Studio Legale Avv. Paola Maddalena Ferrari

Disposizione anticipata di trattamento – il format

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La quarantena non è incostituzionale

Corte Costituzionale n. 127 6 aprile – depositata il 26 maggio26 maggio 2022

LA MASSIMA

I «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose». Si è, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

Questa è l’opinione della Corte Costituzionale espressa nella sentenza n. 127 emessa il 6 aprile e depositata il 26 maggio scorso.

La rimessione prese spunto da una causa penale. incardinata presso il Tribunale di Reggio Calabria. dove all’imputato fu contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

LE NORME CENSURATE

La sentenza ha respinto le questioni di incostituzionalità degli artt.  2. 1, comma 6° e 2, comma 3° del decreto-legge 16/05/2020, n. 33, convertito, con modificazioni, nella legge 14/07/2020, n. 74.  (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19).

L’art. 1, comma 6, stabilisce che «è fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, aggiunge che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

SENTENZA N. 127 ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, promosso dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, nel procedimento penale a carico di M. A., con ordinanza del 15 aprile 2021, iscritta al n. 141 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2022 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021), il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

L’art. 1, comma 6, censurato stabilisce che «[è] fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

L’art. 2, comma 3, censurato aggiunge che «[s]alvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

Il giudice rimettente riferisce di dover giudicare un imputato tratto a giudizio direttissimo, tra l’altro, in relazione alla contravvenzione così punita, perché tale persona «non avrebbe osservato un ordine legalmente dato per impedire la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo».

Sarebbe perciò palese la rilevanza della questione, che investe la legittimità costituzionale della norma incriminatrice.

In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che il divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora avrebbe un contenuto «assolutamente identico» alla restrizione imposta mediante gli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 del codice di procedura penale, ovvero mediante la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Gli istituti di diritto penale appena citati inciderebbero senza dubbio sulla libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost.

Il rimettente ne deduce che analoga conclusione debba essere formulata quanto al divieto di mobilità oggetto di causa.

Infatti, la quarantena obbligatoria implicherebbe una limitazione positiva legata alla persona, anziché negativa in relazione ai luoghi: ovvero, essa «non impone un divieto di recarsi in determinati luoghi», ma «un divieto di muoversi a determinati soggetti».

Il giudice a quo ne conclude che il provvedimento di adozione del divieto comporti una restrizione della libertà personale, anziché della libertà di circolazione tutelata dall’art. 16 Cost., e che quindi esso debba essere adottato dall’autorità giudiziaria, o soggetto a convalida di quest’ultima.

Il giudice a quo, escluso che la lettera delle disposizioni impugnate permetta in via interpretativa di ritenere che il provvedimento sia soggetto a convalida dell’autorità giudiziaria, dubita perciò della legittimità costituzionale del divieto di mobilità e del regime penale che ne accompagna la violazione, per lesione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

L’Avvocatura ritiene che la misura alla quale è sottoposto chi si ammala vada ricondotta alla sfera della libertà di circolazione, anziché all’art. 13 Cost., deducendone l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

Ciò sulla base, sia del criterio cosiddetto quantitativo, sia del criterio cosiddetto qualitativo, che sarebbero stati elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte e che determinerebbero, altresì, la non fondatezza della questione.

Infatti, secondo la difesa statale, la restrizione, nel caso di specie, avrebbe carattere lieve e non comprometterebbe la dignità della persona, sottoponendola ad un trattamento degradante.

Tali considerazioni, che sottraggono al campo proprio dell’art. 13 Cost. i trattamenti sanitari obbligatori, varrebbero anche per i «cordoni sanitari» istituiti per contenere il contagio, anche se con provvedimenti diretti nei confronti di singoli individui.

Il divieto di mobilità per cui è causa sarebbe perciò una misura limitativa della libertà di circolazione, di natura provvisoria, e subordinata al «mero accertamento della positività al virus Covid-19».

L’assenza di ogni carattere coercitivo renderebbe, inoltre, improprio il riferimento operato dal giudice rimettente agli istituti degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare, che invece comportano «forme di coazione fisica», quale l’applicazione del regime carcerario, in caso di inosservanza delle misure.

3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, limitandosi a reiterare gli argomenti già svolti in sede di intervento.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 15 aprile 2021 (reg. ord. n. 141 del 2021) il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione.

Il rimettente giudica un imputato al quale è contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.

Il giudice a quo reputa il combinato disposto delle norme censurate difforme dall’art. 13 Cost., perché esse non prevedono che il provvedimento dell’autorità sanitaria, con il quale il malato è sottoposto alla cosiddetta quarantena obbligatoria, sia convalidato entro 48 ore dall’autorità giudiziaria.

2.– Nella fase iniziale della pandemia il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, aveva approntato una risposta penale per ogni violazione delle «misure di contenimento» attuate, sulla base di tale fonte primaria, a mezzo di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.

Tuttavia, fin dall’entrata in vigore del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35, il legislatore ha preferito riservare la sanzione penale alla trasgressione ritenuta più grave, nell’ottica del contenimento del contagio, ovvero alla violazione del «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, purché risultate positive al virus», a condizione che tale misura fosse stata attivata con gli strumenti di cui all’art. 2 di tale testo normativo, ovvero d.P.C.m. o ordinanze del Ministro della salute (art. 1, comma 2, lettera e, del d.l. n. 19 del 2020).

Con le disposizioni oggi censurate è direttamente la legge, senza la successiva intermediazione di un d.P.C.m., a porre il «divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’ autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata» (art. 1, comma 6, del d.l. n. 33 del 2020, come convertito), nonché a stabilire che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265» (art. 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020).

Tale figura contravvenzionale di reato mantiene analoga forma, quanto agli elementi costitutivi della fattispecie e alla pena comminata, con il sopravvenuto art. 4, comma 1, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza), che «a decorrere dal 1° aprile 2022» introduce l’art. 10-ter nel testo del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52 (Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 giugno 2021, n. 87.

Quest’ultima disposizione, saldandosi all’art. 13, comma 2-bis, del d.l. n. 52 del 2021, come introdotto a propria volta dall’art. 11, comma 1, lettera b), del d.l. n. 24 del 2022, continua a comportare che sia incriminato, con la medesima pena, il fatto descritto dalle disposizioni del d.l. n. 33 del 2020, in forza delle quali l’imputato viene giudicato nel processo principale.

Pertanto, è palese che lo ius superveniens non interferisce con l’attuale questione di legittimità costituzionale.

2.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità della questione, perché il rimettente avrebbe errato nel ricondurre la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria allo statuto giuridico della libertà personale (art. 13 Cost.), anziché a quello della libertà di circolazione (art. 16 Cost.), che non contiene in sé, diversamente dal primo, la riserva di giurisdizione.

L’eccezione non è fondata, posto che essa attiene con ogni evidenza al merito della questione, e non già ai suoi profili preliminari.

3.– Nel merito, la questione non è fondata.

3.1.– Il dubbio del rimettente nasce dalla convinzione che una misura così limitativa della facoltà di libera locomozione, da impedire l’uscita dalla propria abitazione durante la malattia, non possa che ricadere nella sfera giuridica della libertà personale, al pari di misure che il giudice a quo reputa del tutto affini quanto al grado di afflittività, ovvero gli arresti domiciliari, che sono una misura cautelare (art. 284 del codice di procedura penale), e la detenzione domiciliare, ovvero una misura alternativa alla detenzione (art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»).

È evidente che la facoltà di autodeterminarsi quanto alla mobilità della propria persona nello spazio, in linea di principio, costituisce una componente essenziale sia della libertà personale, sia della libertà di circolazione.

Tuttavia, i criteri che il rimettente suggerisce per qualificare la fattispecie ai sensi dell’art. 13 Cost., anziché in base all’art. 16 Cost., non hanno mai trovato corrispondenza nella ormai pluridecennale giurisprudenza maturata da questa Corte sul punto controverso.

Questa Corte, con la sentenza n. 68 del 1964, ha già rilevato che i «motivi di sanità» che permettono alla legge, ai sensi dell’art. 16 Cost., di limitare in via generale la libertà di circolazione delle persone possono giungere fino alla «necessità di isolare individui affetti da malattie contagiose».

Perciò, in linea di principio, e impregiudicato ogni ulteriore profilo concernente la legittimità costituzionale di tali misure, non si può negare che un cordone sanitario volto a proteggere la salute nell’interesse della collettività (art. 32 Cost) possa stringersi di quanto è necessario, secondo un criterio di proporzionalità e di adeguatezza rispetto alle circostanze del caso concreto, per prevenire la diffusione di malattie contagiose di elevata gravità.

A seconda dei casi, in particolare, e sempre alla luce della evoluzione della pandemia, il legislatore potrà orientarsi, sia nel senso di prescrivere un divieto generalizzato a recarsi in determinati luoghi, per esempio quando il fattore di contagio alberghi solo in questi ultimi (ciò che il rimettente definisce «limitazioni negative» legate al luogo, attribuendole all’art. 16 Cost.), sia nel senso di imporre un divieto di spostarsi a determinate persone, specie quando queste ultime, in ragione della libertà di circolare, siano, a causa della contagiosità, un pericoloso vettore della malattia (ciò che il giudice a quo sostiene erroneamente comportare una «limitazione positiva» prescritta all’individuo, come tale in ogni caso presidiata dall’art. 13 Cost.).

3.2.– Si tratta di stabilire, anzitutto, se le modalità con le quali una simile, gravosa misura siano state adottate non trasmodino, in concreto, in restrizione della libertà personale.

3.3.– Inoltre, una volta che si sia giunti alla conclusione che la limitazione introdotta dal legislatore appartenga, a buon titolo, al campo governato dall’art. 16 Cost., e si sia quindi potuto escludere ogni rilievo all’art. 13 Cost., ugualmente occorrerebbe valutare la conformità della misura adottata ai limiti costituzionali che il legislatore incontra in tema di compressione della libertà di circolazione.

Quest’ultima, pur priva della riserva di giurisdizione, resta assistita da garanzie consone al fondamentale rilievo costituzionale che connota la facoltà di locomozione, anche quale base fattuale per l’esercizio di numerosi altri diritti di primaria importanza.

