizione di titolare, gestore provvisorio, direttore o collaboratore di altra farmacia; c) con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato».

— Infine, l’art. 102 del r.d. n. 1265 del 1934 (Testo Unico delle Leggi Sanitarie – TULLSS), dispone che:

«Il conseguimento di più lauree o diplomi dà diritto all’esercizio cumulativo delle corrispondenti professioni o arti sanitarie, eccettuato l’esercizio della farmacia che non può essere cumulato con quello di altre professioni o arti sanitarie».

4.1. – La pronuncia di primo grado non si è soffermata sui presupposti applicativi dell’art. 7 comma 2 nella parte in cui prevede che “Le società di cui al comma 1 hanno come oggetto esclusivo la gestione di una farmacia”), probabilmente a cagione del fatto che la norma è riferita alla sola società titolare della farmacia ed, in questo caso, è pacifico e documentale che la San Marco ha come oggetto esclusivo la gestione di una farmacia (doc. 4).

4.2 – La sentenza appellata ha invece fatto applicazione della successiva previsione contenuta al comma 2 dell’art. 7 (“la partecipazione alle società di cui al comma 1 è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l’esercizio della professione medica”), ovvero ha messo a frutto il principio per cui l’esercente l’attività di farmacista non può anche svolgere la professione medica.

Detta incompatibilità – motivata dalla confliggenza di interessi che si determina nel contemporaneo esercizio dell’attività di “prescrizione” e di “dispensazione” dei medicinali – punta a salvaguardare l’interesse pubblico al corretto svolgimento del servizio farmaceutico e, in ultima analisi, l’interesse primario alla tutela della salute pubblica (v. Corte Cost. n. 275/2003).

4.3. – La posizione conflittuale è di facile constatazione nel caso in cui sia una persona fisica a svolgere le due funzioni di farmacista e medico; appare, invece, di meno agevole riscontro nel caso in cui la titolarità della farmacia faccia capo ad una società e quest’ultima sia a sua volta detenuta da altra società. È il caso di specie, in cui la farmacia è detenuta dalla San Marco s.r.l., partecipata quale socio unico dalla Casa di cura s.r.l..

Per quanto si dirà meglio nel prosieguo, sono due i presupposti al ricorrere dei quali il regime delle incompatibilità può estendersi anche al campo delle farmacie detenute da società partecipate. Occorre cioè che la società controllante possa dirsi (con gli adattamenti del caso): a) implicata nella “gestione” della farmacia ed b) esercente la “professione medica”.

Su questi due nodi problematici si è sviluppato il contraddittorio tra le parti in lite di cui si darà conto tra breve e sul quale si innestano i quesiti di orientamento posti all’Adunanza Plenaria.

4.4. – E’ tuttavia sin d’ora opportuno anticipare che l’adattamento dei menzionati parametri al sistema delle partecipazioni societarie pone una questione interpretativa di massima rilevanza, acuita nella sua problematicità dal fatto che, a seguito della l. n. 124 del 2017, il sistema normativo ha sì modernizzato il settore farmaceutico aprendolo all’ipotesi della titolarità della farmacia privata in capo a soggetti societari; ma non ha aggiornato gli elementi sintomatici del conflitto di interessi, in particolar modo chiarendo cosa debba intendersi, nel caso di società partecipate, per “gestione della farmacia” e per “esercizio della professione medica”. Al contempo, le disposizioni in commento sembrano avere mantenuto una impostazione “tipizzante”, incentrata su previsioni determinate e tassative che, tuttavia, ove così intese e applicate, finirebbero per intercettare solo una parte del fenomeno da regolamentare, con il rischio di lasciarne scoperta altra parte. Da qui ulteriori difficoltà esegetiche che rendono asfittica, se ragguagliata alle peculiarità del caso, la schematica alternativa tra tendenze interpretative di tipo restrittivo o estensivo.

5. – Detto del quadro regolativo di riferimento e dei nodi interpretativi ad esso sottesi, è necessario dare conto delle impostazioni di parte prospettate in atti.

5.1. – L’appellante San Marco osserva come tutte le norme recanti ipotesi di incompatibilità ed implicanti, quindi, conseguenti limitazioni all’esercizio di diritti soggettivi, siano insuscettibili di interpretazione analogica o estensiva; e, sulla base di questa premessa, assume che anche la normativa delle incompatibilità di cui all’art. 8 non possa che applicarsi ai casi espressamente regolamentati, ovvero al solo socio (Casa di Cura) della società titolare della farmacia (San Marco), sempre che questi (alla luce dell’intervenuta sentenza della Corte Cost. n. 11/2020) gestisca effettivamente la farmacia. Dalla ricognizione delle posizioni incompatibili esulerebbero, quindi, quelle dei soci e dei componenti del CdA della società controllante (Casa di Cura).

Indizi a favore di una lettura restrittiva della normativa si ricaverebbero dagli artt. 7, comma 2 e 8, comma 1, sia nella parte in cui menzionano l’ “esercizio della professione medica”, quale attività riferibile ai soli soggetti persone fisiche; sia nella parte in cui affermano che le incompatibilità dell’art. 8, comma 1 si applicano alle società titolari della farmacia solo “in quanto compatibili” (art. 7, comma 2, terzo periodo).

5.2. – Questi i conseguenti rilievi svolti dalla parte appellante con riferimento al caso di specie:

i) la società San Marco ha come oggetto esclusivo la gestione di una farmacia (doc. 4);

ii) la stessa è partecipata (esclusivamente) dalla Casa di Cura che non esercita né attività di produzione e informazione scientifica del farmaco, né, tantomeno, la professione medica (doc. 5). Trattasi, invero, di società commerciale (e non di società di professionisti), che gestisce “mezzi economici” e organizza “fattori produttivi”; ma gestire fattori produttivi, quand’anche afferenti all’ambito sanitario, non vuol dire esercitare la professione medica (quindi effettuare diagnosi o emettere cure e ricette);

iii) l’esercizio dell’attività medica non potrebbe ricavarsi neppure dal fatto che tra i componenti del suo CdA vi è un medico (dott. Di Simone), avendo questi cessato la sua attività il 31.12.2016 (doc. 6), ben prima che San Marco acquistasse la farmacia. Quanto al dr. De Berardinis, unico socio medico di Casa di Cura, egli non è in grado di determinare alcuna situazione di conflitto di interesse, posto che si è cancellato dall’albo il 7.11.2019 (doc. 10) e non esercita più la professione dal 18.12.2012 (doc. 7), oltre a risultare beneficiario di pensione di invalidità (doc. 9) e di amministrazione di sostegno dal 18.1.2018 (doc. 8);

iv) la Casa di Cura è poi “socio di capitale” della San Marco e, pertanto, ad essa non è applicabile il regime di incompatibilità, poiché riferibile esclusivamente ai “soci gestori”. La farmacia è gestita unicamente dalla San Marco che ne è il titolare ed ha un farmacista che ne è il direttore responsabile, come previsto dall’art. art. 7, comma 3, l. 362/91;

v) anche il fatto che le due società abbiano la medesima sede sociale e che l’Amministratore unico dell’una sia anche Presidente del CdA dell’altra (il dott. Romani), non integra quegli indizi gravi, precisi e concordanti che potrebbero condurre a ritenere l’esistenza di una gestione della farmacia da parte della socia. Semmai, ai fini di un possibile conflitto di interessi, potrebbe assumere rilevanza l’unicità di sede con la farmacia, coincidenza, tuttavia, assente nel caso di specie;

vi) dalla sua qualità di socio unico della San Marco non può desumersi neppure un potere di direzione e coordinamento sulla società controllata, anche perché detto potere dovrebbe risultare dalle iscrizioni nel registro delle imprese, mentre le visure delle società di cui trattasi nulla annoverano in tal senso (docc. 4 e 5).

5.3. – In via logicamente subordinata, la parte appellante ripropone la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 l. n. 362/1991 – in controluce agli artt. 3, 35 e 41, Cost – nella parte in cui non prevedono un termine congruo entro il quale i soci della società (socia della società di farmacia) possono rimuovere la causa di incompatibilità nel corso ovvero all’esito della procedura di evidenza pubblica. Il difetto di uno spatium deliberandi mortificherebbe il diritto al lavoro e all’impresa e segnerebbe una discriminazione irrazionale rispetto ad altre incompatibilità – ad esempio quella in materia di elezioni comunali – sostanzialmente simili alla prima ma, diversamente da questa, assistite da strumenti correttivi qui del tutto mancanti.

5.4. – A queste considerazioni le parti appellate, oltre a reiterare gli elementi posti a base della pronuncia gravata, replicano che:

— la Casa di Cura ha come oggetto sociale esclusivamente la gestione di case di cura e di assistenza per ammalati: come tale essa, operando indiscutibilmente nel campo sanitario e precisamente in ambito medico, incorre nella incompatibilità di legge;

— la ‘cessazione’ dall’attività del dott. Di Simone datata 31.12.2016 (doc. 6) attiene ad una chiusura di partita IVA, ma nulla ha a che vedere con l’iscrizione all’Albo (ed i medici iscritti all’Albo sono pur sempre potenziali prescrittori di farmaci); mentre la cancellazione dall’albo del dott. De Bernardinis Giuseppe risale al 7 novembre 2019 (doc. 10), sicché non rileva in quanto successiva ai fatti di cui si discute;

— l’estensione del regime di incompatibilità previsto dagli artt. 7 e 8 legge n. 362 del 1991 anche al socio persona giuridica che controlla la società titolare della farmacia trova supporto nel parere di questo Consiglio di Stato n. 69/2018; nelle pronunce del medesimo Consiglio n. 474/2017 (affermativa del principio per cui persino un medico non iscritto nell’albo professionale – e dunque non esercente la professione medica – non può essere socio di una società titolare di farmacia) e della Corte Cost. n. 275/2003;

— è vero poi che la Corte costituzionale, con pronuncia n. 11/2020, ha interpretato la causa di incompatibilità prevista dall’art. 8, comma 1, lett. c), cit., ossia quella dell’incompatibilità tra titolarità della farmacia ed altri rapporti di lavoro pubblico o privato, affermando che essa non opera nei confronti di quei soci persona fisica “che si limitino ad acquisirne quote, senza essere ad alcun titolo coinvolti nella gestione della farmacia”. Tuttavia, l’affermazione ha riguardato una disposizione diversa da quella qui rilevante (art. 7 comma 2) e, comunque, non si attaglia al caso, qui in esame, di controllo societario con risvolti gestionali;