Tuttavia, tale secondo aspetto del problema non è stato sottoposto all’attenzione di questa Corte dal giudice rimettente, che ha invece circoscritto il dubbio di costituzionalità alla violazione dell’art. 13 Cost., sicché è solo a quest’ultima che deve riservarsi ora l’attenzione, restando invece impregiudicato ogni profilo afferente all’osservanza dell’art. 16 Cost.

4.– Nella giurisprudenza costituzionale, il nucleo irriducibile dell’habeas corpus, tutelato dall’art. 13 Cost. e ricavabile per induzione dal novero di atti espressamente menzionati dallo stesso articolo (detenzione, ispezione, perquisizione personale), comporta che il legislatore non possa assoggettare a coercizione fisica una persona, se non in forza di atto motivato dell’autorità giudiziaria, o convalidato da quest’ultima entro quarantotto ore, qualora alla coercizione abbia invece provveduto l’autorità di pubblica sicurezza.

L’impiego della forza per restringere la capacità di disporre del proprio corpo, purché ciò avvenga in misura non del tutto trascurabile e momentanea (sentenze n. 30 del 1962 e n. 13 del 1972), è quindi precluso alla legge dalla lettera stessa dell’art. 13 Cost., se non interviene il giudice, la cui posizione di indipendenza e imparzialità assicura che non siano commessi arbitri in danno delle persone.

Qualora, pertanto, il legislatore intervenga sulla libertà di locomozione, indice certo per assegnare tale misura all’ambito applicativo dell’art. 13 Cost. (e non dell’art. 16 Cost.) è che essa sia non soltanto obbligatoria (tale, vale a dire, da comportare una sanzione per chi vi si sottragga), ma anche tale da richiedere una coercizione fisica.

Per detta ragione, questa Corte ha ritenuto che un mero ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, la cui esecuzione sia affidata alla collaborazione spontanea di chi lo riceve, afferisca alla libertà di circolazione, ma che, diversamente, ove l’ordine comporti la traduzione fisica della persona, esso debba essere assistito dalle garanzie di cui all’art. 13 Cost. (sentenze n. 2 del 1956 e n. 45 del 1960). Parimenti, il respingimento dello straniero con accompagnamento coattivo alla frontiera, a differenza dell’ordine di espulsione, restringe la libertà personale in ragione di tale «modalità esecutiva» (sentenza n. 275 del 2017; in precedenza, sentenza n. 222 del 2004).

L’«assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale» contraddistingue anche il trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza, in quanto l’autorità competente, «avvalendosi della forza pubblica» adotta misure che impediscono di abbandonare il luogo (sentenze n. 105 del 2001; si veda, inoltre, la sentenza n. 23 del 1975).

Sempre in osservanza del fondamentale criterio che attiene alla coercizione fisica, questa Corte ha ricondotto all’art. 13 Cost. l’esecuzione di un prelievo ematico nel corso di un procedimento penale «quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva» (sentenza n. 238 del 1996), ma ha invece escluso l’applicabilità di tale disposizione costituzionale al test alcolemico, ove proposto a chi sia sospettato di aver guidato in stato di ebbrezza, considerato che la persona, pur commettendo reato in caso di rifiuto ingiustificato, «non subisce coartazione alcuna, potendosi rifiutare in caso di ritenuto abuso di potere da parte dell’agente» di pubblica sicurezza (sentenza n. 194 del 1996).

Ed è bene precisare che qualora sia previsto il ricorso alla forza fisica al fine di instaurare o mantenere in essere, con apprezzabile durata, una misura restrittiva della facoltà di libera locomozione, allora la circostanza che la legge abbia introdotto tale misura in via generale per motivi di sanità non comporta che essa vada assegnata alla garanzia costituzionale offerta dall’art. 16 Cost., e sfugga così alla riserva di giurisdizione, posto che detto elemento coercitivo implica necessariamente che sia l’autorità giudiziaria ad applicare la restrizione, o a convalidarne l’esecuzione provvisoria.

Così, in particolare, la garanzia di cui all’art. 13 Cost. raggiunge certamente misure disposte o protratte coattivamente, anche se sorrette da finalità di cura, perché «quanto meno allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come “obbligatorio” – con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso, ma anche come “coattivo” – potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana – le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona» (sentenza n. 22 del 2022).

4.1.– Ciò premesso, l’obbligo, per chi è sottoposto a quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria, in quanto risultato positivo al virus COVID-19, di non uscire dalla propria abitazione o dimora, non restringe la libertà personale, anzitutto perché esso non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia.

Il destinatario del provvedimento è infatti senza dubbio obbligato ad osservare l’isolamento, a pena di incorrere nella sanzione penale, ma non vi è costretto ricorrendo ad una coercizione fisica, al punto che la normativa non prevede neppure alcuna forma di sorveglianza in grado di prevenire la violazione. In definitiva, chiunque sia sottoposto alla “quarantena” e si allontani dalla propria dimora incorrerà nella sanzione prevista dalla disposizione censurata, ma non gli si potrà impedire fisicamente di lasciare la dimora stessa, né potrà essere arrestato in conseguenza di tale violazione.

Non può a tale proposito sfuggire la marcata differenza che separa tale fattispecie dalle ipotesi normative evocate dal rimettente per giustificare l’applicazione dell’art. 13 Cost.

Sia la misura cautelare degli arresti domiciliari (art. 284 cod. proc. pen.), sia la misura alternativa alla detenzione costituita dalla detenzione domiciliare (art. 47-ter della legge n. 354 del 1975) sono, infatti, coattivamente imposte e mantenute in vigore, al punto che l’art. 3 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e di buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, consente l’arresto di chi sia evaso anche al di fuori dei casi di flagranza.

Non vi è quindi, su questo piano, alcun paragone possibile tra l’introduzione, da parte delle norme censurate e a pena di commettere una contravvenzione, del solo obbligo di non uscire di casa se malati, al fine di scongiurare ulteriori contagi, e l’esecuzione di provvedimenti tipici del diritto penale, ai quali è connaturata la coercibilità, perlomeno per i casi di inosservanza.

5.– Fin dagli esordi della sua giurisprudenza, questa Corte ha riconosciuto che l’art. 13 Cost. deve trovare spazio non soltanto a fronte di restrizioni mediate dall’impiego della forza fisica, ma anche a quelle che comportino l’«assoggettamento totale della persona all’altrui potere», con le quali, vale a dire, viene compromessa la «libertà morale» degli individui (sentenza n. 30 del 1962), imponendo loro «una sorta di degradazione giuridica» (sentenza n. 11 del 1956).

Tale criterio di lettura ha trovato ripetutamente applicazione, ove si è trattato di qualificare sul piano costituzionale i limiti imposti alla facoltà di libera locomozione, che non fossero accompagnati da forme di coercizione (sentenze n. 144 del 1997; n. 193 e n. 143 del 1996; n. 210 del 1995; n. 419 del 1994; n. 68 del 1964; n. 45 del 1960), e che, di conseguenza, si prestavano, in linea astratta, a convergere verso il campo di applicazione dell’art. 16 Cost.

Questa Corte ha tenuto ferma, al contrario, la necessità che simili restrizioni, ove implicanti «degradazione giuridica», fossero assistite dalle piene garanzie dell’habeas corpus offerte dallo statuto della libertà personale.

Specie a fronte di un vasto apparato di misure di prevenzione, che la legislazione dei tempi affidava alla gestione della sola autorità di pubblica sicurezza, si è infatti ritenuto che la medesima esigenza costituzionale di preservare la libertà dell’individuo, comprimibile solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge, dovesse essere avvertita non soltanto innanzi allo spiegamento di forme coercitive (il cui esercizio segna la più icastica manifestazione del monopolio statale della forza), ma anche per quei casi nei quali la legge assoggetta l’individuo a specifiche prescrizioni che si riflettono sulla facoltà di disporre di sé e del proprio corpo, compresa quella di locomozione, recando al contempo «una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona» (sentenze n. 419 del 1994 e n. 68 del 1964).

Si tratta, è appena il caso di precisarlo, di un criterio che è stato utilizzato nella giurisprudenza di questa Corte solo per allargare lo scudo protettivo dell’art. 13 Cost., e in nessun caso per ridimensionarlo: in altri termini, ove la restrizione sia ottenuta mediante coercizione fisica, essa continua ad afferire alla libertà personale, quand’anche non rechi degradazione giuridica.

Nel caso opposto, prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l’individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità.

5.1.– Naturalmente, può essere complicato, talvolta, distinguere, tra le incisioni della facoltà di locomozione, quelle che convergono, in quanto degradanti, verso la libertà personale, e quindi di competenza dell’autorità giudiziaria, e quelle che, invece, afferiscono alla libertà di circolazione.

Basti pensare, a tale proposito, che questa Corte ha ravvisato la pertinenza dell’art. 13 Cost. a fronte dell’obbligo, non coercibile, di comparire presso un ufficio di polizia durante lo svolgimento di manifestazioni sportive (sentenze n. 193 e n. 143 del 1996), ma la ha invece esclusa con riguardo al divieto di accedere agli stadi, perché l’assenza di un contatto con la pubblica autorità, in tal caso, determina una «minore incidenza sulla sfera della libertà del soggetto», ovvero non ne comporta una degradazione giuridica afferente alla dignità della persona (sentenza n. 193 del 1996).

Non vi è in questi casi, e salvo eccezioni, quel sottostante giudizio sulla personalità morale del singolo, e la incidenza sulla pari dignità sociale dello stesso, che reclamano, ove posti a base di una misura restrittiva pur non coercitiva, l’apparato di garanzie predisposto a tutela della libertà personale. Tuttavia, non è detto che questo sia sufficiente sul piano costituzionale, e che non debbano invece aggiungersi a ciò, in casi del tutto particolari, le garanzie offerte dall’art. 13 Cost., alla luce delle peculiarità con cui si è eventualmente manifestato l’intervento legislativo.

6.– Sulla base di questi principi deve ritenersi che, nel caso di specie, è palese che la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria recata dall’art. 1, comma 6, censurato non determina alcuna degradazione giuridica di chi vi sia soggetto e quindi non incide sulla libertà personale.