— non avrebbe alcun fondamento, dunque, il tentativo dell’appellante di considerare la Casa di cura quale mero “socio di capitale”, poiché essa, lungi dall’aver acquistato semplici quote di una società di gestione di farmacie, è socio unico della Società San Marco, titolare della farmacia, sicché non può che esercitare un potere decisorio totale sulla conduzione e sugli indirizzi del presidio farmaceutico. Altrimenti detto, la San Marco è una mera appendice totalmente dipendente dalla Casa di cura, la quale svolge attività sanitaria o, comunque, – il che è lo stesso ai fini che qui interessano – organizza l’attività di prescrizione dei farmaci da parte dei propri medici;

— d’altra parte, la Casa di Cura, come si evince dal suo sito internet, “è accreditata presso il Servizio Sanitario Nazionale per l’erogazione, sia in regime di ricovero che ambulatoriale, di servizi e prestazioni di diagnosi e cura”; dispone dell’Unità funzionale di Medicina (con tre medici in organico) e dell’Unità funzionale di Chirurgia, a sua volta suddivisa in numerose Sezioni, nelle quali svolgono la loro attività numerosi medici; offre numerosi Servizi diagnostici e ambulatoriali, tutti con la presenza di medici. In sostanza, “tra i fattori produttivi organizzati” dalla Casa di cura vi sono “anche i numerosi medici prescrittori” di cui la stessa si avvale, il che ne determina l’operatività in un ambito, sanitario e medico, non compatibile con quello della “gestione della farmacia”;

— infine, ove si seguisse l’interpretazione contraria a quella fatta propria dal Tar, sarebbe sin troppo facile aggirare i limiti di legge, poiché i soggetti incompatibili potrebbero agevolmente costituire una società al solo scopo di farla divenire socia di una società titolare di farmacia, in tal modo vanificando del tutto la disciplina posta a contrasto dei conflitti di interesse.

Il primo dubbio interpretativo: la “gestione della farmacia”.

6. – Le premesse consentono di approfondire le due questioni di diritto controverse, concernenti: a) il tema della “gestione della farmacia” e b) “l’esercizio della professione medica”.

Rispetto ad esse, si pone un possibile problema di adattamento interpretativo delle fonti, volto a renderle calzanti alle peculiarità del caso, nel più corretto equilibrio tra le ragioni dell’applicazione effettiva delle regole di incompatibilità, ispirate a primarie esigenze di tutela della salute pubblica (32 cost.); e le ragioni della libertà di intrapresa economica (art. 41 cost.), di stabilimento e di libera circolazione di persone e capitali, anche queste di evidente rilievo costituzionale ed eurocomunitario (v. CGUE, quarta sezione, 19 dicembre 2019, C-465/18).

6.1. – Sul primo dei due profili rilevanti (il potere di gestione della farmacia) è di recente intervenuta la pronuncia n. 11/2020 della Corte costituzionale.

Oggetto del giudizio costituzionale era l’art. 8, comma 1, lett. c), della l. n. 362 del 1991, il quale dispone l’incompatibilità “con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”. Nel giudizio a quo si controverteva della possibilità per una professoressa universitaria di essere socia di una società di capitali titolare di farmacia. La Corte ha dichiarato non fondata la questione fornendo, con sentenza interpretativa di rigetto, una lettura diversa da quella resa dal giudice remittente.

L’impostazione licenziata come conforme a costituzione è quella per cui “la causa di incompatibilità di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 8 della legge n. 362 del 1991 non è riferibile ai soci, di società di capitali titolari di farmacie, che si limitino ad acquisirne quote, senza essere ad alcun titolo coinvolti nella gestione della farmacia” (par. 4), ma può applicarsi “solo al socio che risulti fattivamente coinvolto nella gestione della farmacia” (par. 4.1). A giudizio della Corte il punto decisivo per determinare l’incompatibilità è, pertanto, proprio il collegamento o meno con la effettiva “gestione” della farmacia.

In aggiunta ad argomenti di esegesi testuale, la Corte ha osservato, su un piano sistematico, come “l’incompatibilità con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato, se era coerente con il precedente modello organizzativo – che, allo scopo di assicurare che la farmacia fosse comunque gestita e diretta da un farmacista, ne consentiva l’esercizio esclusivamente a società di persone composte da soci farmacisti abilitati, a garanzia dell’assoluta prevalenza dell’elemento professionale su quello imprenditoriale e commerciale –, coerente (quella incompatibilità) non lo è più nel contesto del nuovo quadro normativo di riferimento che emerge dalla citata legge n. 124 del 2017, che segna il definitivo passaggio da una impostazione professionale-tecnica della titolarità e gestione delle farmacie ad una impostazione economico-commerciale. Innovazione, quest’ultima, che si riflette appunto nel riconoscimento della possibilità che la titolarità nell’esercizio delle farmacie private sia acquisita, oltre che da persone fisiche, società di persone e società cooperative a responsabilità limitata, anche da società di capitali; e alla quale si raccorda la previsione che la partecipazione alla compagine sociale non sia più ora limitata ai soli farmacisti iscritti all’albo e in possesso dei requisiti di idoneità. Ragion per cui non è neppure più ora indispensabile una siffatta idoneità per la partecipazione al capitale della società, ma è piuttosto richiesta la qualità di farmacista per la sola direzione della farmacia: direzione che può, peraltro, essere rimessa anche ad un soggetto che non sia socio.

Essendo, dunque, consentita, nell’attuale nuovo assetto normativo, la titolarità di farmacie (private) in capo anche a società di capitali, di cui possono far parte anche soci non farmacisti, né in alcun modo coinvolti nella gestione della farmacia o della società, è conseguente che a tali soggetti, unicamente titolari di quote del capitale sociale (e non altrimenti vincolati alla gestione diretta da normative speciali), non sia pertanto più riferibile l’incompatibilità «con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico privato», di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 8 della legge n. 362 del 1991”.

6.2. – La pronuncia in commento contiene un’enunciazione di assoluto rilievo, secondo la quale il “fattivo coinvolgimento” della gestione del presidio farmaceutico costituisce criterio orientativo nel discriminare il conflitto di interessi, e ciò anche nell’ipotesi dei soci di società di capitali titolari di farmacie.

Resta da intendere in cosa si sostanzi la “gestione della farmacia” e se questa possa ravvisarsi in un caso, come quello di specie, in cui la società titolare di farmacia è detenuta in modo totalitario da altra società di capitali.

6.3. – Ai fini della delibazione del tema, paiono sprovviste di consistenza le due principali obiezioni mosse dalla parte appellante.

– i) Con la prima si sostiene che la relazione di direzione e coordinamento non potrebbe ricavarsi dal solo fatto che la Casa di Cura è socio unico della San Marco, e ciò in quanto detto potere dovrebbe risultare dalle iscrizioni nel registro delle imprese, mentre le visure delle società di cui trattasi nulla annoverano in tal senso (docc. 4 e 5).

In senso contrario rileva osservare che la relazione in questione si presume come effetto della posizione di controllo (art. 2947 sexies c.c.: “si presume salvo prova contraria che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi dell’articolo 2359”).

Nel caso di specie sussiste certamente una posizione di controllo rilevante ai sensi dell’art. 2359 c.c., la quale innesca una presunzione di direzione e coordinamento non contraddetta da alcun elemento deduttivo o probatorio di segno contrario.

Quanto alla sua mancata rappresentazione nel registro delle imprese, vale considerare il carattere recessivo che in materia assumono le formalità attinenti all’iscrizione e alle altre forme di pubblicità previste dall’ art. 2497-bis c.c., in quanto prive di efficacia costitutiva del gruppo e, quindi soccombenti rispetto al principio di effettività e, dunque, alla situazione di fatto esistente al momento dell’inizio, dello svolgimento e della cessazione dell’attività del gruppo (Cass. Civ., sez. I, n. 24943/2019).

– ii) Resta da considerare il secondo anello della catena di comando, che correla la San Marco alla farmacia di cui essa è titolare. Qui sovviene il secondo argomento della parte appellante, secondo il quale la farmacia – essendo gestita da un farmacista che ne è il direttore responsabile, come previsto dall’art. 7, comma 3, l. 362/91 – giammai potrebbe dirsi sottoposta a conduzione della San Marco e, indirettamente, della sua controllante.

L’argomento appare inconferente. Il direttore responsabile è figura distinta da quella del titolare della farmacia, al quale può affiancarsi indipendentemente dal fatto che il primo sia una persona fisica o una società (art. 7 comma 3 legge 361/1991: “La direzione della farmacia gestita dalla società è affidata a un farmacista in possesso del requisito dell’idoneità previsto dall’articolo 12 della legge 2 aprile 1968, n. 475, e successive modificazioni, che ne è responsabile”).

Ferme, poi, le responsabilità del direttore quanto all’organizzazione complessiva della farmacia, è innegabile il potere di direttiva del titolare, in capo al quale permane la facoltà di imprimere gli indirizzi di gestione imprenditoriale ed economica che ne fanno il vero regista della strategia aziendale. A lui, quale datore di lavoro, è chiamato a rispondere, in ultima analisi, il direttore responsabile.

D’altra parte, dando adito all’argomentazione della parte appellante, il regime delle incompatibilità avrebbe scarsissime possibilità di applicazione in tutti i casi di scissione tra proprietà e direzione, poiché basterebbe l’incarico di direzione in capo ad un terzo professionista abilitato ad elidere ogni relazione di continuità gestoria tra proprietà e farmacia.

Quella illustrata è la posizione accolta, peraltro, nel parere n. 69/2018 della Commissione speciale di questo Consiglio del 22 dicembre 2017, ove si legge (punto 13) che “se la titolarità dell’esercizio della farmacia è in capo ad una società (alternativamente: di persone, di capitali o cooperativa a responsabilità limitata), la stessa deve avere ad oggetto esclusivo la gestione della farmacia e la direzione della farmacia deve essere affidata ad un farmacista, anche non socio, che ne è responsabile”.

6.4. – Sgombrato il campo dalle più agevoli obiezioni, resta da acclarare se la presunzione di direzione e coordinamento sulla società titolare di farmacia, imputabile alla società controllante ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2359 e 2947 sexies c.c., possa reputarsi sufficiente a fare di quest’ultima un soggetto effettivamente o fattivamente “coinvolto nella gestione della farmacia”.