Si è qui, infatti, in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali. Innanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne quindi una vasta ed indeterminata platea di persone.

È dunque di immediata evidenza che l’accertamento dello stato di positività non si congiunge ad alcuno stigma morale, e non può cagionare mortificazione della pari dignità sociale, anche alla luce del fatto che si tratta di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea.

6.1.– Va infine ribadito che il paragone che il giudice rimettente instaura con le misure degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare è insostenibile.

In tali casi si è infatti in presenza di misure proprie del diritto penale, la cui applicazione è inscindibilmente connessa ad una valutazione individuale della condotta e della personalità dell’agente, da parte dell’autorità giudiziaria a ciò costituzionalmente competente.

Sono, questi, elementi che danno pienamente conto delle ragioni per le quali non è dubitabile che simili misure siano soggette alla riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost., ma che, al contempo, servono a chiarire perché non lo debba invece essere la cosiddetta quarantena obbligatoria, che non fa seguito ad alcun tratto di illiceità, anche solo supposta, nella condotta della persona, ma alla sola circostanza, del tutto neutra sul piano della personalità morale e della pari dignità sociale, di essersi ammalata a causa di un agente patogeno diffuso nell’ambiente.

Per tale ragione, sebbene il legislatore abbia costruito la figura di reato sull’inosservanza del provvedimento che sottopone la singola persona alla quarantena a seguito di positività al test del virus Covid-19, non solo non vi è alcun obbligo ai sensi dell’art. 13 Cost. che tale provvedimento sia convalidato dall’autorità giudiziaria, ma di quest’ultimo provvedimento amministrativo non vi sarebbe neppure stata la necessità costituzionale.

Il legislatore ben potrebbe, infatti, configurare come reato la condotta di chi, sapendosi malato, lasci la propria abitazione o dimora, esponendo gli altri al rischio del contagio, senza la necessità della sopravvenienza di un provvedimento dell’autorità sanitaria. Ciò infatti è accaduto durante la vigenza del d.l. n. 19 del 2020, il cui art. 4, comma 6, aveva provveduto proprio in tal senso.

Del resto, la natura del virus, la larghissima diffusione di esso, l’affidabilità degli esami diagnostici per rilevarne la presenza, sulla base di test scientifici obiettivi, fugano ogni pericolo di «arbitrarietà e di ingiusta discriminazione» (sentenza n. 68 del 1964), tale da chiamare in causa il giudice, affinché la misura dell’isolamento sia disposta, o convalidata tempestivamente; fermo restando che il malato non solo, come si è visto, può sottrarsi alla misura obbligatoria, ma non coercitiva (pur sostenendone le conseguenze penali), ma può altresì far valere le proprie ragioni, in via di urgenza, innanzi al giudice comune, perché ne sia accertato il diritto di circolare, qualora difettino i presupposti per l’isolamento.

7.– In definitiva, la questione di legittimità degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020 non è fondata, in riferimento all’art. 13 Cost., perché la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione, anziché restringere la libertà personale.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, sollevata, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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Il Ministero dell’Interno ha pubblicato tre schede in ucraino- italiano ed inglese per orientare le persone che stanno giungendo in Italia.

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il consolato ucraino ha attivato un ufficio per raccogliere le segnalazioni di tutte le persone provenienti dall’ucraina arrivate a milano, in modo anche da raccordare i servizi di accoglienza con la prefettura e il comune, e la segnalazione alle autorità preposte. se si è conoscenza di persone in arrivo o arrivate dall’ucraina è importante aiutarle e segnalare la loro presenza sul territorio italiano.

повідомлення про прибуття громадян україни на північ італії / informazioni sull’arrivo nel nord italia di cittadini ucraini

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la comunicazione deve essere corredata : nome, cognome, data di nascita, contatti mail e telefonici, richieste di eventuale soluzione alloggiativa o comunicazione di ospitalità presso strutture o familiari, vaccinazioni, malattie importanti, professione.

повідомлення має супроводжуватися: 

ім’ям, прізвищем, датою народження, електронною поштою та телефоном, проханнями щодо будь-якого рішення щодо розміщення чи повідомлення про гостинність у структурах чи членах сім’ї, щеплення, важливі хвороби, професія.

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Suicidio assistito. Le ragioni del no al referendum

Corte Costituzionale Sentenza 50/2022 

   Decisione  del 15/02/2022 Deposito del 02/03/2022;   Pubblicazione in G. U. 02/03/2022  n. 9

SENTENZA N. 50

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’art. 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti:

a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»;

b) comma secondo: integralmente;

c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano», giudizio iscritto al n. 179 del registro referendum.

Vista l’ordinanza del 15 dicembre 2021 con la quale l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta;

udito nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi gli avvocati Tommaso Romano Valerio Politi per l’Associazione PRO VITA E FAMIGLIA Onlus e per il Comitato per il No all’eutanasia legale, Alessandro Benedetti per l’Associazione Scienza & Vita e per l’Unione giuristi cattolici italiani (UGCI), Carmelo Domenico Leotta per il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, Giovanni Doria per l’Associazione Movimento per la Vita, Mario Esposito per il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, Piercarlo Peroni per il Comitato Famiglie per il no al referendum sull’omicidio del consenziente, Siro Centofanti per il Comitato per il NO all’uccisione della persona anche se consenziente, Tullio Padovani per l’Associazione La Società della Ragione APS, per l’Associazione Liberi di Decidere, per l’Associazione Mobilitazione Generale degli Avvocati (MGA), per l’Associazione Walter Piludu Ets Aps e per l’Associazione Chi si cura di te Aps, Marcello Cecchetti per l’Associazione A Buon Diritto Onlus Aps, per l’Associazione Utenti e Consumatori Aps, per l’Associazione Consulta di Bioetica Ets, per la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), per l’Associazione ArciAtea Aps e per l’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti, Alfonso Celotto e Guido Aldo Carlo Camera per l’Associazione +EUROPA, Gianni Baldini e Gian Ettore Gassani per l’Associazione avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI), Filomena Gallo e Massimo Clara per il Comitato promotore Referendum eutanasia legale (Filomena Gallo, Marco Cappato, Wilhelmine Schett e Rocco Berardo, nella qualità di promotori e presentatori, Matteo Mainardi, Mario Staderini, Carlo Troilo, Mario Riccio, Monica Coscioni, Marco Gentili, Valeria Imbrogno, Vincenzo Maraio e Massimiliano Iervolino, nella qualità di presentatori);

deliberato nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2021, depositata il 16 dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1, limitatamente alle seguenti parole “la reclusione da sei a quindici anni”; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole “Si applicano”?».

2.− L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)».

3.− Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.

4.− In data 26 gennaio 2022, i promotori della richiesta di referendum hanno depositato una memoria, nella quale, dopo un’ampia premessa sulla natura e sulle finalità del referendum abrogativo, argomentano a sostegno dell’ammissibilità dell’odierno quesito.

4.1.– L’obiettivo espresso dal quesito referendario sarebbe quello di «eliminare parzialmente dall’ordinamento il rilievo penale della condotta dell’omicidio del consenziente, tranne nei casi specifici già previsti al medesimo art. 579, terzo comma, c.p. e per i quali è già stabilita la sanzione penale di cui all’art. 575 c.p.».

La richiesta sarebbe ancorata a una «matrice razionalmente unitaria», idonea al raggiungimento dello scopo dichiarato e anche esaustiva, essendo incentrata sulla sola e unica fattispecie penale dell’omicidio del consenziente. Il quesito non presenterebbe neppure un asserito taglio manipolativo: la sua formulazione e l’esito cui si intenderebbe pervenire – l’eliminazione della fattispecie dell’omicidio del consenziente – ne confermerebbero, infatti, la natura meramente ablativa, «niente affatto innovativa o tantomeno sostitutiva di norme».

4.2.– Riguardo agli eventuali effetti dell’abrogazione referendaria, la difesa dei promotori, richiamando diversi precedenti di questa Corte, ricorda, da un lato, che eventuali criticità o profili di illegittimità costituzionale delle normativa di risulta non potrebbero condurre, per ciò solo, a una dichiarazione di inammissibilità del quesito e, dall’altro, che questa Corte, pur non potendo compiere in sede di valutazione di ammissibilità del referendum abrogativo un giudizio anticipato di legittimità costituzionale, ben potrebbe rivolgere specifiche indicazioni al legislatore, al fine di superare eventuali profili di criticità conseguenti all’abrogazione referendaria.

4.3.– I promotori precisano, inoltre, che con l’abrogazione referendaria non verrebbe affatto «totalmente depenalizzata» la condotta dell’omicidio del consenziente, perché non verrebbe eliminata la rilevanza penale per le ipotesi, sia di condotte contro persone che si trovino in un particolare stato di vulnerabilità, ossia i minori e le persone inferme di mente o affette da deficienza psichica, sia per le ipotesi di consenso non libero, estorto o carpito con l’inganno, in base a quanto previsto dall’attuale art. 579, terzo comma, cod. pen., il quale non sarebbe inciso dalla odierna richiesta di referendum.

In altri termini, il presidio penale non verrebbe eliminato, bensì perimetrato sulla base di quelle medesime esigenze che questa stessa Corte, fissando le condizioni che renderebbero lecita la condotta dei terzi cooperanti all’attuazione del proposito suicidario, avrebbe individuato con la sentenza n. 242 del 2019.

Si sottolinea, infatti, come l’odierno quesito referendario si porrebbe in linea di ideale e concreta continuità rispetto a quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 242 del 2019 per l’aiuto al suicidio e, stante la «perdurante inerzia del legislatore» in materia, mirerebbe a superare la punizione di una condotta che, seppur differente rispetto a quella dell’aiuto al suicidio, risulta certamente a essa contigua, se si considerano le analoghe, se non identiche, condizioni in cui versa la persona che richiede di porre fine alla propria vita.