— Di possibile intralcio a questa conclusione è il fatto che l’amministrazione della società mediana (in questo caso la San Marco) fa capo ad un soggetto (l’amministratore unico Romani) distinto e diverso dagli amministratori (i cinque componenti del Cda, del quale è parte il suddetto Romani) della società Casa di cura. Si tratta pertanto di stabilire quale rilievo conferire alla sfera di autonomia decisionale (in linea di principio intangibile) di cui gode l’organo amministrativo.

Ed, invero, in applicazione delle regole generali del codice civile in tema di amministrazione delle società per azioni (applicabili in via analogica anche alle s.rl.), i soci, anche se portatori di partecipazioni di controllo sull’assemblea, non possono impartire direttive agli amministratori, alla cui competenza esclusiva l’art. 2380 bis c.c. affida l’amministrazione della compagine.

— A bilanciare l’argomento sin qui delibato si pone la già vista capacità di indirizzo e coordinamento che si presume esistente in capo alla società controllante e che potrebbe tradursi in attività dal contenuto atipico e informale, non meglio definite dal legislatore ma ravvisabili in tutte quelle iniziative di fatto sinteticamente volte ad influenzare le scelte gestionali della società controllata.

Nella lettura giurisprudenziale, la fattispecie della direzione e coordinamento viene appunto intesa come un’attività di fatto, giuridicamente rilevante – in cui soggetto attivo è l’ente dirigente e destinatari sono gli amministratori della società eterodiretta – esplicantesi come influenza dominante sulle scelte e determinazioni gestorie di questi ultimi, che ne sono i naturali referenti e destinatari (Tribunale Roma Sez. spec. in materia di imprese, 18 febbraio 2021).

Detta fattispecie si distingue da quella dell’amministrazione di fatto in quanto l’ente che “dirige e coordina”, diversamente dall’amministratore di fatto, non agisce compiendo atti di gestione della società eterodiretta rilevanti verso terzi, ovvero spendendone il nome all’esterno con l’effetto di imputare ad essa i suoi atti, ma influenza o determina le scelte operate dagli amministratori della stessa società, che si tradurranno in atti gestori rilevanti verso i terzi (v. Trib. Milano 20 marzo 2014; Trib. Milano, Sez. Impr., 20 dicembre 2013 e, sulla distinzione tra attività di direzione e coordinamento e amministrazione di fatto, Cass. Civ. 23 giugno 2015, n. 12979).

In via di estrema sintesi si può quindi dire che la direzione ed il coordinamento consistono in quegli indirizzi di orientamento diretti a rendere l’attività della società controllata complementare o integrativa, secondo i casi, rispetto a quella della controllante, in attuazione della finalità propria del gruppo societario.

Questa azione di indirizzo può assurgere a rilevanza giuridica nella forma della “responsabilità da direzione e coordinamento”, ma a questi fini si esige la prova dell’esistenza “cumulativa” non solo della titolarità, in capo ad una società o ad un ente, di una posizione di direzione e coordinamento nei confronti di altra società, ma anche degli ulteriori presupposti di cui all’art. 2497, comma 1, c.c. (ovvero, della violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, dell’agire nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, del pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale e/o della lesione al patrimonio della società, nonché del nesso causale tra la condotta di eterogestione e il pregiudizio prospettato).

6.5. – Ciò posto, nel valutare in quali casi ed a quali condizioni la società controllante possa dirsi coinvolta, per il tramite della società controllata, nella “gestione della farmacia”, la Sezione intravede tre possibili soluzioni, tutte astrattamente plausibili ma diversamente apprezzabili sul piano della loro razionalità regolativa.

a) Non priva di difficoltà applicative è quella che imporrebbe la valutazione del singolo caso, al fine di accertare qual è la specifica configurazione delle cointeressenze esistenti tra le due società ovvero se alla presunzione di direzione e coordinamento si sia accompagnata, in concreto, un’attività di effettivo condizionamento dell’operato della società controllata.

È chiaro che una metodologia di questo tipo – oltre a disattendere l’esigenza di regole certe, chiare e prevedibili, particolarmente avvertita in un settore normativo percorso da interessi estremamente rilevanti e delicati – non varrebbe ad escludere che il condizionamento, sol perché non esercitato fino ad una certa epoca, possa realizzarsi in un momento successivo. Da qui il carattere precario e instabile di una simile ricognizione dei fattori di rischio.

Le due residuali alternative sono quelle che conducono ad assegnare un rilievo aprioristicamente decisivo: b) alla presunzione di direzione e coordinamento, in quanto tale assumibile quale fattore di rischio per la corretta gestione della società titolare di farmacia; c) in senso opposto, all’intangibile autonomia decisionale dell’organo amministrativo, quale elemento in sé capace di garantire la società controllata da improprie interferenze del socio in posizione di controllo. In quest’ultima prospettiva rileverebbe, nel caso di specie, la distinta composizione degli organi gestionali delle due società qui all’attenzione (un consiglio di amministrazione composto da cinque componenti per la Casa di Cura; ed un amministratore unico per la San Marco).

La strada percorsa dalla sentenza di primo grado è assimilabile alla prima delle alternative da ultimo menzionate, in quanto tende a valorizzare gli indici sintomatici del potenziale conflitto di interessi (la posizione della Casa di cura quale socio totalitario della San Marco; la coincidenza di sedi delle sue società; la coincidenza del Presidente del Cda della Casa di Cura con l’Amministratore unico della San Marco) e a valutarli in modo cumulativo, secondo una logica di tipo “indiziario”.

Il carattere potenziale del conflitto di interessi, ravvisabile anche in capo al cd. “socio di capitale”, trova riscontro nel già menzionato parere del Consiglio di Stato n. 69/2018 (par. 41), nella circolare FOFI n. 10747 del 18 dicembre 2017 e nella pronuncia della Corte Cost. n. 275/2003.

Si tratta, tuttavia, di enunciazioni in parte precedenti alla riforma del 2017 e comunque contraddette dalla più recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 11/2020 che, come si è visto, ha circoscritto la posizione incompatibile a quella del solo socio “gestore”.

Va tuttavia riconosciuto che il caso esaminato dalla Corte nel 2020, per la maggiore semplicità della fattispecie esaminata, si prestava ad una nettezza di affermazioni difficilmente traslabile, tal quale, nel contesto dell’attuale controversia; d’altra parte, la soluzione in quel caso proposta lascia irrisolto il tema delle condizioni concrete al ricorrere delle quali può sostenersi che la società controllante “gestisce” la società controllata.

Gli altri precedenti citati dalle parti fanno riferimento a fattispecie non sovrapponibili a quella qui all’esame, in quanto: Cons. Stato, sez. III, n. 4747/2017 tratta il tema della compatibilità tra il ruolo di titolare di farmacia privata e quella di socio nella gestione di una farmacia comunale; Tar Umbria, sez. I, n. 78/2018, concerne il caso dell’affidamento della farmacia comunale a società concessionaria attiva nella gestione di strutture sanitarie e non costituita da farmacisti abilitati. Si tratta quindi di fattispecie incentrate sulla posizione della società direttamente investita della titolarità della farmacia e non su quella del relativo socio di controllo.

Ciò detto, la difficoltà nella quale incorrono le letture tendenti ad ampliare il raggio della incompatibilità è innanzitutto di tipo “ermeneutico”, in quanto la “gestione” dell’attività si distingue, dal punto di vista semantico e concettuale, dalle espressioni, meno performanti, che evocano l’esistenza di posizioni di “cointeressenza”, di “influenza di fatto” e di “controllo indiretto”; e l’intento di infrangere lo schermo societario e l’autonomia amministrativa degli organi sociali, dunque la distinta soggettività giuridica dell’ente, per inferire, in via indiziaria, un condizionamento mediato della società controllante sulla compagine partecipata (e sui suoi amministratori), produce un effetto di indeterminatezza prescrittiva poco aderente al dettato della legge e alla logica tassativa e tipizzante delle clausole restrittive della libertà negoziale. Un’interpretazione estensiva, dunque, aprirebbe l’assetto regolatorio ad interpretazioni soggettive a base “indiziaria”, disfunzionali ad esigenze di chiarezza e prevedibilità del quadro normativo, ed entrerebbe in tensione con le spinte pro-concorrenziali alla libera circolazione dei mezzi e dei capitali (pur suscettibili di bilanciamento, in questo settore, con l’interesse alla salute).

Quanto all’opzione (lettera c) centrata sull’autonoma gestionale dell’organo amministrativo, essa presenta il limite di ridimensionare grandemente l’impatto del regime delle incompatibilità nell’area degli esercizi farmaceutici a conduzione societaria, poiché, ad eludere il sospetto del collegamento di gestione tra società controllante e controllata, basterebbe il diaframma formale della alterità (o non piena coincidenza soggettiva) dei rispettivi organi amministratori.

Il secondo dubbio interpretativo: “L’esercizio della professione medica”.

7. – Il giudice di primo grado ritiene “innegabile che la società Casa di Cura Privata Villa San Marco svolga attività medica erogando servizi di diagnosi e cura .. trattandosi appunto di una società che pacificamente gestisce case di cura e impiega medici per lo svolgimento della propria attività”.

Questa conclusione viene ricavata sia dalla tipologia delle attività della Casa di cura, sia dalla presenza al suo interno (nel ruolo di socio e di componente del Cda) di due medici (“A tanto aggiungasi che, sebbene sia vero che non vi sia un espresso divieto normativo a che i componenti del Consiglio di amministrazione di società titolare di farmacia possano esercitare la professione di medico, è tuttavia indubbio che la partecipazione di un medico in un organo a cui spetta la gestione della società, che a sua volta è socio unico della società titolare di farmacia, non esclude quella commistione fra gestione di una farmacia e gestione, diretta o indiretta, di attività medica, che può dar vita ad un potenziale conflitto di interessi”).

7.1. – La deduzione operata dal primo giudice si presta ad una serie di possibili rilievi, che così si riassumono:

— l’attività medica può essere esercitata in forma individuale, associata o attraverso società di professionisti. La Casa di Cura non è società di professionisti medici ma organizza e gestisce case di cura, avvalendosi dell’attività di medici, i quali, tuttavia, operano nella loro autonomia professionale e non imputano ad altri le loro scelte e responsabilità;

— quanto ai medici presenti nella compagine societaria della Casa di Cura, essi vi figurano con ruoli (di socio o di componente del Cda) del tutto avulsi dalla loro attività medica, il che non consentirebbe di traslare sulla società il connotato della loro estrazione professionale;

— l’oggetto sociale della società si definisce, infatti, alla stregua del suo statuto e non per effetto dell’attività d’origine dei suoi soci o amministratori, i quali assumono compiti limitati ai loro compiti sociali;

— risulta quindi frutto di forzatura interpretativa (pur comprensibile in un’ottica di più ampia prevenzione del rischio di conflitto di interessi) il tentativo di enfatizzare l’abilitazione professionale del singolo componente del C.d.a. e di superare il dato concernente la composizione plurisoggettiva dell’organo e la specificità e intangibilità delle sue autonome funzioni, non interferenti con quelle del professionista chiamato a farne parte;

— di possibile intralcio alla impostazione seguita dal Tar è anche il fatto che la normativa dettata dalla legge n. 362 del 1991 estende il regime della incompatibilità solo ai soci (in questo caso la Casa di Cura) della società titolare della farmacia (San Marco) ma non anche ai soci o amministratori della prima;

— è motivo di dubbio anche l’assimilazione dell’attività medica (“l’esercizio della professione medica”) a qualunque altra generica attività in ambito medico o sanitario. In questo senso, è vero che “tra i fattori produttivi organizzati” dalla Casa di cura vi sono “anche i numerosi medici prescrittori” di cui la stessa si avvale (memoria Federfarma del 15.11.2021, pag. 18); ma è altresì vero che la Casa di cura in quanto tale non ha alcun potere di prescrizione di cure e medicinali.

7.2. – Le opposte ragioni che portano ad una lettura ampliativa del regime delle incompatibilità rimandano alla ratio della normativa e al suo inquadramento sistematico.

Esse evidenziano che:

— sotto il primo profilo, rileva l’esigenza di garantire appieno l’indipendenza e l’autonomia dell’attività di dispensazione dei farmaci. Ciò impone di porre il ruolo del medico al riparo da ingerenze indebite che potrebbero giungergli da parte di soggetti influenti, collocati in posizioni a lui contigue;

— le normative di contrasto ai conflitti di interessi sperimentate in altri settori ordinamentali tendono a disegnare una linea di prevenzione avanzata del rischio, ovvero mirano a disinnescare in modo anticipato il pericolo di attività indebite e abusive;

— potrebbe quindi sostenersi che la normativa dettata dalla legge n. 361/1992, impostata su un modello personalistico ormai superato, vada attualizzata alla nuova realtà delle società detentrici di farmacia e che, dunque, il concetto di incompatibilità debba essere esteso, in un’ottica sistematica, alla più ampia congerie delle varie attività comunque insistenti in ambito sanitario;

— in questo senso, se la ratio della disciplina delle incompatibilità risiede nella necessità di garantire al massimo l’indipendenza e l’autonomia dell’attività di dispensazione dei farmaci, soprattutto rispetto all’attività di prescrizione degli stessi, a maggior ragione essa deve riguardare anche il soggetto che determina le scelte gestionali della farmacia (e della società titolare) e ne lucra i risultati, come nel caso qui in discussione;

— su questa linea interpretativa sembra essersi posizionato il già citato parere n. 69/2018 della Commissione speciale di questo Consiglio del 22 dicembre 2017. Nel commentare l’incompatibilità di cui all’articolo 7, comma 2, secondo periodo, la Commissione speciale, infatti, pur esaminando un profilo diverso da quello qui in esame, comunque predilige una interpretazione lata del concetto di ?esercizio della professione medica? e, per l’effetto, “ritiene preferibile, nonché più facilmente attuabile, la soluzione che amplia l’ambito di applicazione della detta incompatibilità a qualunque medico, sia che eserciti la professione sia che non eserciti e sia solo iscritto all’albo professionale”.

7.3. – Per segnalare, infine, la portata sistematica e l’impatto riflesso delle questioni all’esame è utile ricordare che l’esercizio dell’attività di assistenza farmaceutica rappresenta un cardine della “materia” del diritto alla salute, garantito e assicurato, nel nostro ordinamento, dallo Stato e dalle Regioni, che si avvalgono delle proprie strutture sanitarie locali.

La coesistenza, nella materia in esame, di interessi di matrice pubblicistica e di natura commerciale, spiega perché gli esercizi farmaceutici siano retti da un ordinamento peculiare, nel quale coesistono tratti di libera impresa e tratti di servizio pubblico regolamentato; e perché nelle farmacie, pubbliche e private, sia rinvenibile una “doppia vocazione” dell’attività svolta, identificabile nell’esplicazione della iniziativa economica individuale (art. 41 Cost.) e nell’espletamento di un pubblico servizio. La qualificazione in termini di “servizio pubblico” assicura la fruibilità e l’accessibilità ad esso da parte di tutti i cittadini, mediante l’insediamento uniforme dei presidi farmaceutici su tutto il territorio; d’altro canto, il profilo economico-imprenditoriale spinge all’adozione di misure di stampo liberista, pur sempre nel rispetto delle garanzie sottese al carattere universale del servizio alla cittadinanza.

Anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di evidenziare come la professione di farmacista debba a pieno titolo essere considerata un’attività imprenditoriale finalizzata, al tempo stesso, all’erogazione ai cittadini di un servizio di fondamentale rilevanza (Corte. Cost. nn. 87/2006 e 216/2014). Tale impostazione è stata ripresa anche da importanti decisioni della Corte di Giustizia con le quali, una volta ribadito il carattere di funzionalità del servizio farmaceutico rispetto alla tutela del bene “salute”, si è affermata la natura economica della funzione del farmacista svolta dietro retribuzione e, per questo motivo, assoggettabile alle disposizioni europee in materia (v. CGUE, grande sezione, 19 marzo 2009, n. 171 e quarta Sezione, 19 dicembre 2019, C-465/18).

E’ dunque evidente il riverbero che la questione posta assume sul piano delle delicata composizione tra le esigenze del libero mercato e quelle della tutela della salute, poste tra loro in un relazione dialettica potenzialmente proficua a condizione, tuttavia, che i benefici del regime concorrenziale vadano a vantaggio di una maggiore efficienza del servizio.

8. Tanto considerato, stanti i profili di attuale e possibile contrasto giurisprudenziale sopra evidenziati ed avuto riguardo alla rilevanza che i punti controversi di diritto rivestono nel settore farmaceutico, il Collegio ritiene necessario deferire il presente ricorso all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, comma1, c.p.a.

9. I quesiti che si sottopongono all’attenzione dell’Adunanza Plenaria sono volti a chiarire quale interpretazione debba trovare l’art. 7 comma 2 della l. n. 362 del 1991 nel caso di farmacia detenuta da società, ove quest’ultima sia partecipata da altra società attiva in ambito sanitario e avente i caratteri sopra segnalati; ed, in particolare, come debbano intendersi in relazione a tale fattispecie, o quali adattamenti interpretativi possano trovare, gli elementi normativi concernenti la “gestione” della farmacia e l’”esercizio della professione medica”.

10. Allo stato, il presente giudizio può quindi essere definito solo in senso parziale, ai sensi dell’art. 36, comma 2, cod. proc. amm., con il rigetto dei motivi primo, secondo e quarto.

11. Ogni ulteriore statuizione sul terzo motivo di appello rimane per contro subordinata all’esito della pronuncia dell’Adunanza plenaria sui punti di diritto oggetto di contrasto.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), non definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto:

a) respinge i motivi primo, secondo e quarto;

b) dispone il deferimento all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sui profili precisati nei quesiti sopra formulati;

c) riserva all’esito l’esame del terzo motivo d’appello ed ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle spese.

Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza plenaria.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Massimiliano Noccelli, Presidente FF

Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere

Giovanni Pescatore, Consigliere, Estensore

Ezio Fedullo, Consigliere

Umberto Maiello, Consigliere

L’ESTENSORE                     IL PRESIDENTE

Giovanni Pescatore                        Massimiliano Noccelli

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Il disabile ha diritto all’istruzione ed all’inclusione. Il preside non può negare il trasporto scolastico perchè non ha soldi

24/12/2021 n. 13463 Tar Lazio -sezione terza bis

MASSIMA

Il diritto all’istruzione del disabile, ed in particolare del disabile grave, quale sancito dall’art. 38, comma 3, Cost. e dai principi di solidarietà collettiva di cui agli artt. 2,3 e 38 Cost., costituisce un diritto fondamentale rispetto al quale il legislatore (in prima battuta) e l’amministrazione (in attuazione della legge) non possono esimersi dall’apprestare un nucleo indefettibile di garanzie fino anche a giungere alla determinazione di un numero di ore di sostegno pari a quello delle ore di frequenza, in caso di accertata situazione di gravità del disabile.

FATTO e DIRITTO

Con l’atto introduttivo del giudizio la parte ricorrente chiedeva l’annullamento della nota del comune resistente con cui era negata l’attivazione del servizio di trasporto scolastico di alunni in situazione di handicap grave, nonché del verbale GLH d’istituto nella parte in cui non assegnava al ricorrente un numero di ore settimanali adeguato alla sua patologia e quantificato nelle certificazioni in 12 ore. Con successivo ricorso per motivi aggiunti impugnava anche il PEI redatto dall’amministrazione resistente nella parte in cui non elaborava alcuna proposta di assegnazione delle ore di sostegno sulla base delle effettive necessità del ricorrente limitandosi ad assegnare 6 ore di sostegno educativo settimanale.

Si costituiva il comune resistente chiedendo rigettarsi il ricorso.

Con ordinanza emessa in corso di causa l’istanza cautelare della ricorrente trovava accoglimento.

Il ricorso proposto deve trovare accoglimento.

Com’è stato già rilevato dalla giurisprudenza di questa Sezione (cfr. 2609/2018) il diritto all’istruzione del disabile, ed in particolare del disabile grave, quale sancito dall’art. 38, comma 3, Cost. e dai principi di solidarietà collettiva di cui agli artt. 2,3 e 38 Cost., costituisce un diritto fondamentale rispetto al quale il legislatore (in prima battuta) e l’amministrazione (in attuazione della legge) non possono esimersi dall’apprestare un nucleo indefettibile di garanzie fino anche a giungere alla determinazione di un numero di ore di sostegno pari a quello delle ore di frequenza, in caso di accertata situazione di gravità del disabile.