Il quesito referendario mirerebbe, pertanto, anche ad eliminare la discriminazione oggi in atto verso quei malati che «non sono in condizione di ottenere una morte volontaria attraverso l’autosomministrazione del farmaco» e, in tal modo, i profili di irragionevolezza fra le fattispecie dell’aiuto al suicidio, così come risultante dall’intervento di questa Corte, e dell’omicidio del consenziente. Fattispecie che, sebbene differenziate per taluni elementi, risultano omogenee e analoghe, sia rispetto all’esito cui in entrambi i casi si perverrebbe, sia in ordine al rilievo – che questa Corte avrebbe valorizzato nella sentenza n. 242 del 2019 – della dignità soggettiva personale del paziente. Ferma restando – così si continua – la possibilità per il legislatore di intervenire al fine di introdurre una regolamentazione tesa a sistematizzare complessivamente la materia, seppur nel rispetto di quanto sancito da questa Corte in merito all’aiuto al suicidio e dell’esito della stessa consultazione referendaria.

4.4.– Ciò chiarito, la difesa dei promotori ritiene che in caso di abrogazione per via referendaria, e ancor prima dell’intervento del legislatore, assumerebbe decisiva importanza la funzione interpretativa dei giudici e non vi sarebbe nessun rischio di «allenta[re] per via referendaria» la «“cintura di protezione”» che questa Corte ha configurato nella più volte citata sentenza n. 242 del 2019.

Si sostiene, infatti, che l’analisi della giurisprudenza di merito e di legittimità, chiamata a dare applicazione alla disposizione oggetto del quesito referendario, farebbe emergere un quadro univoco, in forza del quale il consenso di cui all’art. 579 cod. pen. deve presentare alcune peculiari caratteristiche, ossia deve essere serio, esplicito, non equivoco, attuale e perdurante fino al momento della realizzazione della condotta dell’omicida. In linea, poi, con tali requisiti, sarebbero previsti una valutazione e un accertamento estremamente rigorosi in sede processuale. Verrebbe, quindi, certamente esclusa la possibilità di desumere l’esistenza del consenso da semplici ed estemporanee manifestazioni di sofferenza e, in modo del tutto conseguente, sarebbe possibile «intercettare (facendole ricadere nel perimetro della più gravemente punita fattispecie di omicidio volontario) tutte quelle situazioni in cui la formazione della volontà sia stata in qualche modo viziata e condizionata»; con ciò, in definitiva, scongiurando il rischio di una mancata tutela delle persone fragili e vulnerabili.

Proprio rispetto a tali categorie di soggetti, la difesa dei promotori ricorda che, anche «a fronte della richiesta di manipolazione dell’art. 579 c.p.», sarebbero, comunque sia, presidiati a livello penale i casi di coinvolgimento del minore, di persone che versano nelle condizioni di deficienza psichica e di infermità, di consenso estorto con violenza, minaccia, suggestione, o carpito con inganno, ossia le categorie protette dall’art. 579, terzo comma, cod. pen., non interessate dall’odierno quesito referendario. E si precisa che, anche per la seconda e la terza categoria, le quali «sollecitano interrogativi di non marginale portata», sussisterebbe «un contesto – normativo e giurisprudenziale» – idoneo ad offrire «solide sponde per assicurare una tutela piena ed effettiva» alle persone che in esse potrebbero essere ricomprese.

Sui concetti di deficienza psichica, infermità psichica e di suggestione, l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità formatasi attorno alla fattispecie incriminatrice delle condotte di circonvenzione di incapace di cui all’art. 643 cod. pen., offrirebbe, infatti, idonee garanzie al fine di «intercettare» le ipotesi in cui la capacità della persona di esprimere un valido consenso sia stata in qualsiasi forma condizionata ab exeterno (si citano Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 9 novembre 2016-8 febbraio 2017, n. 5791 e 26 maggio-9 settembre 2015, n. 36424).

Inoltre, proprio la giurisprudenza di legittimità che si è formata sull’art. 579 cod. pen. (si cita Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 19 aprile 2018-9 gennaio 2019, n. 747) indurrebbe ad escludere che l’abrogazione parziale dell’omicidio del consenziente possa esplicare «effetti di depenalizzazione» per i fatti commessi contro persone che non abbiano piena coscienza della propria richiesta. Si mette in evidenza, infatti, che, a viziare il consenso, sarebbe sufficiente anche una non totale diminuzione della capacità psichica che renda, sia pure momentaneamente, il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo atto. La giurisprudenza di legittimità, infatti, intenderebbe «l’infermità psichica e la deficienza psichica» quale una minorata capacità psichica, anche con compromissione del potere di critica e minorazione della sfera volitiva ed intellettiva, che agevoli la suggestione della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie. Da ciò, si conclude che «tutti quei casi spesso citati per destare perplessità sulla tenuta del quesito referendario, come la delusione amorosa, la crisi finanziaria dell’imprenditore», sarebbero considerati, in sede processuale, quali circostanze che determinerebbero la contestazione «del comma 3», e quindi indurrebbe ad escludere che il consenso eventualmente prestato possa considerarsi valido, così determinando l’applicazione del reato di omicidio doloso. E, allorché dovessero scaturire delle difficoltà applicative dalla disciplina risultante dall’abrogazione referendaria, difficoltà che i giudici non sarebbero in grado di dirimere con gli ordinari strumenti interpretativi e in specie ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata, rimarrebbe pur sempre la possibilità di sollevare «questione di costituzionalità».

4.5.– Da ultimo, la difesa del comitato promotore prende posizione sulla asserita natura costituzionalmente obbligata, vincolata o necessaria della tutela penale del bene della vita, con particolare riguardo alle persone che versano in condizioni di vulnerabilità o fragilità, secondo una visione che si è sviluppata «nel dibattito che ha recentemente interessato la tematica del fine vita». Si sostiene, infatti, che secondo la tesi contestata, alcune posizioni soggettive reclamerebbero, sempre e incondizionatamente, ossia a prescindere dalla specificità del caso concreto e dalla capacità della persona di esprimere un valido consenso, una protezione di tipo penale, data la «rilevanza sistematica del bene vita». In altri termini, questa tesi sembrerebbe fondarsi sull’idea che l’unico strumento normativo idoneo a proteggere le persone fragili e vulnerabili sia quello penale.

Tuttavia, «un simile ragionamento» – così si continua – si scontrerebbe, sia con la giurisprudenza costituzionale (si citano le sentenze n. 447 del 1998, n. 411 del 1995, n. 49 del 1985 e n. 226 del 1983), sia con «la più autorevole dottrina (costituzionalistica e penalistica)» la quale, invece, avrebbe negato la possibilità di ricavare dal testo costituzionale «degli obblighi positivi di incriminazione». Si ricorda, inoltre, come questa Corte, nella sentenza n. 447 del 1998, abbia affermato che le «esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, […]; ché anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio». Posizione analoga sarebbe stata assunta anche dal Tribunale costituzionale tedesco, in due distinte occasioni in cui è stato chiamato a pronunciarsi in materia di aborto. Il giudice costituzionale tedesco, infatti, seppur «in una prima decisione, del 1975,» avrebbe riscontrato l’incostituzionalità delle disposizioni impugnate, in quanto non tutelavano il diritto alla vita del feto attraverso «il ricorso allo strumento penale», in una «seconda pronuncia, invece, che risale al 1993» avrebbe «imposto al legislatore di considerare l’aborto “illegittimo, ma non penalmente punibile”».

In tale prospettiva, quindi, le riflessioni portate avanti, sia in Italia, sia in Germania, darebbero conferma dell’idea che la norma penale non possa essere strumentalmente piegata alla positiva realizzazione dei diritti fondamentali.

Conclusione, questa, che, secondo i promotori, troverebbe conferma anche nella sentenza n. 242 del 2019 (recte: ordinanza n. 207 del 2018), nella parte in cui questa Corte ha affermato che al «legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite». Si ritiene, infatti, che un conto sarebbe riconoscere uno spazio in cui possa dispiegarsi la discrezionalità del Parlamento, altro sarebbe ipotizzare che, in quello stesso spazio, su quest’ultimo gravi un obbligo di penalizzazione direttamente discendente dalla Costituzione.

In definitiva, alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, sarebbe da escludere la natura costituzionalmente imposta, necessaria o obbligatoria del presidio penale.

5.– In data 27 gennaio 2022, hanno depositato memoria le associazioni La società della ragione Aps, Liberi di decidere, Mobilitazione generale degli avvocati (MGA), Walter Piludu Ets Aps e Chi si cura di te Aps, chiedendo che la richiesta di referendum sia dichiarata ammissibile.

6.– In pari data, hanno presentato memoria A buon diritto Onlus Aps, Associazione utenti e consumatori Aps, Consulta di bioetica – Ets, Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) – Ufficio nuovi diritti, ArciAtea – rete per la laicità Aps e VOX – Osservatorio italiano sui diritti, deducendo anch’esse l’ammissibilità della richiesta referendaria.

7.– In data 2 febbraio 2022, hanno depositato memorie l’associazione +EUROPA, chiedendo che il quesito referendario sia dichiarato ammissibile, e l’associazione Pro Vita & Famiglia Onlus, deducendo, invece, l’inammissibilità del ricorso.

8.– In prossimità della camera di consiglio, hanno depositato memorie, chiedendo che il referendum sia dichiarato inammissibile, il Comitato per il no all’uccisione della persona anche se consenziente, il Comitato per il no all’omicidio del consenziente, il Comitato Famiglie per il ‘no’ al referendum sull’omicidio del consenziente, l’Associazione movimento per la vita, l’associazione Scienza & Vita, il Comitato per il No all’eutanasia legale e l’Unione giuristi cattolici italiani.

Ha depositato, altresì, memoria l’associazione Avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia (AMI).

Considerato in diritto

1.– La richiesta di referendum abrogativo, dichiarata conforme alle disposizioni di legge dall’Ufficio centrale per il referendum con ordinanza del 15 dicembre 2021 e denominata «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)», investe l’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, limitatamente alle seguenti parti:

a) comma primo, limitatamente alle parole: «la reclusione da sei a quindici anni.»;

b) comma secondo: integralmente;

c) comma terzo, limitatamente alle parole «Si applicano».

2.− In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte, come già avvenuto più volte in passato, non solo ha consentito l’illustrazione orale delle memorie depositate dai soggetti presentatori del referendum ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), ma – prima ancora – ha altresì ammesso gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata, e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie, come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (da ultimo: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012).

Tale ammissione non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque sia, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrino le rispettive posizioni.

3.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di «verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenza n. 17 del 2016).

Ai fini di tale valutazione, è necessario innanzitutto individuare la portata del quesito.

Come questa Corte ha chiarito, «la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l’obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento […] (ex plurimis, sentenze n. 16 e n. 15 del 2008, n. 37 del 2000, n. 17 del 1997)» (sentenza n. 24 del 2011; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 28 del 2017).

Al riguardo, va altresì ribadito che il giudizio di ammissibilità che questa Corte è chiamata a svolgere si atteggia, per costante giurisprudenza, «con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge» (sentenze n. 26 del 2011, n. 45 del 2005, n. 16 del 1978 e n. 251 del 1975). Non sono pertanto in discussione, in questa sede, profili di illegittimità costituzionale, sia della legge oggetto di referendum, sia della normativa risultante dall’eventuale abrogazione referendaria (sentenze n. 27 del 2017, n. 48, n. 47 e n. 46 del 2005). Quel che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una «valutazione liminare ed inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se […] il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale» (sentenze n. 24 del 2011, n. 16 e n. 15 del 2008 e n. 45 del 2005).

3.1.– Nella specie, il quesito referendario verte sull’art. 579 cod. pen., che configura il delitto di omicidio del consenziente. Si tratta di norma incriminatrice strettamente finitima, nell’ispirazione, a quella del successivo art. 580 cod. pen., che incrimina l’aiuto (oltre che l’istigazione) al suicidio. Le due disposizioni riflettono, nel loro insieme, l’intento del legislatore del codice penale del 1930 di tutelare la vita umana anche nei casi in cui il titolare del diritto intenderebbe rinunciarvi, sia manu alius, sia manu propria, ma con l’ausilio di altri. Esclusa una reazione sanzionatoria nei confronti dello stesso autore dell’atto abdicativo, anche nei casi in cui essa sarebbe materialmente possibile (per essere il fatto rimasto allo stadio del tentativo), il legislatore erige una “cintura di protezione” indiretta rispetto all’attuazione di decisioni in suo danno, inibendo, comunque sia, ai terzi di cooperarvi, sotto minaccia di sanzione penale.

In quest’ottica, l’art. 579 cod. pen. punisce segnatamente, al primo comma, con la reclusione da sei a quindici anni «[c]hiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui». In tal modo, la norma esclude implicitamente, ma univocamente, che rispetto al delitto di omicidio possa operare la scriminante del consenso dell’offeso, la quale presuppone la disponibilità del diritto leso (art. 50 cod. pen.), accreditando, con ciò, il bene della vita umana del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare.

L’omicidio del consenziente è configurato, pur tuttavia, come fattispecie autonoma di reato, punita con pena più mite di quella prevista in via generale per il delitto di omicidio (art. 575 cod. pen.), in ragione del ritenuto minor disvalore del fatto.

Nella medesima prospettiva di mitigazione del trattamento sanzionatorio, il secondo comma dell’art. 579 cod. pen. rende, altresì, inapplicabili all’omicidio del consenziente le circostanze aggravanti comuni indicate nell’art. 61 cod. pen.

Il successivo terzo comma dell’art. 579 cod. pen. sottrae, peraltro, al perimetro applicativo della fattispecie meno severamente punita, riportandole nell’alveo della fattispecie comune, le ipotesi nelle quali il consenso sia prestato da un soggetto incapace o risulti affetto da un vizio che lo rende invalido. La disposizione stabilisce, in particolare, che «[s]i applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».

3.2.– Il quesito referendario in esame è costruito con la cosiddetta tecnica del ritaglio, ossia chiedendo l’abrogazione di frammenti lessicali della disposizione attinta, in modo da provocare la saldatura dei brani linguistici che permangono. Agli elettori viene, infatti, chiesto se vogliano una abrogazione parziale della norma incriminatrice che investa il primo comma dell’art. 579 cod. pen., limitatamente alle parole «la reclusione da sei a quindici anni»; l’intero secondo comma; il terzo comma, limitatamente alle parole «Si applicano».

Per effetto del ritaglio e della conseguente saldatura tra l’incipit del primo comma e la parte residua del terzo comma, la disposizione risultante dall’abrogazione stabilirebbe quanto segue: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».

Il risultato oggettivo del successo dell’iniziativa referendaria sarebbe, dunque, quello di rendere penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione. Eliminando la fattispecie meno severamente punita di omicidio consentito e limitando l’applicabilità delle disposizioni sull’omicidio comune alle sole ipotesi di invalidità del consenso dianzi indicate, il testo risultante dall’approvazione del referendum escluderebbe implicitamente, ma univocamente, a contrario sensu, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente in tutte le altre ipotesi: sicché la norma verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo.

L’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili.

Alla luce della normativa di risulta, la “liberalizzazione” del fatto prescinderebbe dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, le quali non dovrebbero risultare necessariamente legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche, potendo connettersi anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui. Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere). Né può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione.

3.3.– Al riguardo, non può essere, infatti, condivisa la tesi sostenuta dai promotori nel presente giudizio, e ripresa anche nelle difese di alcuni degli intervenuti, stando alla quale la normativa di risulta andrebbe reinterpretata alla luce del quadro ordinamentale nel quale si inserisce: porterebbe a ritenere che, ai fini della non punibilità dell’omicidio del consenziente, il consenso dovrebbe essere espresso nelle forme previste dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e in presenza delle condizioni alle quali questa Corte, con la citata sentenza n. 242 del 2019, ha subordinato l’esclusione della punibilità per il finitimo reato di aiuto al suicidio, di cui all’art. 580 cod. pen., non attinto dal quesito referendario (di modo che il consenziente dovrebbe identificarsi in una persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche per lei assolutamente intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli).

A fronte della limitazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente alle sole ipotesi espressamente indicate dall’attuale terzo comma dell’art. 579 cod. pen., nulla autorizzerebbe a ritenere che l’esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della “procedura medicalizzata” prefigurata dalla legge n. 219 del 2017 per l’espressione (o la revoca) del consenso a un trattamento terapeutico (o del rifiuto di esso).

Del resto, anche l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, dopo aver proposto, con ordinanza non definitiva del 30 novembre 2021, una denominazione del quesito referendario nella quale non compariva la parola «eutanasia» – in specie, quella di «Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice di penale (omicidio del consenziente)» –, non ha poi accolto, con l’ordinanza conclusiva del 15 dicembre 2021, la richiesta dei promotori di aggiungere a tale denominazione la frase «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole, informato». Ha rilevato, infatti, l’Ufficio centrale che l’integrazione proposta prospettava un bilanciamento tra i due diritti che vengono in gioco (diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione) che non trova fondamento nella sentenza n. 242 del 2019 e non «è rispettoso dei limiti di un quesito di natura abrogativa, spingendosi piuttosto sul terreno di scelte eventualmente spettanti agli organi istituzionalmente competenti all’adozione di una disciplina organica della materia».

4.– A quest’ultimo proposito, non è neppure significativo, agli odierni fini, che l’iniziativa referendaria – nata quale reazione all’inerzia del legislatore nel disciplinare la materia delle scelte di fine vita, anche dopo i ripetuti moniti provenienti da questa Corte (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018) – sia destinata, nell’idea dei promotori, a fungere da volano per il varo di una legge che riempia i vuoti lasciati dal referendum.

Come precisato, infatti, da questa Corte, sono irrilevanti in sede di giudizio di ammissibilità del referendum «i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa, quale è quella prevista dall’art. 75 della Costituzione, è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina. Ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare, tra l’altro, se essa abbia per avventura un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione» (sentenza n. 17 del 1997).

5.– Proprio questa, in effetti, è l’ipotesi che ricorre nel caso in esame, venendo il quesito referendario ad incidere su normativa costituzionalmente necessaria.

5.1.– A partire dalla sentenza n. 16 del 1978, questa Corte ha costantemente affermato l’esistenza di «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.». Una delle categorie allora individuate consisteva nei «referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)».

All’interno di questa categoria di norme legislative che non possono essere oggetto di richieste referendarie, la sentenza n. 27 del 1987 ha chiarito che debbono essere enucleate «due distinte ipotesi: innanzitutto le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”».

Successivamente, la sentenza n. 35 del 1997 ha riferito quest’ultima ipotesi anche a quelle «leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione», e la sentenza n. 49 del 2000 ha puntualizzato che le leggi «costituzionalmente necessarie», poiché sono «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento».

Con la sentenza n. 45 del 2005, infine, si è ulteriormente precisato, per un verso, che la natura di legge costituzionalmente necessaria può anche essere determinata dal fatto che una certa disciplina «coinvolg[a] una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa», e per l’altro, che «il vincolo costituzionale può anche riferirsi solo a parti della normativa oggetto del quesito referendario o anche al fatto che una disciplina legislativa comunque sussista».

5.2.– Nel caso oggi in esame viene in considerazione un valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona.

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire in più occasioni, il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., è «da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”» (sentenza n. 35 del 1997). Esso «concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona» (sentenza n. 238 del 1996).

Posizione, questa, confermata da ultimo, proprio per la tematica delle scelte di fine vita, nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, ove si è ribadito che il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, è il «“primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri», ponendo altresì in evidenza come da esso discenda «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».

5.3.– Rispetto al reato di omicidio del consenziente, può, d’altro canto, ripetersi quanto già osservato da questa Corte in rapporto alla figura finitima dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018). Se è ben vero, cioè, che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice di cui all’art. 579 cod. pen., intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini, non è però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma «alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi».

Vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente assolve, in effetti, come quella dell’aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018), allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.

A questo riguardo, non può non essere ribadito il «cardinale rilievo del valore della vita», il quale, se non può tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure consente una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite» (ordinanza n. 207 del 2018). Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima.

Discipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale.