La giurisprudenza di questa Sezione ha esaminato compiutamente il procedimento volto all’individuazione delle ore di sostegno da attribuire ai minori portatori di handicap.

In particolare, è stato osservato che il procedimento si articola nel modo seguente: a) il G.L.O.H. elabora i P.E.I. all’interno dei singoli Istituti scolastici, al termine delle fasi procedimentali previste dall’art. 12, comma 5, della legge n. 104 del 1992; b) il dirigente scolastico trasmette le relative risultanze agli Uffici scolastici; c) gli Uffici scolastici, a seguito dell’acquisizione dei dati, devono attribuire ai singoli Istituti tanti insegnanti di sostegno, quanti ne sono necessari per coprire tutte le ore che sono risultate oggetto delle proposte, salva la possibilità di esercitare un potere meramente correttivo, sulla base di riscontri oggettivi (è questo il caso, ad esempio, di errori materiali, ovvero del fatto che singoli alunni non siano più iscritti presso un dato istituto, perché trasferitisi altrove); d) il dirigente scolastico – tranne i casi in cui prenda atto della correzione di errori materiali o delle circostanze ostative, specificamente e motivatamente individuate dagli Uffici scolastici – deve attribuire a ciascun diversamente abile un numero di ore di sostegno corrispondente a quello oggetto della singola proposta del G.L.O.H, dalla quale non si può discostare; e) pertanto, i procedimenti riguardanti gli alunni disabili si devono concludere con gli atti del dirigente scolastico di attribuzione delle ore di sostegno, in conformità alle risultanze del G.L.O.H”.

Inoltre, la sentenza citata ha precisato altresì che “il provvedimento finale del dirigente scolastico: – deve tenere conto della «gravità dell’handicap … così come accertato dall’apposito organo collegiale; – non può tenere conto soltanto delle «difficoltà connesse al numero degli alunni in situazione di handicap»; – non può rendere «prive di effetti concreti, sul piano del sostegno, le statuizioni operate dall’organo collegiale competente a stabilire la gravità dell’handicap e a predisporre il piano individuale di intervento a sostegno del minore in una situazione di handicap riconosciuto come grave»; – non si può basare su «un vincolo derivante dalla carenza di risorse economiche che non possono, in modo assoluto, condizionare il diritto al sostegno in deroga, sino a esigere e sacrificare il diritto fondamentale allo studio e all’istruzione»”.

Infine, è stato rilevato che “a) quando sono contestati una «diagnosi funzionale – D.F.», un «profilo dinamico funzionale – P.D.F.» oppure un «piano educativo individualizzato – P.E.I.», sono ravvisabili posizioni di interesse legittimo, poiché i relativi atti della Amministrazione scolastica sono atti posti in essere nell’esercizio di un ampio potere tecnico-discrezionale dei competenti organi amministrativi; b) ne discende che la condizione di persona gravemente handicappata non è preclusiva della possibilità per l’amministrazione di assegnare un numero di ore di sostegno inferiore a quelle massime previste dalla normativa, sulla base di una analitica motivazione tale dimostrare che le ore assegnate siano concretamente in grado di ovviare all’handicap diagnosticato e di assicurare il proficuo inserimento dell’alunno disabile nella comunità scolastica; c) ne discende, ulteriormente, che trattandosi di una valutazione tecnico discrezionale la stessa può essere sindacabile in sede giurisdizionale solamente per un errore di fatto e per una manifesta illogicità”.

Posti questi principi, la resistente ha disposto l’assegnazione delle ore senza motivare in merito alle ragioni in base alle quali le suddette ore siano state ritenute in grado di ovviare all’handicap diagnosticato e di assicurare il proficuo inserimento e l’integrazione dell’alunno disabile nella comunità scolastica. Ne discende che il provvedimento difetta di adeguata motivazione e ricostruzione dell’iter logico seguito dall’amministrazione per l’attribuzione delle ore di sostegno in favore del ricorrente e analogo discorso interessa anche la questione del trasporto scolastico, posto che il mero riferimento a profili economici appare non idoneo a superare l’iter motivazionale gravante a carico dell’amministrazione.

È poi da rilevare che, in materia di assegnazione delle ore di sostegno all’alunno disabile, il provvedimento finale del dirigente scolastico con cui si stabilisce l’assegnazione delle ore di sostegno non può rendere prive di effetti concreti, sul piano del sostegno, le statuizioni operate dall’organo collegiale competente a stabilire la gravità dell’handicap e a predisporre il piano individuale di intervento a sostegno del minore in una situazione di handicap riconosciuto come grave; esso inoltre non si può basare su un vincolo derivante dalla carenza di risorse economiche che non possono, in modo assoluto, condizionare il diritto al sostegno sino a esigere e sacrificare il diritto fondamentale allo studio e all’istruzione (cfr. Cons. St., sez. VI, 10 luglio 2017, n. 3393).

Per quanto concerne la pretesa ricorsuale tesa ad ottenere l’accertamento del diritto all’attribuzione delle ore di sostegno, la stessa deve essere considerata inammissibile, atteso che la situazione giuridica sottostante all’assegnazione di ore di sostegno è di interesse legittimo, non tutelabile mediante un’autonoma azione di accertamento, la quale comporterebbe che l’adito Tribunale venga a sostituirsi all’amministrazione nell’esercizio di un’attività riservata dalle legge alla sfera discrezionale della stessa.

Posti questi principi, deve essere annullato il provvedimento impugnato per mancata adeguata motivazione delle ore attribuite.

In considerazione dell’esito del giudizio, delle sue peculiarità e della complessità della situazione fattuale sottesa devono ritenersi sussistenti eccezionali motivi per compensare le spese di lite tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei termini di cui in motivazione. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1, 2 e 5, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di riproduzione e diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità del minore, dei soggetti esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare i medesimi interessati ivi citati.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Responsabilità infermiere struttura privata per manomissione cartella infermieristica

10/03/2020 n. 9393 – Cassazione penale – sez. V (ud. 16/12/2019, dep. 10/03/2020)

MASSIMA

L ‘infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva. 

Due in infermieri hanno falsificato la scheda infermieristica indicando di avere effettuato il controllo dei valori della diuresi e delle verifiche posturali.

Il primo quale materiale esecutore ed il secondo quale istigatore, attestato falsamente nelle schede infermieristiche i valori della diuresi e delle verifiche posturali eseguite su alcuni pazienti, nonchè il primo, sempre su istigazione del secondo, apponendo su tali schede anche la firma del secondo.

L‘infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

Questo anche se operano in struttura privata – Più volte questa Corte ha evidenziato come debba essere riconosciuta la qualifica di incaricati di un pubblico servizio ad infermieri ed operatori tecnici addetti all’assistenza, con rapporto diretto e personale, del malato .Tale inquadramento non risulta scalfito dal fatto che l’espletamento di tale attività sanitaria avvenga in strutture private accreditate (come quella nella quale si sono svolti i fatti, secondo l’elenco pubblicato dalla ASL , ovvero che per essa si sia fatto ricorso a strumenti privatistici, o comunque che la disciplina del rapporto di lavoro sia retta dalle norme del codice civile, poichè la rilevanza pubblica dell’attività svolta non risulta eliminata, siccome determinata dalle oggettive finalità di tutela e dal rapporto diretto e personale dell’infermiere con il malato (arg. ex. Sez. 2, n. 769 dell’11/11/2005, Rv. 232989).

Nel momento in cui l’infermiere redige la cartella infermieristica esercita anche un’attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del Pubblico Ufficiale.

Le false attestazioni circa i valori della diuresi e delle verifiche posturali dei pazienti apposte nelle schede infermieristiche oggetto di contestazione devono dunque ritenersi ideologicamente false, ai sensi degli artt. 476-479 c.p.

LA SENTENZA
1.Con sentenza dell’11.12.2018 la Corte d’Appello di Salerno ha confermato la sentenza del Tribunale di Salerno del 20.06.2017 di condanna di Omissis. e Omissis alla pena di mesi nove di reclusione, per i reati di cui agli artt. 81 cpv., 476 e 479 c.p. per avere entrambi, quali infermieri della casa di cura, Campolongo Hospital s.p.a., il primo quale materiale esecutore ed il secondo quale istigatore, attestato falsamente nelle schede infermieristiche i valori della diuresi e delle verifiche posturali eseguite su alcuni pazienti, nonchè il primo, sempre su istigazione del secondo, apponendo su tali schede anche la firma del secondo.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo del difensore di fiducia, lamentando con due motivi:

-con il primo motivo, l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), avendo la Corte territoriale errato nel ritenere che i due imputati fossero investiti di funzioni pubblicistiche rilevanti ex art. 357 c.p.: se ciò può valere per gli infermieri delle strutture pubbliche con riferimento alla compilazione delle cartelle cliniche, da considerarsi alla stregua di atti pubblici, a diversa soluzione deve pervenirsi relativamente alle cartelle redatte dal personale di strutture non accreditate con il servizio sanitario nazionale, assimilabili a mere scritture private, redatte e conservate al fine di promemoria dell’attività svolta; da ciò consegue l’insussistenza del reato contestato, potendosi al più parlare del reato di cui all’art. 485 c.p., depenalizzato;

-con il secondo motivo, la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e); invero la prova risulta travisata la prova, atteso che la teste P., esperta in grafologia, ha riconosciuto la falsità delle firme apposte a nome di M.M. sui fogli infermieristici, ma non ha riferito le stesse al F. e gli infermieri di turno al momento del fatto erano quattro; tali firme sono state ricondotte alla mano del F., considerato autore di queste, soltanto per la circostanza fortuita di essere stato colto nella disponibilità delle schede infermieristiche.

3. In data 9.12.2019 la Casa di Cura Campolongo Hospital s.p.a., a mezzo del difensore, ha depositato memoria con la quale ha concluso per l’inammissibilità od infondatezza dei ricorsi, non confrontandosi con il nucleo delle argomentazioni della sentenza impugnata.

 IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili, siccome manifestamente infondati.

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, atteso che gli imputati non si confrontano con la natura delle funzioni da essi esercitate e con la natura degli atti (schede infermieristiche) da essi falsamente redatte.