La norma incriminatrice vigente annette a quest’ultima una incidenza limitata, che si risolve nella mitigazione della risposta sanzionatoria, in capo all’autore del fatto di omicidio, in ragione del consenso prestato dalla vittima. Non si tratta di una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, non essendo quella ora indicata l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana. Discipline come quella considerata possono essere modificate o sostituite dallo stesso legislatore con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano.

Già in occasione di uno dei referendum sull’interruzione della gravidanza, questa Corte ha del resto dichiarato inammissibile la richiesta referendaria, richiamando la necessità di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, con specifico riferimento al diritto alla vita (sentenza n. 35 del 1997).

5.4.– Non gioverebbe opporre – come fanno i promotori e alcuni degli intervenienti – che l’abrogazione dell’art. 579 cod. pen. richiesta dal quesito referendario, non essendo totale, ma solo parziale, garantirebbe i soggetti vulnerabili, in quanto resterebbero ancora puniti gli omicidi perpetrati in danno dei soggetti indicati dall’attuale terzo comma: e ciò tanto più alla luce del rigore con il quale la giurisprudenza ha mostrato sinora di valutare la ricorrenza dei presupposti di operatività della fattispecie meno gravemente punita dell’omicidio del consenziente.

Le ipotesi alle quali rimarrebbe circoscritta la punibilità attengono, infatti, a casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza alle quali hanno fatto riferimento le richiamate pronunce di questa Corte non si esauriscono, in ogni caso, nella sola minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici); senza considerare che l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili.

In tutte queste ipotesi, l’approvazione della proposta referendaria – che, come rilevato, renderebbe indiscriminatamente lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito senza incorrere nei vizi indicati, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata – comporterebbe il venir meno di ogni tutela.

6.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve quindi concludersi per la natura costituzionalmente necessaria della normativa oggetto del quesito, che, per tale motivo, è sottratta all’abrogazione referendaria, con conseguente inammissibilità del quesito stesso.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, nelle parti indicate in epigrafe, dell’art. 579 del codice penale (Omicidio del consenziente), dichiarata legittima dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, con ordinanza del 15 dicembre 2021.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 febbraio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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Tar Lazio. La regione non può imporre la vaccinazione antinfluenzale nelle aziende sanitari ed Rsa

Tar Lazio sezione terza 31/01/2022 n. 1117

MASSIMA

Al di là della ragionevolezza della misura (peraltro comunque auspicata dal CTS nei verbali agli atti del giudizio depositati), la sua introduzione non rientra nella sfera di attribuzioni regionale ma, semmai, soltanto in quella statale. Sede quest’ultima cui va dunque ascritta ogni competenza e responsabilità – anche di matrice politica – in merito alla decisione di introdurre o meno obblighi di questo genere.

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6122 del 2020, proposto da omissis

contro

Regione Lazio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Allocca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Marcantonio Colonna 27;

Ministero della Salute, non costituito in giudizio;

per l’annullamento

previa adozione di provvedimento cautelare

dell’ordinanza del Presidente della Regione Lazio del 17 aprile 2020 n. z00030 avente ad oggetto “ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da covid-2019. ordinanza ai sensi dell’art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978 n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica. disposizioni in merito alla campagna di vaccinazione antinfluenzale e al programma di vaccinazione antipneumococcica per la stagione 2020 -2021” pubblicata sul bollettino ufficiale della regione lazio n. 46 del 17 aprile 2020.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Regione Lazio;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2022 la dott.ssa Francesca Ferrazzoli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso notificato in data 20 luglio 2020, i ricorrenti indicati in epigrafe hanno impugnato l’ordinanza del Presidente della Regione Lazio del 17 aprile 2020 n. Z00030 è stato imposto l’obbligo della vaccinazione antinfluenzale stagionale per tutte le persone al di sopra dei 65 anni di età (pena il divieto di frequentare luoghi di facile assembramento come centri sociali e case di riposo), nonché per tutto il personale sanitario e sociosanitario operante in ambito regionale (pena il divieto di avere accesso ai rispettivi luoghi di lavoro). Una forte raccomandazione a vaccinarsi è stata, poi, espressa per i bambini tra i sei mesi ed i sei anni.

Ratio dell’intervento regionale era quella di consentire ed agevolare le c.d. “diagnosi differenziali”, in modo da distinguere i sintomi dell’influenza stagionale (che in questo modo non dovrebbero sorgere proprio per via della predetta vaccinazione obbligatoria) da quelli da COVID 19, con conseguente alleggerimento del carico e della pressione sulle strutture regionali sanitarie.

A sostegno delle proprie ragioni, sono stati formulati i motivi di diritto sintetizzati come segue:

– incompetenza del Presidente della Regione Lazio a disporre l’obbligo vaccinale;

– incompetenza ad imporre il predetto obbligo utilizzando lo strumento dell’istituto dell’ordinanza contingibile ed urgente;

– violazione di legge in particolare del D. Lgs. 81/2008 con particolare riferimento alla impossibilità per una circolare a modificare le prescrizioni del d. lgs.81/2008;

– violazione degli articoli 3, 4 e 32, 2° comma Cost., in quanto imporrebbe un trattamento sanitario obbligatorio su presupposti indimostrati ed indimostrabili.

Si è costituita la Regione per chiedere il rigetto del gravame mediante articolate controdeduzioni.

Con Dichiarazione notificata alle altri parti del giudizio in data 22 luglio 2020 e versata in atti il successivo 30 luglio hanno rinunciato al presente giudizio i sig.ri Prosperi, Lucidi e Mandi.

Alla camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2022, la causa è stata trattenuta in decisione.

2. I ricorrenti hanno presentato istanza di prelievo ai sensi dell’art. 71 bis c.p.a. in data 7.10.2020, motivandola in considerazione di un recente precedente specifico della sezione in vicenda analoga. In riscontro alla predetta istanza è stata, quindi, calendarizzata la c.c. del 28.1.2022, nel corso della quale, nella ritenuta sussistenza dei relativi presupposti, è stato dato avviso a verbale alle parti presenti della possibile definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata ai sensi della richiamata disposizione nella parte in cui dispone che “A seguito dell’istanza di cui al comma 2 dell’articolo 71, il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata.”.

3. Preliminarmente deve essere dichiarata l’estinzione del giudizio nei confronti dei predetti Omissis

Ritiene il Collegio che l’atto di rinuncia versato in atti, integri i requisiti formali definiti dal codice per la rinuncia agli atti di causa.

3.1. L’art. 84, co. 1, c.p.a. stabilisce infatti, che “La parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa” oltre che dall’avvocato munito all’uopo di mandato speciale “e depositata presso la segreteria” ovvero “mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo verbale”.

3.2. Orbene, la dichiarazione all’esame del Collegio di rinuncia al ricorso in epigrafe, risponde alle ricordate caratteristiche prescritte dall’art. 84 cit., essendo stata sottoscritta dalla parte e depositata in segreteria, dovendo tutti gli atti delle parti (oltre che quelli del Giudice) essere prodotti al fascicolo digitale della causa conformemente alle relative norme regolamentari.

3.3. Altro onere di cui l’art. 84 co. 2 c.p.a grava la parte rinunciante, è la notifica della dichiarazione alle altre parti “almeno dieci giorni prima dell’udienza”, incombente debitamente assolto dalla difesa ricorrente, che vi ha proceduto in data 22 luglio 2020, depositando l’atto abdicativo all’esame il successivo 30 luglio, a fonte dell’odierna Camera di consiglio del 24 gennaio 2022.

Da quanto osservato consegue che il Collegio deve prendere atto della predetta rinuncia qualificandola quale rinuncia optimo iure, tipizzata all’art. 84, commi 1 e 2, c.p.a. e per l’effetto pronunciare, ai sensi dell’art. 35, co. 2, lett. c), c.p.a., l’estinzione del giudizio nei confronti dei sig.ri Tiziana Prosperi, Alessandro Lucidi e Gloria Mandi.

4. Si procede con lo scrutinio del merito del ricorso, che è fondato e deve essere accolto.

Su identica questione si è già pronunciata questa sezione con la sentenza n. 10047 del 2 ottobre 2020 – divenuta definitiva – che ha così statuito:

“Tutto ciò premesso va innanzitutto affrontato il tema della competenza regionale in merito alla possibilità o meno di adottare simili ordinanze contingibili ed urgenti.

8. Al riguardo va preliminarmente osservato che:

8.1. La sentenza del TAR Calabria n. 1462 del 15 settembre 2020 è netta nell’affermare che una simile competenza sia statale. La giurisprudenza costituzionale (prima tra tutte la sentenza n. 5 del 2018) sarebbe infatti orientata ad affermare che la vaccinazione obbligatoria, in quanto trattamento sanitario da imporre ai singoli cittadini, rientri nella sfera di attribuzione del potere centrale. In quel caso è stata annullata una ordinanza regionale del tutto speculare a quella della Regione Lazio;

8.2. Anche il TAR Palermo, seppure con riferimento alla questione migranti, ha affermato con sentenza n. 1952 del 25 settembre 2020 che la legislazione emergenziale COVID autorizza, sì, le regioni ad introdurre misure più restrittive rispetto a quelle stabilite dallo Stato, ma soltanto nei più specifici limiti stabiliti dal legislatore statale stesso.

9. Il collegio ritiene di condividere i due precedenti testé richiamati per le seguenti particolari ragioni:

9.1. Sul piano della normativa speciale non sembrerebbe innanzitutto riscontrabile, una simile competenza regionale, sulla base di quanto previsto dalla legislazione emergenziale COVID. Basti pensare che l’art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 19 del 2020 e l’art. 1, comma 16, del decreto-legge n. 33 del 2020, autorizzano sì le regioni ad introdurre misure più restrittive (ed anche più ampliative) rispetto a quelle statali ma soltanto nel circoscritto ambito di settori ed aree tematiche (comunque rientranti nella competenza costituzionalmente loro accordata) di cui all’art. 1, comma 2, dello stesso decreto-legge n. 19 del 2020 (es. limitazione circolazione persone, chiusura strade, interventi su eventi e manifestazioni culturali, sportive e religiose, trasporti, servizi scolastici e presenza negli uffici pubblici, regolazione di attività commerciali, imprenditoriali e professionali). Aree e materie tra cui, come risulta piuttosto evidente, senza dubbio non è altresì annoverabile la tematica delle vaccinazioni obbligatorie di cui in questa sede si discute;

9.2. Sul piano della normativa più generale, poi, è ben vero che l’art. 32 della legge n. 833 del 1978 prevede al terzo comma che il presidente della giunta regionale possa adottare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di sanità pubblica, ma è altrettanto vero che tale disposizione debba ormai essere letta in uno con le disposizioni di cui all’art. 117 del decreto legislativo n. 112 del 1998 e di cui all’art. 50 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (come modificato sul punto dal decreto-legge n. 14 del 2017), disposizioni queste rispettivamente entrate in vigore all’indomani del decentramento amministrativo e della riforma del Titolo V della Costituzione. Esse prevedono in particolare che simili poteri di ordinanza (statale oppure regionale) possano essere esercitati “in ragione della dimensione dell’emergenza”.

Va da sé che, ove la suddetta dimensione abbia valenza infraregionale (e comunque sovracomunale), il presidente della regione interessata risulterà ben legittimato ad intervenire. Laddove invece la dimensione assuma quanto meno portata ultraregionale se non addirittura nazionale (come del resto nel caso di specie) la competenza ad adottare simili provvedimenti di urgenza non potrà che essere riservata al centro di imputazione ministeriale. Detto altrimenti, si darebbe luogo ad una inversione del meccanismo della c.d. “attrazione in sussidiarietà” che il nostro ordinamento, tuttavia, non ammette nei termini sopra descritti (la regione eserciterebbe infatti una competenza statale per risolvere problemi regionali, laddove di solito è lo stato centrale ad “attrarre” competenze regionali per affrontare questioni di livello nazionale);

Ancora sul piano della normativa generale, la Regione Lazio invoca la applicazione a suo favore del decreto legislativo n. 1 del 2018 (Codice della Protezione Civile) senza tuttavia considerare che, in base al combinato disposto di cui agli artt. 5 e 25 del predetto codice, la competenza ad adottare ordinanze in tale materia è da ascrivere in capo al Presidente del Consiglio dei ministri (il quale può agire in tal senso anche per il tramite del Capo Dipartimento della Protezione Civile), mentre alle regioni è riservato soltanto il potere di rilasciare l’intesa sulle ordinanze stesse. Risulta pertanto evidente come nel caso di specie la Regione Lazio si sia del tutto discostata dal descritto modello legale, e ciò dal momento che il Presidente della Regione Lazio ha unilateralmente e direttamente esercitato una simile iniziativa senza attendere che fosse il Presidente del Consiglio dei ministri a muoversi primariamente nella indicata direzione;

9.4. La questione di competenza va altresì affrontata sul piano più latamente costituzionale. E ciò dal momento che la suddetta ordinanza è stata adottata in deroga rispetto al quadro normativo primario di riferimento. Di qui l’esigenza di ricorrere, onde correttamente inquadrare la competenza dei rispettivi organi, agli ordinari criteri di riparto dettati dalla Costituzione (come cristallizzati dagli insegnamenti della Corte costituzionale). Ebbene si osserva al riguardo che:

10.4.1. Secondo la citata sentenza n. 5 del 2018 della Consulta:

a) la vaccinazione obbligatoria è tematica riservata alla competenza statale. Il confine tra terapie ammesse e non ammesse, o meglio tra trattamenti obbligatori e non obbligatori (oppure raccomandati, come nel caso dei vaccini), rientra tra i principi fondamentali della materia “tutela della salute” e deve dunque essere stabilito dallo Stato;

b) ciò anche allo scopo di garantire “misure omogenee su tutto il territorio nazionale” (cfr. punto 7.2.2. della predetta sentenza);

c) la scelta tra obbligo o raccomandazione ai fini della somministrazione del vaccino costituisce in particolare il punto di equilibrio, in termini di bilanciamento tra valori parimenti tutelati dalla Costituzione (nonché sulla base dei dati e delle conoscenze scientifiche disponibili), tra autodeterminazione del singolo da un lato (rispetto della propria integrità psico-fisica) e tutela della salute (individuale e collettiva) dall’altro lato. Tali operazioni di bilanciamento vanno pertanto riservate allo Stato (cfr. altresì, su temi analoghi: Corte cost. n. 169 del 12 luglio 2017; n. 338 del 14 novembre 2003; n. 282 del 26 giugno 2002; n. 258 del 23 giugno 1994);

d) sempre in tema di vaccinazioni obbligatorie sono poi riservati, in capo alle regioni, alcuni spazi riguardanti, ad esempio, l’organizzazione dei servizi sanitari e l’identificazione degli organi deputati al controllo ed alle conseguenti sanzioni (punto 7.2.4. della sentenza);

9.4.2. Ora, non è disconosciuta dalla stessa Corte costituzionale la possibilità che le Regioni possano legiferare (oppure intervenire con effetti sulla normazione primaria, come nel caso di specie) in settori riservati al legislatore statale. Ciò, in ogni caso, a condizione che vengano rispettati i “principi” fissati dalla legge statale, laddove per “principio” deve talora intendersi proprio quel “punto di equilibrio” raggiunto tra “esigenze plurime” ovverossia tra diversi se non opposti interessi di matrice costituzionale (cfr. Corte cost. n. 268 del 14 dicembre 2017). Punto di equilibrio la cui eventuale modificazione ad opera di un intervento regionale, sebbene da qualificarsi come “aggiuntivo” o “rafforzativo” rispetto alla misura/soglia fissata dal legislatore statale, comunque si tradurrebbe in una “alterazione, quindi in una violazione, dell’equilibrio tracciato dalla legge statale di principio” (cfr. Corte cost., sentenze n. 307 del 7 ottobre 2003, n. 331 del 7 novembre 2003 e n. 166 dell’11 giugno 2004). Ebbene, anche nel caso di specie la “soglia” stabilita dal legislatore statale tra obbligo e raccomandazione del vaccino antinfluenzale, poiché costituisce il frutto di una operazione di bilanciamento complessa ed articolata tra libertà del singolo e tutela della salute individuale e collettiva (operazione condotta anche sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili a quel momento), non potrebbe essere derogata dalle regioni neppure in melius ossia in senso più restrittivo (elevando, in altre parole, il livello di obbligatorietà per talune fasce di età e per alcune categorie professionali “a rischio”);

9.4.3. Certamente va considerato, altresì, che l’intervento regionale in discussione è dettato da esigenze organizzative in materia di sanità (obiettivo dichiarato: quello di alleggerire carico e pressione sulle strutture ospedaliere durante il periodo autunnale ed invernale mediante ricorso a diagnosi differenziali). Esistono tuttavia anche altre strade per evitare il decongestionamento delle strutture sanitarie, strade tutte che ben potrebbero rientrare nell’alveo delle competenze regionali costituzionalmente accordate (es. potenziamento attività di tracciamento, c.d. tracing, intensificazione dei tamponi, concreto sviluppo della medicina di prossimità). Appare piuttosto evidente che, con riferimento a queste ultime misure, si tratterebbe di interventi che probabilmente comporterebbero un maggiore impiego di risorse organizzative e finanziarie, ma un logica di risparmio pubblico non potrebbe giammai giustificare, ad ogni buon conto, un simile spostamento della competenza normativa dall’alto verso il basso;

9.4.4. A ciò si aggiunga che, inibendo tra l’altro l’accesso al lavoro al personale medico che non si sottopone alla suddetta vaccinazione antinfluenzale, si violerebbe altresì la competenza statale a dettare principi fondamentali in materia di tutela e sicurezza nei luoghi di lavoro;

10. Riepilogando brevemente sullo specifico tema:

10.1. La normativa emergenziale COVID non ammette simili interventi regionali in materia di vaccinazioni obbligatorie;

10.2. Le disposizioni in materia di igiene e sanità nonché di protezione civile non recano previsioni che possano autorizzare le regioni ad adottare questo tipo di ordinanze allorché il fenomeno assuma, come nella specie, un rilievo di carattere nazionale;

10.3. L’ordinamento costituzionale non tollera interventi regionali di questo genere, diretti nella sostanza ad alterare taluni difficili equilibri raggiunti dagli organi del potere centrale.

11. In conclusione si deve affermare che, al di là della ragionevolezza della misura (peraltro comunque auspicata dal CTS nei verbali agli atti del giudizio depositati), la sua introduzione non rientra nella sfera di attribuzioni regionale ma, semmai, soltanto in quella statale. Sede quest’ultima cui va dunque ascritta ogni competenza e responsabilità – anche di matrice politica – in merito alla decisione di introdurre o meno obblighi di questo genere.

12. L’accoglimento del predetto vizio di incompetenza esaurisce peraltro l’oggetto stesso del presente giudizio e rende obbligatorio l’assorbimento delle ulteriori censure sostanziali, versandosi in situazione ove il potere amministrativo non è stato ancora esercitato (art. 34, comma 2, c.p.a.). Si vedano sul punto le conclusioni tratte da: Cons. Stato, sez. IV, 1° marzo 2017, n. 941.

13. Alla luce di quanto sopra riportato ed affermato il ricorso deve dunque essere accolto, nei sensi e nei limiti di cui sopra, con conseguente annullamento della ordinanza regionale in epigrafe indicata”.

5. Ritiene il Collegio di non doversi discostare dal precedente pronunciamento relativo alla medesima Ordinanza del Presidente della Regione Lazio del 17 aprile 2020 n. Z00030 oggi gravata.

Pertanto il ricorso deve essere accolto nei sensi e nei limiti di cui sopra, e, per l’effetto, l’ordinanza regionale in epigrafe indicata deve essere annullata.

6. La complessità della fattispecie comporta la compensazione integrale tra le parti costituite delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

– dichiara, ex art. 35, co. 2, lett. c), c.p.a., l’estinzione del giudizio per rinuncia nei confronti dei sig.ri Omissis;

– accoglie il ricorso nei confronti di tutti gli altri ricorrenti indicati in epigrafe e per l’effetto annulla l’ordinanza pure in epigrafe indicata.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Maria Cristina Quiligotti, Presidente

Roberto Vitanza, Consigliere

Francesca Ferrazzoli, Referendario, Estensore                  

L’ESTENSORE                     IL PRESIDENTE

Francesca Ferrazzoli                       Maria Cristina Quiligotti

IL SEGRETARIO

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Ministero Salute. Sanitario guarito da Covid19. Nessuna revoca della sospensione se non completato il ciclo vaccinale.