1.1. Ed invero, l’infermiere in ragione dell’attività espletata, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto tale attività persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute, ai sensi dell’art. 32 Cost. e, come evidenziato dalla L. n. 251 del 2000, art. 1 si inscrive appunto in un’attività diretta alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva.

1.2. Più volte questa Corte ha evidenziato come debba essere riconosciuta la qualifica di incaricati di un pubblico servizio ad infermieri ed operatori tecnici addetti all’assistenza, con rapporto diretto e personale, del malato (Rv. 204520). Tale inquadramento non risulta scalfito dal fatto che l’espletamento di tale attività sanitaria avvenga in strutture private accreditate (come quella nella quale si sono svolti i fatti, secondo l’elenco pubblicato dalla ASL di (OMISSIS)), ovvero che per essa si sia fatto ricorso a strumenti privatistici, o comunque che la disciplina del rapporto di lavoro sia retta dalle norme del codice civile, poichè la rilevanza pubblica dell’attività svolta non risulta eliminata, siccome determinata dalle oggettive finalità di tutela e dal rapporto diretto e personale dell’infermiere con il malato (arg. ex. Sez. 2, n. 769 dell’11/11/2005, Rv. 232989).

Nel momento in cui l’infermiere redige la cartella infermieristica esercita anche un’attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del P.U..

Solo quando l’attività svolta dagli infermieri – per la quale viene percepito un corrispettivo, risulti estranea alle attribuzioni di ufficio ed al particolare rapporto intercorrente con il malato, siccome compiuta nell’esercizio della loro professione sanitaria – può parlarsi di attività svolta da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, la cui falsificazione è punita a norma dell’art. 481 c.p..

1.3.Nel contesto indicato correttamente agli imputati sono stati ascritti i reati di cui agli artt. 476 e 479 c.p. per le false attestazioni descritte nelle imputazioni, proprio perché, come accennato, l’incaricato di un pubblico servizio, nel momento in cui compila la cartella infermieristica o le schede che la compongono – atti pubblici destinati a confluire nella cartella clinica, per quanto si dirà esercita poteri certificativi connessi alla sua attività, che si esplicano attraverso il rilascio di documenti aventi efficacia probatoria. Peraltro, la disposizione dell’art. 493 c.p. non dilata l’area degli atti pubblici (sono tali solo quelli formati nell’esercizio di una pubblica funzione), ma equipara quelli redatti dagli incaricati di un pubblico servizio agli atti pubblici, estendendo ai primi la tutela penale predisposta per i secondi.

1.4. La cartella infermieristica e le schede che la compongono, contiene la registrazione dei dati, dei rilievi effettuati, delle informazioni raccolte, e l’insieme dei documenti di pertinenza infermieristica in relazione ad un determinato paziente, contribuendo ad assicurare il piano di assistenza personalizzato dello stesso. La cartella infermieristica e le schede che di essa fanno parte è componente integrante della cartella clinica, in quanto completa la documentazione sanitaria del paziente e andrà ricongiunta con l’archiviazione, ad essa. Costituendo, dunque, parte integrante della cartella clinica ne condivide la natura di atto pubblico munito di fede privilegiata (Sez. 5, n. 31858 del 16/04/2009 Rv. 244907), con riferimento alla sua provenienza e ai fatti da questi attestati come avvenuti in presenza dell’autore.

Le false attestazioni circa i valori della diuresi e delle verifiche posturali dei pazienti apposte nelle schede infermieristiche oggetto di contestazione devono dunque ritenersi ideologicamente false, ai sensi degli artt. 476-479 c.p..

2. Manifestamente infondato si presenta il secondo motivo di ricorso, circa la non riferibilità al F. delle false annotazioni e firme apposte a nome di ” M.M.” sui fogli infermieristici. In proposito, i ricorrenti non si confrontano con quanto evidenziato nella sentenza impugnata, che ha ritenuto corretto il percorso logico seguito dal primo giudice, in merito alla riferibilità ad entrambi gli imputati delle false attestazioni contestate. In proposito, quanto al F., la Corte territoriale, senza incorrere in vizi, ha ritenuto l’imputato autore materiale dei falsi sulla base: 1) delle dichiarazioni rese dalla Dott.ssa C., medico in servizio presso la Casa di Cura, la quale ebbe a sorprendere il F. con le schede tra le mani, e insospettitasi provvedeva a controllare uno dei pazienti ricoverati, verificando così che la quantità urine raccolte nella sacca era diversa da quella riportata nella scheda; inoltre, risultava già annotato il dato della diuresi del paziente in ordine alle ore notturne, però ancora non trascorse, mentre la firma apposta sulla scheda era quella del M., ancora non in servizio; 2) dell’accertamento grafologico dal quale è emersa la falsità delle annotazioni apposte sulle schede a firma del M.; 3) delle ammissioni degli stessi imputati, che hanno confermato nelle lettere di risposta alla contestazione disciplinare i fatti oggetto di imputazioni, tanto che il giudice del lavoro ha ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento. A fronte di tali valutazioni il F. ha sviluppato censure del tutto generiche e pertanto inammissibili. Sul punto vale la pena richiamare i principi più volte espressi da questa Corte, secondo cui i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato. (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013).

3. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè, trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile a colpa dei ricorrenti (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento a favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare per ciascuno in Euro tremila a favore della Cassa delle Ammende, oltre alla rifusione delle spese della parte civile liquidate in complessivi Euro tremilacinquecento oltre accessori.

P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno a favore della Cassa delle Ammende, oltre alla rifusione delle spese della parte civile liquidate in complessivi Euro tremilacinquecento oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2020

Medico ed infermiere manomettono i dispositivi medici ed il paziente muore

Cassazione penale 03/01/2022 n. 1 – Sez. TERZA PENALE

LA MASSIMA

Ci si trova, di fronte ad una fattispecie in cui un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

IL FATTO

Con sentenza n. 33253 del 2019 la Quarta Sezione penale della Corte di cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza del 18 maggio 2015 con la quale la Corte di appello di Bologna aveva confermato la precedente decisione del Tribunale di Bologna, che, ritenuta la penale responsabilità di  XY in ordine al reato di cui all’art. 589 cod. pen., per avere, in cooperazione colposa con altri, cagionato, con la sua imperizia, imprudenza e negligenza, la morte di XXX, paziente ricoverato presso il Reparto di terapia intensiva cardiologica dell’Ospedale Maggiore di Bologna, la aveva condannata alla pena ritenuta di giustizia.

Con la sentenza n. 33253 del 2019 la Corte di cassazione aveva rilevato che nel motivare la responsabilità della  la Corte territoriale aveva omesso di considerare quanto, nel determinismo causale della morte di XXX, avevano inciso da una parte la scelta, definita del tutto anomala, di un medico, operante presso la medesima struttura ove la  svolgeva le mansioni di infermiera, di procedere all’espianto del defibrillatore cardiaco impiantabile che era applicato al XXX con un anticipo ritenuto ingiustificato rispetto alla necessità clinica, quest’ultima legata al fatto che quello doveva essere sottoposto ad un intervento di chirurgia cardiaca che avrebbe richiesto il preventivo espianto dell’apparato, e da altra parte il fatto che, dato il momento di congestione che era in corso in quella mattinata nel reparto di terapia intensiva, non vi sarebbe stata in ogni caso la possibilità di intervenire tempestivamente per sopperire alla crisi cardiaca che aveva colpito l’uomo ed alla quale, essendo stato espiantato, non poteva più porre rimedio automaticamente il defibrillatore che questi, sino a poco tempo prima, portava nel suo corpo.

Si rileva, infatti, che secondo la accusa fra le cause della morte del XX vi era stata anche la circostanza che, essendo stato disattivato da un altro infermiere e dalla , o comunque senza la consapevole opposizione della XY , durante il turno notturno da costoro svolto, il meccanismo di attivazione dell’allarme sonoro della esistenza di eventuali malesseri cardiaci che era installato presso il letto occupato dal paziente XXX (così come per tutti gli altri pazienti ricoverati in terapia intensiva), e non avendo gli stessi provveduto né alla riattivazione dell’allarme, una volta terminato il loro servizio notturno, né ad informare di tale loro iniziativa gli infermieri che li avevano sostituiti nel turno diurno, la crisi cardiaca che aveva colpito il XXX non era stata rilevata nella sua immediatezza ma solamente quanto essa aveva già in buona parte spiegato i suoi effetti perniciosi.

Adita, pertanto, quale giudice del rinvio, la Corte di appello di Bologna, nuovamente investita della questione attinente alla responsabilità della , questa ha ribadito la responsabilità della donna, osservando che non vi erano elementi per affermare che l’evento morte del XXX fosse intervenuto a seguito di uno sviamento della ordinaria serie causale degli eventi, legato alla iniziativa di espiantare intempestivamente il defibrillatore automatico (fattore quest’ultimo che, peraltro, la Corte di Bologna ritiene non essere certo, non essendovi una tempistica standard in merito al momento in cui, in vista di un successivo intervento chirurgico, debba essere espiantato il defibrillatore impiantabile) né per sostenere, con la dovuta certezza, che, ove la crisi che aveva colpito il citato paziente fosse stata immediatamente percepita dal personale medico e paramedico in servizio presso il reparto in questione, comunque non sarebbe stato possibile ovviare ad essa nei ristretti tempi che la clinica medica ritiene utili.

 La Corte di Bologna ha, pertanto, confermato la affermazione della responsabilità della donna, limitandosi a ridurre la pena a questa inflitta, portandola da anni 2 di reclusione, come stabilito dal Tribunale di Bologna, ad anni 1 di reclusione, salvo il resto.

Avverso la sentenza in questione ha interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore fiduciario, la Coppolla, articolando due motivi di impugnazione.

Il primo motivo riguarda la erronea applicazione della legge penale in relazione alla rilevazione del nesso di causalità fra la condotta della  e l’evento morte oggetto di contestazione; in sostanza, rileva la ricorrente difesa, la Corte di Bologna, disattendendo le conclusioni cui era peraltro già giunta la Corte di cassazione, ha ritenuto che la condotta del dott. XX, che ha espiantato intempestivamente il defibrillatore dalla persona del XXX, non avrebbe costituito un autonomo ed autosufficiente elemento di rischio atto ad interrompere il nesso di causalità fra l’evento e la condotta della XY, laddove, invece, gli elementi istruttori in atti depongono per la irritualità dell’intervento del dott. XX, il quale non solo non aveva comunicato a tutti gli altri addetti alla terapia intensiva quanto da lui fatto, ma neppure si era preoccupato di verificare la funzionalità del sistema di allarme, tale quindi da introdurre un fattore di novità della precedente serie causale.