Il Ministero della Salute, con nota del 17/02/2022 in allegato, ha chiarito che l’avvenuta guarigione da Covid19 non permette la revoca della sospensione se il sanitario non ha completato il ciclo vaccinale.

Il Ministero chiarisce che l’unico modo per ottenere la revoca della sospensione è produrre la documentazione di avvenuta vaccinazione.

Suicidio farmacologico assistito o terapia palliativa terminale?

 Il   Comitato Tecnico del farmaco dell’azienda sanitaria delle Marche, con relazione del 4 febbraio, ha  affermato che il farmaco “Tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi”, proposto dal cittadino,  è “idoneo a garantire la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile rispetto all'alternativa del rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa e ad ogni altra soluzione in concreto praticabile virgola compresa la somministrazione di un farmaco”.

Esiste il diritto alla morte che libera dal dolore ed esiste il diritto a che lo Stato liberi dal dolore?

Quando la persona può decidere di uscire dalla propria vita contando sul supporto di un medico che lo liberi dal dolore della morte?

È il tema che in questi giorni divide l’Italia e che ha visto l’associazione Luca Coscioni in prima linea in una lunga battaglia giudiziaria a sostegno di un paziente tetraplegico che aveva l’espresso la volontà di interrompere le cure e di giungere ad una morte rapida attraverso un’accelerazione farmacologica.

Si tratta di suicidio oppure di sedazione terminale  profonda con un farmaco solo più efficace?

Se le questioni di principio possono essere distanti quando il confronto si fa con il dolore di una vita lucida non vissuta e dolorosa il crinale si fa molto più stretto e scivoloso.

I FATTI

Mario, nome di fantasia,  ha  43 anni e da dieci anni vive immobile e paralizzato a causa di  un incidente stradale che gli ha procurato una frattura della colonna vertebrale.  

E’  mantenuto in vita grazie a macchinari e trattamenti di sostegno vitale.  

Soffre di un’ assoluta compromissione di tutte le funzioni corporali di base al punto da richiedere sostegno manuale anche per gli elementari bisogni di evacuazione.

Sostegni che se non messi in atto porterebbero comunque alla morte ma passando per atroci dolori.

Vuole esercitare il suo diritto ad interrompere le cure ma chiede di morire rapidamente con una terapia “efficace e non dolorosa”.

La sedazione profonda classica risulterebbe insufficiente. 

IL PERCORSO DEL DIRITTO

Mario afferma il suo diritto sulla scorta della decisione della Corte Costituzionale 242/2019 emessa sulla nota vicenda che vide coinvolto Mario Cappato, noto dirigente dell’associazione, a seguito della morte di DJ Fabo. 

In quella circostanza, la Corte Costituzionale,  chiamata a pronunciarsi sulla parziale incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale (istigazione a suicidio), affermò che la  declaratoria di incostituzionalità attiene non a qualsiasi istigazione al suicidio ma  in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero, alternativamente, lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza.

L’art. 580 cod. pen. fu dichiarato  costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non escludeva la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

L’accertamento è necessario per evitare che il sanitario che lo sostiene in questo progetto possa essere accusato deontologicamente e penalmente.

Dopo avere chiesto all’Asl di Ancona di essere liberato dalla vita diventata una tortura intollerabile ed avendone ottenuto un rifiuto, si rivolse in via d’urgenza al Tribunale di Ancona affinché fosse accertato il suo diritto alla somministrazione del farmaco “Tiopendone sodico” nella quantità di 20 grammi un barbiturico utilizzato come agente anestetico per procedure chirurgiche.

Il  Tribunale di Ancona, con ordinanza del 26/03/2021, respinse la richiesta per quanto riguardava l’aiuto della struttura sanitaria alla prescrizione e somministrazione del farmaco ma accolse la richiesta di valutazione delle condizioni cliniche e del percorso terapeutico suggerito dal cittadino.

La Corte Costituzionale, secondo il tribunale marchigiano,  affermava il   diritto del singolo a porre fine alla propria vita ma non anche  il  diritto di  ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di porre fine alla propria esistenza.

Contro questa decisione fu proposto reclamo al collegio che valorizzò un altro  punto della controversia e cambiò la decisione del giudice monocratico.

Si tratta di stabilire, afferma il giudice di Ancona, fino a che punto può essere valorizzato e garantito il diritto all’autodeterminazione del malato nelle scelte e nelle terapie, nel caso in cui il quadro patologico sia ormai irreversibile.

Occorre comprendere, prosegue, in assenza di una disciplina puntuale, se tra le libertà del paziente desumibili dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma della Carta Fondamentale, vada annoverato il diritto alla liberazione delle sofferenze nel più breve tempo possibile oppure il diritto a morire rapidamente e con dignità con conseguente diritto  “a ricevere un aiuto nel morire”.

Il Tribunale Marchigiano, in sintesi, affermò che il paziente aveva il diritto non di pretendere l’assistenza attiva ma di pretendere dall’azienda sanitaria regionale della Marche l’accertamento delle sue condizioni di salute al fine di verificare se vi fossero i presupposti richiamati nella sentenza n. 242/2019 della  Corte costituzionale, ai fini della non punibilità di un aiuto al suicidio praticato in suo favore da un soggetto terzo e la verifica sull’effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco ( Tiopendone sodico la quantità di 20 grammi) prescelti dall’istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile.

IL FRAGILE EQUILIBRIO TRA EUTANASIA E PALLIAZIONE.

C’è da chiedersi se quello che chiede Mario sia effettivamente un suicidio oppure, molto più semplicemente l’accompagnamento alla morte attraverso una tecnica, seppure potente, di sedazione palliativa con un farmaco diverso e più rapido e potente di quelli normalmente utilizzati a tale scopo.

  • Il paziente è in una condizione di accanimento terapeutico.
  • Senza macchine e liberazione fisiologica manuale non può vivere.
  • Interrompere le cure porterebbe comunque ed inevitabilmente alla morte naturale, come in tutte le malattie terminali ma la morte giungerebbe lucidamente e  tra atroci dolori.
  • La differenza è solo nel farmaco utilizzato per sedare il paziente ed accompagnarlo nella sua naturale morte.

Ad avviso di chi scrive, la richiesta di Mario non è di essere ucciso, ma solo di essere sedato rapidamente per essere staccato dalle procedure di assistenza ed andare via senza dolore.

Un distingue etico di non poco conto che si fonda sul punto di partenza del malato destinato o meno ad una morte comunque certa.

Un malato che avrebbe diritto comunque alla sedazione profonda. Il farmaco scelto si distingue solo per la sua rapidità d’azione.

L’OPINIONE DELLA CHIESA CATTOLICA

Nella “Samaritanus bonus” della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita del  22/09/2020 si afferma che  “sotto il profilo clinico, i fattori che maggiormente determinano la domanda di eutanasia e suicidio assistito sono il dolore non gestito e la mancanza di speranza, umana e teologale, indotta anche da una assistenza umana, psicologica e spirituale sovente inadeguata da parte di chi si prende cura del malato”.

Il Magistero della Chiesa ricorda che “quando si avvicina il termine dell’esistenza terrena, la dignità della persona umana si precisa come diritto a morire nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che le è dovuta. Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”.

Prosegue, “nel caso specifico dell’accanimento terapeutico, va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati «non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare. La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria”. Principio fondamentale e ineludibile dell’accompagnamento del malato in condizioni critiche e/o terminali è la continuità dell’assistenza alle sue funzioni fisiologiche essenziali.

In particolare, una cura di base dovuta a ogni uomo, afferma il documento,  “è quella di somministrare gli alimenti e i liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi del corpo, nella misura in cui e fino a quando questa somministrazione dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. Quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa. In questo modo non si anticipa illecitamente la morte per privazione dei supporti idratativi e nutrizionali essenziali alle funzioni vitali, ma si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale. In caso contrario, la privazione di questi supporti diviene un’azione ingiusta e può essere fonte di grandi sofferenze per chi la patisce. Alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile. L’obbligatorietà di questa cura del malato attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale] a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente”.

Un profondo senso religioso può permettere al paziente di vivere il dolore come un’offerta speciale a Dio, nell’ottica della Redenzione, tuttavia, prosegue il documento “la Chiesa afferma la liceità della sedazione come parte della cura che si offre al paziente, affinché la fine della vita sopraggiunga nella massima pace possibile e nelle migliori condizioni interiori. Questo è vero anche nel caso di trattamenti che avvicinano il momento della morte (sedazione palliativa profonda in fase terminale), sempre, nella misura del possibile, con il consenso informato del paziente. Dal punto di vista pastorale, è bene curare la preparazione spirituale del malato perché arrivi coscientemente alla morte come all’incontro con Dio. L’uso degli analgesici è, dunque, parte della cura del paziente, ma qualsiasi somministrazione che causi direttamente e intenzionalmente la morte è una pratica eutanasica ed è inaccettabile. La sedazione deve dunque escludere, come suo scopo diretto, l’intenzione di uccidere, anche se risulta con essa possibile un condizionamento sulla morte comunque inevitabile”.

I termini, in questo contesto sono importanti.

Quando si parla di “suicidio” si parla della scelta deliberata di una persona di mettere fine alla propria vita a prescindere dalla malattia quando, al contrario, si parla di “eutanasia” si parla del diritto di un paziente gravemente malato  di morire naturalmente ma di alleviare il dolore attraverso l’impiego di mezzi per alleviare la sofferenza (per esempio: l’uso di morfina) causa, come effetto secondario, la diminuzione dei tempi di vita.

Le modalità di accertamento di questo confine non sono semplici e coinvolge valutazioni etiche che non possono e non devono essere ignorate come non può essere ignorato il diritto della persona gravemente compromessa ad andare via senza dolore.

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