Quanto all’ulteriore profilo la ricorrente rileva che la valutazione sulla possibile tempestività dell’intervento dei sanitari, ove gli stessi fossero stati  avvisati per tempo, è stata operata in termini del tutto apodittici e senza procedere ad un autonomo e concreto esame delle risultanze probatorie, e senza, peraltro, che sia stato verificato quale sarebbe potuto essere il tempo utile per intervenire fattivamente a salvaguardia della vita del XXX; la necessità della verifica di tale lasso di tempo tanto più sarebbe stata evidente ove si consideri che, non essendo stato informato tutto il personale dell’avvenuto espianto del defibrillatore dal corpo del XXX, non vi era in atto nel personale una condizione di preallarme, posto che si riteneva che alle eventuali emergenze si sarebbe fatto fronte con il dispositivo che il paziente portava addosso.

Conclusivamente la difesa della imputata richiede nuovamente l’annullamento della sentenza della Corte di Bologna.

CONSIDERATO IN DIRITTO

 Il ricorso, essendo risultati manifestamente, infondati i due motivi posti a suo sostegno, deve essere dichiarato inammissibile. Con riferimento al primo motivo di impugnazione, con il quale la difesa della ricorrente lamenta, sotto il profilo della violazione di legge, il fatto che la Corte di Bologna, nell’affermare la penale responsabilità della  in ordine al reato a lei contestato, avrebbe fatto malgoverno degli artt. 40 e 41 del codice sostanziale penale nella parte in cui essi regolano il regime del nesso di causalità, in particolare nel caso in cui un evento sia dovuto alla interazione sotto il profilo causale di una pluralità di fattori genetici, ritiene la Corte che la doglianza sia del tutto priva di fondamento.

Deve, infatti, premettersi la assoluta irritualità del comportamento tenuto dalla  che, per ragioni da lei stessa ascritte alla esigenza di “scongiurare, durante la notte, quello che (la medesima) aveva definito ‘inquinamento acustico’”, aveva provveduto, unitamente all’altro collega svolgente il servizio notturno di assistenza infermieristica, a silenziare (oltre che gli stessi campanelli dell’interfono che consentiva ai pazienti di collegarsi con gli infermieri di guardia, “tanto che questi, per chiedere aiuto, dovevano chiamare ad alta voce’) il sistema di allarme acustico e visivo, (cosiddetto “allarme rosso”) volto a segnalare, onde immediatamente allertare il personale sanitario, la presenza di fenomeni patologici, ivi compresi quelli di aritmia cardiaca, riferibili ai singoli soggetti occupanti le postazioni di terapia intensiva, riguardante il posto letto assegnato al XXX; deve altresì ricordarsi che il detto sistema di allarme non solamente non era stato riattivato dai due al momento della cessazione del loro servizio ma anche che della sua anomala disattivazione i predetti non avevano fatto cenno ai loro colleghi montanti per il turno diurno.

In termini del tutto corretti, pertanto, i giudici del merito hanno attribuito rilevanza causale all’operato della imputata nel determinismo dell’evento morte del paziente XXX, posto che, evidentemente, la disattivazione dell’impianto di allarme acustico e visivo ha comportato un ritardo nell’assistenza prestata al paziente in occasione della crisi cardiaca per lui fatale.

Ciò posto si tratta di vedere se correttamente o meno in sede di merito è stato escluso che la serie causale, innescata dalla condotta della , può dirsi essere stata interrotta dal fatto che – in termini temporali verosimilmente anticipati rispetto ad una prassi prudenziale, sebbene sia stato accertato che non vi siano precisi riferimenti cronologici in ordine alla tempistica riguardante la effettuazione di tale, pur nell’occasione indispensabile, operazione – alle ore 8 e 28 minuti del 20 febbraio 2013, data in cui si è verificato l’evento, il cardiochirurgo che, successivamente – in particolare fra la tardissima mattinata ed il primo pomeriggio del medesimo giorno – avrebbe dovuto operare il XXX, aveva provveduto, come peraltro necessario in vista del programmato intervento, a disattivare il “defibrillatore cardiaco impiantabile” portato dal paziente e che, fino a quel momento, anche nella notte immediatamente precedente, aveva ovviato in via automatica, consentendo il ripristino dell’ordinario ciclo, alle non infrequenti anomalie del ritmo cardiaco che il paziente presentava.

Ci si trova, in sostanza, di fronte ad una fattispecie in cui un evento può dirsi dovuto ad una pluralità di cause che, originando da una cooperazione colposa di condotte, lo hanno determinato. Sul punto la giurisprudenza della Corte è piuttosto univoca nell’affermare, anche in tempi estremamente recenti, che in tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (per tutte: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 30 giugno 2021, n. 24895; idem Sezione IV penale, 16 luglio 2015, n. 30991).

Nella specie si è dato correttamente corso al giudizio di responsabilità della , essendo stata esclusa – proprio per la sua doverosità in quanto necessariamente funzionale all’effettuazione del successivo intervento chirurgico programmato – la eccezionalità, tale da introdurre un fattore di rischio del tutto inatteso ed autonomo, della condotta di rimozione dell’apparecchio ICD tenuta dal sanitario intervenuto nella mattina del 20 febbraio 2013.

Tale operazione, infatti, sebbene inopportuna nella sua tempistica, non si presenta come idonea ad integrare una serie causale di pericolo del tutto autonoma rispetto alla condotta della , posto che, laddove non fossero stati disattivati i meccanismi automatici di allarme, si sarebbe potuto ragionevolmente ritenere che, l’ambiente ove si trovava il XXX, caratterizzato da un elevato grado di presenza di meccanismi automatici di attivazione della assistenza medica, avrebbe garantito a quello, in caso di necessità, una pronta ed adeguata prestazíone terapeutica.

 D’altra parte non può trascurarsi di osservare che – avendo la  e l’altro infermiere che aveva con lei svolto il turno notturno, disattivato l’impianto di allarme acustico che, pur in presenza del defibrillatore automatico, avrebbe segnalato a questi stessi soggetti il fatto che, durante la notte precedente all’evento morte, il XXX aveva presentato diversi episodi di aritmia cardiaca ,come successivamente emerso in occasione dell’esame dell’apparecchio già espiantato che in più di un’occasione era intervenuto a ripristinare il ritmo cardiaco – non era stato possibile apprezzare immediatamente una siffatta circostanza che, con assoluta verosimiglianza, ove, invece, posta a conoscenza del personale sanitario, avrebbe, quanto meno, indotto una particolare cautela sia nella scelta dei tempí per l’esecuzione dell’espianto sia – ove portata a conoscenza di tutto il personale e non del solo medico che, dopo avere eseguíto l’espianto, aveva compiuto l’”interrogatorio telemetrico dell’apparecchiatura”, il quale, a sua volta, aveva informato del suo operato solo alcuni altri addetti – nel monitoraggio, una volta compiuta tale operazione, delle condizioni del paziente.

Particolare attenzione che – pur considerate le peculiarità che caratterizzano in tema di assistenza medica un reparto di terapia intensiva – la non preventivamente rilevata presenza di particolari criticità, “silenziate” per effetto dell’avvenuta disattivazione dell’impianto di segnalazione acustica e visiva delle emergenze, aveva verosimilmente fatto trascurare. In definitiva nel rilevare che non vi era stata alcuna interruzione del nesso di causalità fra la improvvida condotta della  e l’evento da cui dipende l’esistenza del reato a lei ascritto la Corte felsinea non ha fatto cattivo governo dei criteri che regolano la materia in caso di pluralità di fattosi causali, avendo, invece, correttamente applicato il principio, accolto sia in sede normativa che dalla ermeneutica giurisprudenziale, di equivalenza causale, in applicazione del quale l’azione od omissione dell’agente è considerata causa dell’evento nel quale il reato si concretizza, anche se altre circostanze, di qualsiasi genere – a quello estranee, preesistenti, concomitanti o successive, laddove esse non siano state tali da determinare in maniera autonoma e del tutto indipendente dalle precedenti l’evento – concorrono alla sua produzione perché il comportamento dell’agente ha pur sempre costituito una delle condizioni dell’evento (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 26 marzo 1983, n. 2764).

Venendo al secondo motivo di ricorso, il cui oggetto è la ritenuta contraddittorietà o illogicità della motivazione della sentenza impugnata in quanto in essa la Corte felsinea avrebbe, in termini apodittici, rilevato che, ove l’impianto di allarme sonoro disattivato dalla  fosse stato in funzione sarebbe stato possibile intervenire tempestivamente a favore del XXX, va rilevata la inammissibilità anche di questo. Si rileva che sul punto la sentenza impugnata, lungi dal presentare il vizio lamentato dal ricorrente, ha invece minuziosamente ricostruito le fasi che hanno condotto all’exitus del XXX, segnalando il fatto che fra la prima fase di semplice tachicardia ventricolare, iniziata alle ore 8 e 48 minuti, per come oggettivamente risultante dalle registrazioni elettrocardigrafiche operate in via continuativa sui pazienti ricoverati nella rianimazione, e la fase di “asistolia non rettilinea”, rilevata strumentalmente alle ore 9, 0 minuti e 50 secondi, successivamente alla quale, dopo altri 2 minuti circa, sono iniziate le, ormai tardive, manovre di rianimazione, sono intercorsi quasi 13 minuti, tempo indubbiamente più che sufficiente, in un reparto ospedaliero istituzionalmente avvezzo a praticare cure d’urgenza quale è quello della rianimazione cardiologica (nel quale gli apparati “salvavita” sono già allocati accanto al posto letto di ogni degente), per apprestare una risposta che, ad avviso della Corte (e si tratta di valutazione di fatto del tutto plausibilmente basata sulle risultanze consultive di cui la Corte territoriale ha tenuto conto, come tale non censurabile di fronte a questa Corte di legittimità), avrebbe con elevatissima probabilità consentito, se tempestiva, la sopravvivenza del [XXX. Tutto questo, beninteso, solo in quanto l’apparato di costante monitoraggio della condizione del paziente fosse stato correttamente collegato con il sistema di allarme acustico e visivo, dovendo ritenersi, senza alcun ragionevole dubbio, che questo, adempiendo alla sua specifica funzione, avrebbe allertato il personale ospedaliero ben primo di quanto sia, invece, casualmente avvenuto nella fattispecie.

Le doglianze al riguardo formulate dalla difesa della ricorrente, attinenti alla pretesa “costipazione” del personale del reparto al momento in cui è verificata l’emergenza, impegnato in altre e diverse attività, non superano il livello della mera prospettazione fattuale, come tale non rilevante in questa sede, peraltro smentita dalla Corte di Bologna, la quale ha accertato che nel momento in cui si è verificata la crisi cardiaca che ha condotto il paziente a morte nel reparto vi erano, almeno, tre infermieri professionali ed un medico di guardia, nessuno dei quali impegnato in attività aventi una qualche urgenza e che, pertanto, ben avrebbero potuto essere interrotte onde prestare la indispensabile assistenza al XXX; tutto questo, beninteso, si ribadisce, solo in quanto gli strumenti apprestati per segnalare con immediata tempestività la presenza di situazioni di emergenza non fossero stati, con [inescusabile negligenza e gravissima imprudenza, disattivati dalla . Non essendo stata riscontrata, alla luce delle argomentazioni che precedono, alcuna contraddizione né manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata della Corte di appello di Bologna, anche il secondo motivo del ricorso presentato avverso di essa deve essere dichiarato inammissibile e, con esso, l’intera impugnazione.

Conseguentemente a tale statuizione la ricorrente, visto l’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannata al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Della presente pronunzia, essendo divenuta definitiva la condanna della , dipendente di una amministrazione pubblica, deve essere data notizia, ai sensi dell’art. 153-ter disp. att. cod. proc. pen., alla Azienda ospedaliera presso la quale la stessa, quantomeno all’epoca del fatto, prestava servizio.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Visto l’art. 153-ter disp. att. cod. proc. pen., dispone che il presente dispositivo

sia comunicato alla Azienda ospedaliera Ospedale Maggiore di Bologna.

Così deciso in Roma, il 3 novembre 2021

Obbligo vaccinale sanitari. Il Ministero della Salute chiarisce i dubbi degli Ordini

Con nota del Ministero della Salute 68503 del 28/12/2021 l’ufficio legislativo del Ministero della Salute ha chiarito alcuni dubbi degli Ordini Professionali. In sintesi:

  • Gli Ordini possono accedere autonomamente alla verifica della certificazione Verde. E’ necessario che gli ordini procedano ad un accertamento generale e automatizzato della situazione vaccinale dei singoli scritti, così come comprovata dal possesso della certificazione verde. Tale accertamento, quindi, concerne tutti gli iscritti ivi inclusi coloro che siano già destinatari di un provvedimento di sospensione.
  • Gli ordini sono legittimati a richiedere direttamente all’interessato di fornire riferimenti del proprio datore di lavoro in occasione dell’invito a produrre la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione oppure l’attestazione relativa l’omissione o al differimento della stessa.
  • La sospensione non ha natura disciplinare, quindi le relative comunicazioni non dovranno essere inviate agli enti di cui all’articolo 49 del DPR 221 del 1950 (Dell’inizio e dell’esito di ogni giudizio disciplinare è data immediata comunicazione, a cura del presidente, al prefetto ed al procuratore della Repubblica territorialmente competenti per l’Albo cui è iscritto l’incolpato, nonché alle medesime autorità di altra circoscrizione che abbiano promosso il giudizio. I provvedimenti di sospensione dall’esercizio professionale e di radiazione, quando siano divenuti definitivi, sono comunicati a tutti gli Ordini o Collegi della  categoria a cui appartiene il sanitario sospeso o radiato e alle autorità ed agli enti ai quali deve essere inviato l’Albo a norma dell’art. 2).
  • Nel caso in cui gli iscritto non produca documentazione comprovante l’ eseguita vaccinazione o la prenotazione della vaccinazione,  l’Ordine procederà ad emettere provvedimento di sospensione fino a che non risulti completato il ciclo vaccinale primario o, per coloro che abbiano già completato il ciclo primario da più di 5 mesi fino alla somministrazione della dose di richiamo.
  • Nella prima fase del contraddittorio l’interessato ha la possibilità di mettersi in regola presentando la prenotazione nel successivo termine di 20 giorni. Nel caso in cui il professionista non si sottoponga alla vaccinazione nel termine e conseguentemente si è dato corso alla sospensione, per poter riprendere l’esercizio della professione non potrà più limitarsi ad esibire la prenotazione ma dovrà dimostrare di avere eseguito l’intero ciclo vaccinale.
  • Il requisito dell’ l’avvenuta vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati e, secondo il ministero costituisce un requisito anche per l’iscrizione all’albo da parte del professionista punto da parte degli ordini. Il riscontro dovrà avvenire mediante acquisizione dei certificati vaccinali dagli scriventi avendo cura di adottare adeguate misure per la custodia e la sicurezza dei dati relativi alla salute in essi contenuti.

Scarica il documento del Ministero della Salute

La certificazione generica non esonera il sanitario dall’obbligo di vaccinarsi.

sez. III, 20 dicembre 2021, n. 8454 – Pres. (ff.) Noccelli, Est. Fedullo

La massima

Il medico di medicina generale che certifica il pericolo di un proprio paziente, che svolge la professione sanitaria, a somministrare il vaccino anti covid-19 deve indicare la patologia di cui soffre l’interessato, e ciò in quanto il controllo demandato alla ASL – responsabile a verificare l’idoneità della certificazione all’uopo rilasciata – concerne pur sempre la certificazione del medico di medicina generale, la quale però, proprio perché costituente l’oggetto (diretto ed esclusivo) dell’attività di verifica della ASL, deve consentire all’Amministrazione di appurare la sussistenza dei presupposti dell’esonero .


Questa è la massima contenuta nella sentenza del  sez. III, 20 dicembre 2021, n. 8454 – Pres. (ff.) Noccelli, Est. Fedullo, emessa nel corso di un procedimento proposto da un medico di medicina generale Laziale, teso a fare accertare la violazione dell’art. 4, comma 2, d.l. n. 44/2021 da parte dell’Azienda Sanitaria che lo sospese per omessa vaccinazione.
Il Consiglio di Stato, dopo avere confermato la propria competenza a giudicare la materia, ha affermato che l’art. 4, comma 2, d.l. n. 44 del 2021 ricollega l’esonero dall’obbligo vaccinale Covid-19 al solo “caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”.


La posizione del medico ricorrente
In particolare, il medico produsse una certificazione nella quale si dichiarava che l’interessato era affetto da “patologie che non sono oggetto di sperimentazione da parte di alcuna delle Case Farmaceutiche produttrici di vaccini anti Covid e pertanto la mancata sperimentazione costituisce accertato pericolo per la salute del paziente essendo tale la mancata sperimentazione specifica”.
L’azienda sanitaria, affermò l’inidoneità delle due certificazioni prodotte dall’interessato al fine di giustificare l’esenzione dall’obbligo vaccinale, correlata dalla citata disposizione alla sussistenza di un “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”, dal momento che le stesse “nulla dicono circa la patologia sofferta e, soprattutto, circa la documentazione base da cui tale esenzione sarebbe in effetti scaturita”.


Il ruolo della certificazione del medico generale

Ebbene, prosegue la sentenza, poiché la norma, nella sua formulazione testuale, attribuisce al medico di medicina generale il compito di attestare l’ ”accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate”, ne deriva che di tali elementi costitutivi della fattispecie di esonero deve darsi espressamente atto nella certificazione all’uopo rilasciata: l ’ ”attestazione” delle “specifiche condizioni cliniche documentate”, non consiste nella (ed il relativo compito non può quindi ritenersi assolto mediante una) mera dichiarazione della loro esistenza “ab externo”, essendo necessario, ai fini del perfezionamento della fattispecie esoneratrice, che delle “specifiche condizioni cliniche documentate” sia dato riscontro nella certificazione, unitamente al “pericolo per la salute” dell’interessato che il medico certificatore ritenga di ricavarne.
Del resto, ove così non fosse, sarebbe neutralizzato qualsiasi potere di controllo – anche nella forma “minima” e “mediata” della esaustività giustificativa della certificazione, la quale implica e sottende la possibilità di vagliare, quantomeno secondo un parametro “minimo” di “attendibilità”, la rispondenza della certificazione alla finalità per la quale è prevista, che la parte appellante esclude essere esercitabile dalla ASL, restando devoluta al medico certificatore ogni decisione in ordine alla (in)sussistenza dell’obbligo vaccinale: esito interpretativo che, tuttavia, risulta dissonante rispetto alla pregnanza – in termini sostanziali (con il riferimento alle “specifiche condizioni cliniche” ed al “pericolo per la salute”) e probatori (allorché si richiede che le prime siano “documentate” ed il secondo “accertato”) delle condizioni esoneratrici, delineate nei termini esposti dal legislatore.


Il certificato e la privacy
Il Consiglio di Stato ha ritenuto in conformità alla sentenza del Tar Lazio impugnata, che nella fattispecie non vi fosse neppure la lamentata violazione del dovere di riservatezza.
Le esigenze di tutela della sfera di riservatezza dell’interessato, afferma la sentenza, deve tener conto del “necessario bilanciamento tra riservatezza e trattamento dei dati sensibili da parte della competente amministrazione deputata alla verifica di attendibilità della attestazione di esonero dalla vaccinazione [trattamento da intendere nella specie anche come semplice “consultazione” del dato stesso, ai sensi dell’art. 4, primo par., n. 2), del Regolamento 27 aprile 2016, n. 2016/679/UE, d’ora in avanti “Regolamento UE” è stato direttamente operato “a monte” dal legislatore di emergenza, a favore ossia della possibilità di trattare tali dati ad opera della competente PA, nel momento in cui il richiamato comma 5 dell’art. 4 del DL n. 44 del 2021 ha previsto l’obbligo, a carico dell’interessato, di versare agli atti del procedimento non solo la “certificazione” del proprio medico curante ma anche tutta la “documentazione comprovante” le ragioni poste alla base di siffatto esonero vaccinale”, sia perché “una simile conclusione si rivela inoltre pienamente coerente con l’ordinamento interno ed eurounitario in materia di tutela della riservatezza”.